CLAUDIO SOTTOCORNOLA
Per parlare di trascendenza dell’anima dobbiamo prendere atto di una vasta letteratura che, dall’Antico Testamento in poi, riferisce esperienze di un qualche contatto degli umani con tale trascendenza, per esempio nei sogni o in apparizioni straordinarie, di cui furono destinatari patriarchi, profeti, santi e mistici nei secoli, ma probabilmente anche persone comuni. Anche se tale fenomenologia va continuamente vagliata rispetto a standard di credibilità e verosimiglianza, essa coinvolge esoterismo, esegesi biblica, agiografia, psicologia, e costituisce un serbatoio di analisi del rapporto che gli esseri umani intrattengono con l’al di là, come acutamente intuì Carl Gustav Jung, il grande psichiatra e filosofo svizzero, che ne fece l’oggetto dei propri approfondimenti scientifici.
Ma è possibile ipotizzare un contributo della scienza allo studio dell’anima e del suo destino? Evitando ingenuità di matrice positivista, constatiamo tuttavia che, se alla scienza non compete dare risposte ultime, pertinenti piuttosto alla filosofia e alla teologia, ad essa spetta però la missione di chiarire l’ambito dei fenomeni della vita, fornendoci almeno gli strumenti per rispondere meglio a tali domande. Pertanto, nel mondo contemporaneo, taluni studiosi, come il neuropsichiatra americano Gary Schwartz dell’Università dell’Arizona, si sono spinti a realizzare esperimenti controllati relativi all’operato di alcuni medium, giudicati potenzialmente credibili, per vedere se essi fossero realmente in grado di comunicare con entità spirituali di trapassati, al vaglio di un adeguato approccio scientifico. Ebbene, tali esperimenti attesterebbero, secondo gli autori, la significanza scientifica di fenomeni di manifestazione di soggetti sussistenti nella loro realtà personale in altre dimensioni da quella fisica, e in grado di comunicare con questi attraverso i medium stessi. Una sintesi di ciò è stata pubblicata in G. Schwartz, “Esperimenti sull’aldilà”, Mondadori, 2003, suscitando riserve e perplessità, ma anche non poca attenzione e curiosità.
Negli ultimi decenni poi, grazie anche alla enorme diffusione attraverso il web, si sono moltiplicati i casi segnalati delle cosiddette “esperienze di premorte”, oggetto di interesse, in virtù della loro frequenza e delle analogie narrative, anche da parte degli scienziati (che ne forniscono interpretazioni diverse), le quali sembrano concordare rispetto ad alcune modalità di fondo: si tratta di testimonianze di individui che, caduti in coma, avrebbero percepito di abbandonare il proprio corpo librandosi sopra di esso, entrando in una specie di tunnel o vortice che orientava verso una meta luminosa e irresistibilmente attraente, in quanto sorgente di amore, gioia, benevolenza. Per qualche ragione, di solito connessa all’intervento di un medico, lo spirito sarebbe poi rientrato nel corpo superando il coma, ma conservando una struggente nostalgia per quel mondo, una sorta di al di là paradisiaco, che l’anima aveva per un attimo lambito.
Del resto, in tempi nei quali la scienza non avrebbe ancora azzardato tali sconfinamenti, è stata la filosofia ad esercitarsi nella annosa questione dell’anima e delle eventuali modalità della sua sopravvivenza nell’al di là. Uno dei più grandi pensatori cristiani del ’900, Jacques Maritain, in “Approches sans entraves”” (Fayard, 1973), nel saggio-conferenza Seguendo piccoli sentieri, sulla scia del pensiero di Tommaso d’Aquino, tenta di immaginare la condizione delle anime nell’al di là, concludendo che il loro aspetto non potrà includere principi di declino organico, essendo il mondo trascendente privo di corruzione e morte, e dunque potrà assomigliare a quello di una giovinezza e di una bellezza compiute, vivendo per l’eternità in maxima perfectione naturae (humanae): “… Attraverso la loro bellezza visibile e tangibile si manifesta lo splendore dell’anima che ora vede Dio. Dall’ordine biologico, proprio dello stato itinerante, si è passati all’ordine estetico. Mentre nell’anima dei beati risplende la trascendentale Verità, nei loro corpi risuscitati risplende la trascendentale Bellezza”.
Anche se l’indagine umana riesce solo a evocare tale condizione trascendente dell’anima, non sembra del tutto inutile lo sforzo che la filosofia, per esempio, ha realizzato nei secoli, per definire la condizione dell’anima e il suo destino, a partire da Platone che, nel celebre dialogo “Fedone”, evidenziava come la capacità di universalizzare della nostra coscienza, cogliendo il mondo delle idee ed elevandosi quindi oltre il molteplice sensibile, fosse in certo qual modo una sorta di prova implicita della sua natura immateriale e trascendente tale mondo sensibile.
Leibniz, nella “Monadologia” (1720), tratta della celeberrima teoria delle monadi o “forme sostanziali dell’essere”, specie di atomi spirituali, non scomponibili, individuali, eterne, che, seguendo leggi proprie, non interagiscono, riflettendo ognuna di esse l’intero universo secondo un’armonia prestabilita. L’assoluta semplicità, ovvero mancanza di composizione delle monadi in parti, ne implica l’eternità, e dunque comporta l’immortalità delle singole anime.
Kant, nella “Critica della ragion pratica” (1788) giungerà ad affermare il carattere razionale della fede nell’esistenza dell’anima e nella sua immortalità, laddove l’esperienza della moralità nell’uomo sarebbe rivelativa della sua libertà intrinseca, e questa avrebbe come condizione del proprio realizzarsi appunto l’immaterialità dell’anima e la sua immortalità, a garantire quella perfezione morale che solo trascendendo l’ordine fisico appare possibile, e che solo nella dimensione dell’al di là si vedrebbe garantita quella perfetta proporzione tra virtù e felicità che Dio assicurerà al giusto come sommo bene.
Padre Giuseppe Barzaghi, filosofo, teologo e, dal 2021, preside dello Studio filosofico domenicano di Bologna, ha dialogato a lungo con Emanuele Severino, artefice della teoria degli “Eterni”, che afferma il carattere permanente e immortale di ciò che appare, nel tentativo, peraltro apprezzato dal filosofo, di conciliare la sua posizione con l’esigenza di salvaguardare l’ordine della trascendenza cristiana. In “Oltre Dio” (Barghigiani, 2000), così argomenta P. Barzaghi: “Se il Cristianesimo è essenzialmente la partecipazione della vita di Dio, cioè della vita eterna, per comprenderlo occorrerà porsi dal punto di vista di Dio, cioè dell’eterno”. Il punto di vista sub specie aeternitatis diventa dunque la condizione attraverso cui guardare con uno sguardo più penetrante e rivelativo alla realtà tutta: se ogni cosa è eterna, e dunque lo è anche il suo apparire, esso deve continuare anche quando non appare più alla mia coscienza, e quindi può farlo solo alla coscienza divina. Tale scientia Dei visionis avrebbe “la fisionomia dell’apparire infinito di cui parla Severino” e nell’atto creatore intemporale risiederebbe la consistenza della totalità delle creature, secondo la dimensione evocata dal Deus omnia in omnibus di origine paolina.
Nel suo ultimo libro, “Irriducibile” (Mondadori, 2022), Federico Faggin, fisico e artefice di una fondazione dedicata allo studio scientifico della coscienza, afferma che la dimensione della coscienza è caratterizzata da sensazioni e sentimenti significativi, detti qualia, che comportano il significato di ciò che si conosce, secondo un’esperienza privata e individuale, e in quanto tale non misurabile. Questa condizione della coscienza consente a Faggin di ribaltare la rappresentazione scientifica prevalente, secondo cui la coscienza sarebbe effetto del cervello, per affermare al contrario che “tutto ciò che esiste emerge da enti fondamentali coscienti simili alle monadi di Leibniz”. È suggestivo ed emozionante vedere come la stessa fisica contemporanea possa condurci su strade che evocano l’irriducibilità alla mera quantità e la strutturale dimensione privata, qualitativa, personale della coscienza, dunque libera e trascendente.
Sul piano strettamente teologico, oggi gli studi biblici, grazie all’approccio storico-critico, consentono una lettura più rigorosa e realistica dei testi sacri e, relativamente alle pagine evangeliche riferibili all’esperienza della resurrezione di Gesù, ci spogliano di ridondanti certezze storiche per inoltrarci nelle profondità metastoriche di una fede finalmente maggiorenne. Così, a fronte delle discrepanze dei testi neotestamentari in proposito, per esempio quanto alla scoperta della tomba vuota, ai luoghi delle apparizioni, al numero e all’identità dei destinatari, ma anche alle stesse modalità di tali apparizioni, quel che rimane è una esperienza folgorante per la comunità che si era raccolta intorno a quel Gesù di Nazareth ucciso nel modo più infamante, e misteriosamente tornato presente nel cuore, nella mente e negli occhi di coloro che lo amavano.
È questo l’argomento che storicamente tiene su ogni altro, relativizzando persino la modalità di ciò che lo ha generato, quello che la tradizione chiama della causa proporzionata, per la quale la trasformazione degli apostoli e discepoli di Gesù non potrebbe essere spiegata da una menzogna, che mai avrebbe potuto motivare i primi cristiani a rischiare la vita e a morire per essa. Piuttosto, proprio l’esperienza metastorica della risurrezione sarebbe la causa proporzionata appunto, nella sua straordinarietà, all’effetto dirompente ottenuto, che ha trasformato la storia coinvolgendo miliardi di esseri umani in una inedita avventura ontologica orientata alla trascendenza.
Ecco allora che, nel moltiplicarsi di opportunità cognitive e comunicative in questo nuovo millennio, anche nel pensare l’anima e il suo destino non possiamo non attingere alle potenzialità di quell’immenso serbatoio che è l’intelligenza umana in tutte le sue forme ed espressioni, a suggerirci che trascendenza è oltrepassamento, e che proprio in ciò sta il destino dell’anima. Un destino non solitario, ma comunitario e corale, per cui se pensare l’anima porta a pensare Dio, pensare Dio porta a pensare il mondo come integralmente coinvolto nell’avventura dello Spirito, e in esso eternamente salvato.
(da Claudio Sottocornola, A che punto è la notte?, Oltre Edizioni, 2024, versione integrale pp. 72-89)