GIORGIA DE CAROLIS
Alcune persone rimangono impresse in ricordi apparentemente insignificanti che riaffiorano nei momenti più inaspettati. Spesso non si tratta di persone con cui intrecciamo legami importanti o che conosciamo approfonditamente, né soggetti da cui siamo attratti o disgustati. Si tratta di uomini o donne marginali – nei confronti del nostro vissuto – che per qualche ragione riescono a ritagliarsi uno spazio nella nostra testa silenziosamente, in punta di piedi.
Una di queste, per me, è Marita.
Marita e la sua vaporosa capigliatura bionda demodé si piazzavano in casa mia una, massimo due, volte all’anno per prendere il caffè insieme a mia madre che, troppo gentile per denigrare le visite di una vicina di casa, sfoderava insieme ai pasticcini un sorriso verosimilmente sincero. Anche mentre lo sguardo fuggiva verso le lancette dell’orologio, lentissime.
Marita era la quinta essenza del kitsch: indossava vestiti sgargianti con spalline anni ’80 alle soglie del XXI esimo millennio, scarpe da cerimonia anche quando doveva recarsi a casa di un’“amica” e un rossetto metallizzato rosa bonbon le colorava quelle che sembravano delle labbra vedove di baci. Le stesse che si muovevano quasi impercettibilmente per pronunciare le solite frasi di circostanza con tono svenevole. Tutte le volte portava con sé un dono di quelli che, dopo esser stato scartato con curiosità inversamente proporzionale al numero delle visite, venivano prontamente rimpacchettati per essere regalati a un lontano parente durante le feste.
Mentre mia mamma e Marita parlavano in cucina io guardavo i cartoni animati pomeridiani, ma sentivo le loro chiacchiere. Era sempre la stessa storia: i problemi di salute (alle gambe, allo stomaco), i problemi con il marito, con i parenti del marito e un figlio, qualche anno più grande di me, che “chissà se un giorno si sposerà”, un dubbio amletico che l’assillava dal mattino alla sera.
Una o due volte all’anno Marita invitava me e mia madre a casa sua per un caffè, che io, all’epoca, non potevo ancora bere. Tuttavia, ne approfittavo per riempirmi la pancia di dolciumi, nello specifico le adorate caramelle Cri Cri che i miei genitori non compravano più da quella volta in cui ne finii una confezione nell’arco di pochi minuti. Non erano solo i dolci il motivo per cui, invece di giocare, mi recavo con mia madre in quell’appartamento pieno di centrini e ninnoli, c’era qualcosa di curioso nella persona di Marita e nei suoi racconti.
A suscitare il mio interesse era il fatto che un’adulta venisse presa in giro da suoi coetanei, cosa che allora credevo impossibile dal momento che uno dei motivi per cui si veniva sgridati da un genitore era proprio quello: “Non prendere in giro gli altri bambini, cresci!”.
Appena Marita lasciava il nostro pianerottolo si sentivano bisbigli sul suo abbigliamento, accompagnati da risatine sommesse, soprattutto femminili. Le voci raccontavano che da piccola fosse già strana, solita a collezionare coccinelle per poi cercare di venderle come portafortuna. La sua ingenuità era rimasta identica. Da adulta, così come da piccola, continuava a non accorgersi delle risate e degli scherni. Solo che ora, anziché le coccinelle, provava a vendere prodotti Avon, sempre senza successo.
Ma torniamo a quei pomeriggi nel regno del kitsch. Mentre il tintinnio dei cucchiaini risuonava nel salotto io cercavo di sbirciare nella stanza di Ivan: sempre con la testa china su un libro, a malapena mi salutava. A ben pensarci rappresentava lo stereotipo del ragazzo solo e problematico che da Beverly Hills 90210 a The O.C. ha fatto credere alle ragazze della mia generazione che “triste” e “musone” fossero i sinonimi di “affascinante”. Ma allora, fortunatamente, sbavavo solo per le Cri Cri.
Mentre il tempo scorreva lentamente tra vezzose zuccheriere e paste secche che parevano dei pezzi d’antiquariato, Marita raccontava naturalmente quelle che mi sembravano vicende incredibili, anche davanti a me, come se fossi un’adulta. Ricordo la storia di un furioso litigio con quella che credeva un’amica, giunto a un climax di follia tale da far trovare il nasino incipriato di Marita a pochi cm da una pistola.
Mi sembrava impossibile che una persona come quella, che io reputavo infantile nonostante fosse adulta, riuscisse a finire in situazioni da serie true crime. Lei che vendeva rossetti e stirava centrini tutto il giorno, che non usciva quasi mai e che aveva una voce così fragile da tremare a ogni parola.
Non si riusciva mai a capire cosa fosse inventato e cosa vero dei suoi racconti, ma la potenza drammaturgica del suo sguardo così serenamente malinconico, anche mentre sorrideva, era magnetica. Ricordo che a un certo punto le donne del quartiere, a parte mia madre che con il suo grazioso carattere naif che ho ereditato stava sempre fuori dagli schieramenti, iniziarono ad accanirsi contro di lei dicendo che metteva in giro strane storie sul marito di una di loro e sul suo presunto passato carcerario. Se Marita fosse succube delle frottole di chi si prendeva gioco di lei o una donna dalla fervida immaginazione per colmare una vita piatta passata in solitudine, non è dato saperlo. Forse era entrambe le cose.
Col passare degli anni i caffè-kitsch andarono diminuendo, io entrai nell’adolescenza e sostituii le Cri Cri con il Topexan. Ora che la mia attenzione veniva attirata da problematici introversi alla Ryan Atwood o lagnosi cinefili alla Dawson Leery, i racconti di Marita non mi colpivano più come prima. I nostri incontri si limitavano a sporadici saluti in cortile – a volte, la evitavo di proposito – in cui lei mi ripeteva sempre, come un cyborg programmato: «Venite tu e tua mamma a prendere un caffè a casa mia!» e «Sei sempre più bella, quando ti sposi? Spero presto».
Ripenso spesso a Marita. Passando davanti al condominio in cui viveva sento ancora l’odore pesantemente fruttato della sua casa, rivedo i suoi soprammobili in ceramica e sento sua risata asmatica. Mi trovo incredula nel constatare quanto sia precisa la mia memoria fotografica quando ripenso al suo sguardo buffo e malinconico.
Tempo fa smise di lavorare a causa dei continui litigi con chiunque avesse a che fare ma soprattutto a causa del diabete, uno dei motivi per cui, a 50 anni, morì. Fortunatamente dopo aver partecipato alle tanto agognate nozze del figlio.
Nota Per quanto riguarda me: sono riuscita a sopravvivere all’adolescenza. Oggi mangio di nuovo le Cri Cri e ho capito, a mie spese, che problematico non è sinonimo di affascinante.
(L’immagine è stata realizzata dall’autrice con l’assistenza dell’intelligenza artificiale generativa di OpenAI.)