FULVIA GIACOSA
Non c’è errore. Semplicemente sono veramente pochissimi gli artisti del Novecento e del nuovo millennio che hanno il cognome con la lettera Q. Così ho deciso di aggirare il problema prendendo la prima lettera di una delle più famose opere d’arte novecentesche e, con l’occasione, parlarvi un po’ del grande René Magritte. Aggiungo che è stata necessaria un’altra licenza: l’uso della traduzione in italiano del titolo anziché il francese originale (Ceci n’est pas un pipe).
Chiedo scusa per le libertà che mi sono concessa.
Della biografia di René Magritte (1898-1967) solo poche parole, trattandosi di un autore stranoto. Di origini belghe, dopo una formazione classica e la frequentazione dell’Accademia di Belle Arti a Bruxelles, si ritrova a Parigi nel momento aurorale del Surrealismo, entrando nel gruppo bretoniano. Gironzolava da quelle parti il già noto De Chirico che, col suo “Canto d’amore”, gli trasmette un modo nuovo di vedere, come dice Magritte stesso che definisce il quadro dechirchiriano un pensiero dipinto. D’altronde il surrealismo magrittiano è molto poco onirico e ancor meno legato all’automatismo psichico, anche se dei compagni d’avventura condivide il tema dell’assurdo, il gusto per l’enigma, i giochi di parole, il tutto confezionato con uno stile quasi accademico proprio in contrasto con il contenuto figurativo spiazzante.
Non secondaria importanza ha un fatto tragico della sua infanzia che ispirerà non poche opere tra cui La storia centrale (1928), dal titolo eloquente come se tutto ruotasse intorno a quella “storia”: il suicidio della madre, ritrovata nel fiume Sambre avvolta nella bianca camicia da notte.
Il vasto corpus delle sue opere è tutto dedicato al “tradimento delle immagini”: senso comune e non senso sono paradosso logico-fantastico del suo lavoro, frutto di un temperamento riflessivo e di una maniacale esattezza. Viene spontaneo richiamare la terza conferenza di Italo Calvino sull’esattezza (in Lezioni americane, tenute ad Harvard nel 1985 poco prima della morte, pubblicate postume nel 1988): “Esattezza vuol dire per me soprattutto tre cose: 1) un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato; 2) l’evocazione di immagini visuali nitide, incisive, memorabili; in italiano abbiamo un aggettivo che in inglese non esiste, “icastico”, dal greco eikastikós [che riguarda la rappresentazione]; 3) un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione. … Mi sembra che il linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato e ne provo un fastidio intollerabile”. Calvino cala la questione in campo letterario ma afferma che essa riguarda anche le immagini.
Ma veniamo alla “pipa” o meglio alle pipe poiché vi sono più versioni, spesso sottotitolate Il tradimento delle immagini. La prima, del 1928, è funzionale a chiarire la sua estetica. Dice Magritte in Le parole e le immagini, pubblicato nel 1929 sulla rivista Révolution Surréaliste: “Un oggetto non possiede il suo nome al punto che non si possa trovargliene un altro che gli si adatti meglio”; il testo è accompagnato da un disegno il cui soggetto è un cavallo: a sinistra l’animale è disegnato come fosse ripreso “dal vero” nello spazio aperto, al centro la sua immagine esatta è riportata su una tela appoggiata sul cavalletto (dunque un’icona riconoscibile secondo le leggi della mimesis), a destra c’è un uomo con una nuvoletta contenente la scritta “cheval” (la parola che lo nomina secondo le convenzioni linguistiche). Circa trentacinque anni dopo Josef Kosuth, capofila del Concettualismo, farà tesoro di questo disegno e lo tradurrà nei modi del secondo Novecento: come si fa infatti a non ritrovare Magritte nell’ installazione di Kosuth Una e tre sedie (1965) con l’oggetto reale (una sedia vera appoggiata al muro), la sua fotografia (l’icona) e l’ingrandimento di una pagina di vocabolario che descrive la sedia (la definizione linguistica)?
Il filosofo Michel Foucault ha dedicato un testo alle pipe magrittiane (e non solo alle pipe) nel quale si legge: “Paragonato alla tradizionale funzione della didascalia, il testo di Magritte è doppiamente paradossale. Si propone di nominare ciò che, evidentemente, non ha bisogno di esserlo (la forma è troppo nota, il nome troppo familiare). Ed ecco che nel momento in cui dovrebbe dare un nome, lo dà negando che sia tale”; Magritte peraltro ha studiato a fondo lo scritto del filosofo Les mots et les choses del 1966 e da quel momento ha iniziato a intrattenere con lui uno scambio epistolare, condividendone le riflessioni e confermando la natura concettuale del suo lavoro, come già dimostra l’opera La condizione umana del 1933, primo di una lunga serie di variazioni, che gioca sull’ambiguità tra realtà (una finestra aperta s’affaccia su un paesaggio verdeggiante) e finzione (di fronte alla finestra c’è un quadro sul cavalletto, lo indica la sottile linea bianca della tela, che riproduce in modo assolutamente fedele il paesaggio, anzi ne è la continuazione. Cosa è allora l’immagine dipinta? Magritte con questo inganno visivo ci dice che qualsiasi rappresentazione non può che essere menzogna: le immagini “tradiscono”, sono involucri incorporei, sono “altro” dalla realtà. Semplificando suggerisce: “Chi oserebbe pretendere che l’immagine di una pipa è una pipa? Chi potrebbe fumare la pipa del mio quadro? Nessuno. Quindi, non è una pipa”. La resa nella prima versione del ‘28/’29 è quasi didascalica e la pipa, al centro del quadro, è vista di profilo per chiarire meglio la sua forma ma il contesto è irreale: non poggia su nulla, esiste come pura immagine su un fondale anonimo e uniforme dal colore indefinito, con qualche lama di luce che, pur aiutando ulteriormente il riconoscimento, non basta a inserirla in uno spazio; inoltre la stesura omogenea per cui non c’è traccia delle pennellate contribuisce all’ambiguità (non solo è immagine e non cosa, ma non pare neppure essere “pittura”, se mai una comune illustrazione). Ciò che spiazza è la scritta, in un corsivo da bravo scolaro delle elementari con i suoi sillabari. La trappola è completa. A Magritte non resta che ripeterla con piccole varianti. La “pipa” del 1948 (Il tradimento delle immagini. Ceci n’est pas une pipe) è apparentemente più realistica poiché non rinuncia a un’ombra portata della pipa su un fondo di assi lignei a trompe-l’oeil. È tuttavia evidente che l’uso di una tecnica pittorica basata sull’inganno ottico (questo significa il termine francese) punta ad illudere lo spettatore di trovarsi di fronte al vero, salvo la immediata smentita del titolo. Faccio notare che “ceci” è neutro in francese per cui vale tanto “questa” (la pipa disegnata) quanto “questo” (il quadro, dunque non l’oggetto pipa). La versione del 1966 (I due misteri) che riprende un vecchio disegno di quarant’anni prima, è forse ancora più efficace: qui la pipa si trova inserita in un quadro incorniciato appoggiato al cavalletto che si può confondere facilmente con una lavagna per il fondo nero; la pipa conserva la consueta forma grafica come anche la scritta in corsivo, ma a sinistra fluttua nel nulla una seconda pipa molto più grande, dall’improbabile colore grigiastro, una figura indefinita come un’ombra lieve che pare provenire ormai solo dalla mente o dal sogno. Pittura e parola in quanto forme rappresentative appartengono entrambi alla sfera dei concetti, misteriosi ed enigmatici al confronto della cosalità banale del reale. Scrive Foucault che Magritte intende “separare scrupolosamente, crudelmente, l’elemento grafico dall’elemento plastico: se ad essi accade di trovarsi sovrapposti all’interno del quadro, come una didascalia e la sua immagine, è a condizione che l’enunciato contesti l’identità esplicita della figura e il nome che si è pronti a darle”.
Altri lavori di Magritte ci aiutano a comprendere la sua ricerca estetica. Nella serie La Chiave dei sogni del 1927-’30 compaiono quattro, a volte sei riquadri in ognuno dei quali è raffigurato un oggetto nella solita stesura fredda accompagnato da una parola in corsivo; solo in pochi casi c’è corrispondenza tra oggetto e parola (ad es. “la spugna” per una immagine di spugna o “la valigia” per una effettiva valigia), mentre negli altri tale connessione non esiste (ad es. sotto l’immagine di un coltellino-cavatappi sta la dicitura “uccello” per una vaga similitudine tra l’oggetto dipinto e la parola che l’accompagna). Conferme vengono da opere come La riproduzione vietata (1937) dove un uomo di spalle sta di fronte ad uno specchio, salvo che la figura riflessa, di cui ci aspetteremmo di vedere il volto, è anch’essa di schiena; soltanto il libro appoggiato sulla mensola si riflette correttamente nello specchio; non casuale è proprio il libro scelto, Le avventure di Gordon Pym di Edgard Allan Poe, storia di un uomo che, arrivato alla fine del mondo, si trova ai confini tra reale ed immaginario. Ed è qui che ci porta l’arte intrigante di Magritte.
Vorrei chiudere con Il falso specchio, 1928, un grande occhio che non riflette ciò che gli sta di fronte e perciò “falso” come dice il titolo; in esso è invece presente un cielo percorso da nuvolette bianche e, al centro, la pupilla è nera, impenetrabile, un “sole nero” contrapposto al cielo sereno. Il vero non sta nel “fuori”, ma nel “dentro”, è la mente non lo sguardo – ingannevole illusione – che conduce alla conoscenza. L’occhio dipinto ci guarda e, se dobbiamo dar retta all’etimologia latina, ci “esamina” (da speculum = speculazione) e ci chiede di esaminare a nostra volta l’immagine. Siamo di fronte a un’idea di arte che supera il semplice soggetto figurato per farsi strumento d’analisi conoscitiva dei meccanismi iconici e linguistici. Lo specchio così è metafora tanto dell’illusione ingannevole in quanto semplice riflesso (diramazione etimologica: spectrum = fantasma, simulacro) quanto della conoscenza che sta dentro di noi, un riflesso interiorizzato del mondo.
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