LIVIO BENCIVENGA
Luna, che lenta ti libri salendo nel cielo qual bolla
d’aria che schiara tenebre d’acqua, chiudendo una bianca
scintilla, sottratta alle sfere da cui scese Iride in terra,
luna, tu specchio di sogni, eterna compagna al pensiero
di spiriti soli, fratelli che mai si conobbero e in te
veneravano un nume, amico e silente, di pace concessa,
ora che ogni segreto è svelato, sei resa lontana,
oscillo d’argento sul quale non soffia più il vento, sacrario
di devozioni celate al corto veder delle età.
Persa è la lingua che il ciclico pellegrinaggio parlava,
volta sublime che cadde in scomposte cataste di schegge,
ma ancora tu doni tua luce a chi non ha voce, versandola
lieve qual balsamo infuso a sanare ferite ormai prive
di sangue, eppur vive ove suonano voci spogliate dei corpi.
Tu al tempo sottratta proteggi quello che il tempo cancella
e fai del tuo eterno tornare un sentiero offerto a chi è privo
di strade terrene, sorella, che ammetti benigna lo sguardo
di chi nel ritroso candore sa leggere storie negate.
Contempli immutata il mutevole e t’apri a mani protese
che un tempo stringevano penne su fogli gualciti e scorrevano
logori libri in camere calde d’aromi e tappeti,
dove ogni parola, ogni frase, ogni pagina era una vela
sospinta tra azzurri insondati a coglier future fragranze
di spezie immolate su aurei bracieri, ove ardeva una vita
sperata, e il vociare, il complice scambio di gesti e pensieri,
gli oggetti in comune, il senso d’apprendere e farsi padrone
di quanto era stato precluso alle madri, la gioia d’avere
qualcuno che incontro veniva ad offrire la sua conoscenza
e la gioia di chi la donava, tutto fu rotto dal grido d’un uomo
tornato animale, che muta in violenza l’angoscia di perdere,
chiuso in un vicolo cieco di minorità e di furore.
Adesso l’assenza di luce fa eco al silenzio, ma quando
tu scendi a schiarire le stanze deserte, s’avverte pulsare
la vena che calma rigenera il sangue perduto, saliente
in canti sommessi che paiono andar vaporando nell’aria,
ma non una nota si perde, se ognuna in terra cadendo
continua a brillare qual basolo bianco che segna il sentiero,
solcando d’un fascio di luce un’oscura abissale ferita.
Ora si volge il tuo nume a schiarire diafane voci,
riemerse qual refoli sorti da anguste fessure di pietre
lisce ed uguali, poste a serrare l’ondoso percorso
dei secoli, sulle cui ossa cammina la storia, sorda
ai lamenti dei singoli; voci che solo futura voce
si china a raccogliere. Gocce di sangue seccato che chiudono
mute vicende perdute di gesti e parole svelanti
l’anelito a un volo sospeso nei chiari tornanti dell’aria,
che forte soffiava su imposte serrate il suo invito ad infrangere
grate invisibili e a farsi parti d’un libero corpo,
padrone d’andare e serbarsi individue nel coro comune
del viver, donando fiori spiccati dal serto d’amore
che ad esse fu posto nel grembo da mano divina e dotato
d’eterni germogli, dai quali più belle sorgevan le trame
di vita e valori. Sferzata da un vento di vetro e metallo,
figlio di bocche spogliate del verbo, di menti sfregiate,
di mani sformate da nodi, d’un tetro mentire tacendo,
di tagli inferti alla tela offerta al progresso di tutti,
sembrava segreta cresparsi e spirare ogni goccia, in un chiuso
destino, perduta su aride onde di sabbia, tutte
perennemente diverse ed uguali, ferme e cangianti,
sfornite di nome e di volto, a rendere inutili i raggi
del sole che in esse cercava le tracce di vite represse
in gorghi silenti di urla mutate in altezze di sguardi,
che quando s’ergeva il riverbero a togliere i nomi alle forme,
restavano fissi, oltre il sangue profuso, protesi all’incontro,
oltre il ripetersi d’un orizzonte privato di scampo
e cambiando il soffrire, l’assenza, il chiuso d’invalicabili
mura in campate di ponti, ove i corpi mutavansi in pietre
che, sorte difformi per epoche e storie, legava un’occulta
concordia, segreta armonia del dolore che leviga e salda
volti che non s’incontrarono, eppur si conobbero uguali.
Stillava dal loro soffrire una linfa che lieve scendeva
in sottili universi di vene, orlanti di luce i profili,
tetragone all’urto cieco dell’onde, al salire slabbrato
di piene fangose, al sordo frapporsi di greve materia,
parlando la lingua comune di lor solidali silenzi,
ov’erano scritte le leggi tutrici del bene negato,
e ognuna era candido tempio levato su cime scoscese,
di esili forme, di anime forti, d’eterna sostanza,
sicura dell’altre al cenno di fiamma, che tutte serbavano
tolta all’infero mondo che in basso la vita opprimeva.
Vena su vena s’andavan fra pietra e pietra gemmando
di steli quei minimi spazi, presto cimati di fiori
che solo s’aprivano al tocco di delicatissime dita,
mosse sui loro destini dal tuo orbitare nel cielo,
sorella al creato, che in veste di madre porgevi una via
non più ritrovata di ali notturne e corolle sospese
nell’aria, sottratta ai soffi sabbiosi e agli strepiti stenti
del giorno e su quella plasmavi un futuro impalpabile e vero.
Muovevano strette con lieve ondeggiante armonia, sulle arcate
campite dal tuo avanzare nel cielo, e loro s’offriva
sul frangersi d’acque un ponte di spirituale sostanza,
misterico incontro di sorti filtrate da storie diverse,
intente a lasciare che il male di prima scadesse in effimero
scorrere, in segno inerte servito a fendere un varco
a un futuro d’eterna durata, destino mutato in fragranza
che permei l’aria e s’infonda nel soffio vitale del tutto.
Fu lì che vedesti il sangue versato in forma plasmarsi
d’offerta recata su mani di madri orbate dei figli,
di figlie spogliate d’infanzia, di bimbe private di scuola,
di spose senza consenso e compagne ridotte in possesso;
sangue di sacro consorzio, che intero fu accolto in votivo
cratere, ostenso da braccia protese a difendere colli
vergati di viole, stagliati ad imprimere i loro profili
su mura che primo il pensiero varcava, e sentivano i piedi
il sentiero, al cui sommo libravansi in ali a scandire la volta
ove ognuno poteva vedere effigiato il riscatto di sua libertà.
A queste e alle altre che furono in terra private dei volti
tu, luna, fai dono del tuo, candore gentile che accogli
il male salito da inferi globi e lo sani tornando
a diffonder la luce che fa patrimonio di tutti le storie
d’anime offese alle quali bendasti le piaghe, sorella.
LIVIO BENCIVENGA è nato a Roma, dove vive e lavora; le sue occupazioni non hanno diretta attinenza con ciò che scrive. Crede in una poesia che sia voce donata agli altri, soprattutto a chi non la ha.
(Il dipinto di Volker Böhringer, del 1935, è conservato presso il Museo Städel di Francoforte, che non chiede diritti per i suoi quadri, a meno che non se ne faccia un utilizzo commerciale)