P come Povera (Arte) + Pascali

FULVIA GIACOSA

La più vitale neo-avanguardia italiana degli anni Sessanta e Settanta è nota come “Arte Povera”. Si tratta di un nutrito gruppo di artisti, per lo più nati tra gli anni Trenta e Quaranta, di cui ben quattro hanno il cognome che inizia per “P”: Pino Pascali, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto e, in parte, Giulio Paolini;  al primo dell’elenco, in quanto forse meno noto a chi legge, dedichiamo parte di questa scheda.

Come sempre avviene, c’è stata una fase propedeutica al formarsi del gruppo: già nel 1963 Pistoletto (Biella, 1933) aveva introdotto nuove modalità artistiche quando alla Galleria “Galatea” di Torino aveva presentato le prime“opere specchianti” con collages fotografici su lastre metalliche tirate a specchio in cui si riflettevano i visitatori. Tuttavia il termine “arte povera” viene coniato solo nell’autunno del 1967 dal critico genovese Germano Celant in occasione della mostra alla Galleria “La Bertesca” di Genova dal titolo “Arte Povera e Im-Spazio”, dove im sta per immagine. Nello stesso anno il critico pubblica l’ articolo “Arte povera. Appunti per una guerriglia”: “appunti” poiché non si tratta di un manifesto in senso novecentesco ma di una serie di notazioni e un discorso aperto e “guerriglia”  perchè sottolinea un combattimento rivoluzionario tutto interno al fare artistico, un’urgenza liberatoria dalle consuetudini, anche quelle più recenti. Scrive Celant: “Sentivo che c’era un clima nuovo … Allora in Italia c’era l’invasione americana … Tra il ‘66 e il ‘67 sentii che stava succedendo qualcosa nell’arte, che non era la pittura pop né il minimal. …Avevo aperto la Bertesca, una galleria aperta all’arte di avanguardia, dove ho fatto le prime mostre di Arte Povera. Era una realtà fluida, in divenire, che cambiava costantemente da una mostra all’altra.”. E sul catalogo della mostra si legge: “Gli artisti utilizzavano materiali come il carbone, giornali o fascine di legno, e quindi mi venne in mente la parola ‘povera’. Il riferimento al teatro povero di Grotowsky è arrivato più tardi, allora non lo conoscevo perché c’erano poche informazioni su quello che accadeva fuori dall’Italia”. Il termine “povera” prende le distanze da un’arte “ricca”, splendente di colori industriali su banali oggetti della realtà consumistica e pubblicitaria, preferendole una “regressione dell’immagine allo stadio pre-iconografico” (ancora Celant). In un periodo di dominio dell’arte USA già iniziato nei Cinquanta con l’Informale, il critico intende fare spazio alla specificità della più recente arte italiana d’avanguardia attraverso una storicizzazione immediata, un po’ com’era stato per il Futurismo di inizio secolo. Col senno di poi Celant è stato profeta se si pensa al successo che nei Settanta l’Arte Povera ha registrato e registra ancor oggi tanto in Europa come al di là dell’oceano. Alla prima mostra, ancora di nicchia, se ne aggiungono moltissime nel decennio Settanta; in Italia sono fondanti quella di Amalfi “Arte Povera + Azioni Povere” del 1968, con dibattiti, lavori, performances che invadono l’arsenale, la città e la spiaggia, segnando lo spostamento dall’opera-oggetto al processo-evento; quella alla GAM di Torino nel 1970 “Conceptual Art Arte Povera Land Art che individua nuove assonanze tra correnti vicine, con opere di ben 45 artisti che partecipano alla mostra in un clima di collaborazione e confronto senza le rivalità che si registreranno nei decenni successivi; quella alla Galleria De Foscherari di Bologna del 1971, seguita da un convegno-dibattito dal titolo “La povertà dell’arte”; infine la presenza a più di una Biennale veneziana. In Europa sono significative le mostre che accolgono l’Arte Povera tra altri gruppi affini: quelle di Dusseldorf (“Prospect 68”), di Zurigo (“When Attitude Become Forms”, 1969), di Monaco (“Arte Povera”, 1971), mentre negli USA è inizialmente la mostra “Nine at Castelli” del 1969, curata da Robert Morris, a dare dimensione internazionale alla corrente italiana. Ancor oggi le retrospettive dei poveristi ottengono plausi dalla critica e grande interesse presso pubblico e collezionisti (le più recenti, del 2024 a Parigi e a Torino al Castello di Rivoli che ha ideato la mostra “Ouverture 2024” riprendendo il titolo “Ouverture” di quella inaugurale (1984) e  lo stesso spirito di allora nel privilegiare esperienze artistiche recenti quando non addirittura “sorgive”.
Ma torniamo a noi.
Il critico G. Celant ha creato in un vero e proprio gruppo “nazionale” da promuovere su larga scala sotto un titolo che lo facesse identificare immediatamente, pur conscio  delle diversità che si precisano con il proseguire delle ricerche personali. Punti fermi sono:  l’abbandono di qualsiasi canone e l’impiego di tecniche inusuali in favore di una totale libertà creativa; la preferenza del medium installativo e/o performativo rispetto al quadro o scultura; la conseguente sostituzione della presentazione con il processo (arte intesa come luogo di relazioni); un nuovo stretto rapporto arte-vita, arte-natura, arte-energia; il disinteresse per gli eccessi tecnologici (artigianalità versus industrializzazione); l’uso di materiali  poveri sia che si tratti di elementi della natura – legno, stoffa, terra, foglie, fino agli animali vivi di Kounellis – oppure di scarti industriali in grado di evocare un linguaggio originario prima che originale. Insomma l’arte si fa “povera” in senso lato e precaria in quanto evento. Celant chiarisce che “il processo linguistico consiste nel togliere, nel ridurre ai minimi termini, impoverire i segni per ridurli ai loro archetipi … Siamo in un periodo di decultura. Cadono le convenzioni iconografiche e si sbriciolano i linguaggi simbolici convenzionali”.

Le due città che più hanno contribuito alla fortuna dell’Arte Povera sono Torino (Anselmo, Boetti, Penone, Pistoletto, Merz, Zorio, Gilardi, il Paolini pre-concettuale) e Roma (Pascali, Fabro, Calzolari, Kounellis). A Torino nel decennio Sessanta fioriscono nuove e coraggiose gallerie d’avanguardia, luoghi di ritrovo per collezionisti, critici e artisti ancora poco conosciuti a parte qualche eccezione (Pistoletto, Zorio). Scrive Sperone, uno dei primi galleristi ad aver capito la svolta: “L’arte povera ci ha messo degli anni, anni difficilissimi, però aveva una capacità di sogno, che poi era la stessa che avevano gli studenti,  quelli che volevano fare la rivoluzione”. La sua galleria, un ambiente piccolo a corridoio, si trasferisce nel 1964 in un grande e vecchio edificio industriale di Torino per poter realizzare mostre collettive più ampie e lavori di grande formato. Altre gallerie torinesi sperimentali sono la Stein e quella di Luciano Pistoi che organizzano conferenze, discussioni, convegni e che sono in stretto contatto con prestigiose gallerie americane (Castelli) e francesi (Sonnabend) che sono il passe-partout per il successo internazionale dell’Arte Povera. A Roma – dove il clima è diverso da quello torinese e caratterizzato da un incrocio costante tra gallerie d’arte, cinema, televisione, teatro, letteratura – c’è già il gruppo detto “Scuola di Piazza del Popolo” di matrice pop ma in forme decisamente originali, con due outsider che poi entreranno nella schiera poverista (Kounellis e Pascali). Tale gruppo si appoggia inizialmente alle gallerie “La tartaruga” di Plinio De Martiis attiva dal 1960 al 1968 e “L’Attico” diretta da Fabio Sargentini fin dal 1957.

Pino Pascali (1935-1968) nasce a Bari, cresce a Polignano a Mare e poi frequenta l’Accademia di Belle Arti a Roma dove ha come maestro Toti Scialoja, poeta, scrittore di libri per bambini da lui illustrati, performer, fotografo e scenografo oltre che pittore e scultore. L’allievo inizia a lavorare come grafico pubblicitario e scenografo per la televisione (molti gli interventi per il “Carosello”), cosa che gli consente una sicurezza economica per potersi dedicare alla personale ricerca artistica. Nonostante la brevità della sua vita (a 33 anni muore in un incidente in moto) Pascali ci ha lasciato una nutrito corpus di opere concentrate in una decina di anni. Con l’amico Kounellis presto sperimenta percorsi originali e anticonformistici che trovano spazio in alcune mostre di rilievo concentrate negli ultimi quattro anni di vita. Tra le installazioni troviamo prelievi “tal quali” di vecchi attrezzi legati alla tradizione contadina della sua terra (“Attrezzi agricoli”, dal 1965): il prelievo era tipico del New dada e della Pop Art, ma gli oggetti di Pascali non sono quelli del massificato mondo americano bensì quello povero del sud d’Italia che ha a che fare con il duro lavoro della terra. In quell’anno ottiene la prima personale alla galleria romana “La Tartaruga” con un discreto successo di critica internazionale. Nel 1966 espone alla galleria “L’Attico” lavori caratterizzati dalla volontà di coinvolgere il più possibile il pubblico proponendogli una semplificazione delle complesse forme del mondo. Nello stesso anno incontra il critico Maurizio Calvesi che lo mette in contatto con la nascente Arte Povera torinese e realizza diverse versioni di “Mare” (1966-’67), la più nota delle quali è conservata alla  Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma col titolo “32 metri quadri di mare”, una installazione-omaggio all’amato mare della Puglia natia, ponendo a pavimento vasche in alluminio zincato una accanto all’altra che nell’insieme occupano la metratura indicata dal titolo, colme d’acqua mescolata al colore blu all’anilina a formare un mare artificiale, lavoro di stampo minimalista. Si tratta di un esempio di processualità dell’opera: nel tempo infatti  l’installazione subisce dei cambiamenti come la diminuzione del livello dell’acqua che in parte evapora e  il colore che si modifica perdendo smalto per cui va “ricostituita” con nuovo liquido. L’arte rinuncia alla sua durata eterna e si trasforma in un processo in fieri. È con questa installazione che comincia la fortuna critica per l’autore come dimostrano gli interventi dei migliori critici del tempo e le tante mostre che si susseguono in Italia e all’estero fino alla sua morte nel settembre de1968, anno di creatività frenetica su nuove tematiche e nuove tecniche, quasi presagisse un bisogno di accelerare il lavoro. Pascali dà vita una serie di opere che richiedono al visitatore d’essere vissute, non solo guardate, tant’è che l’artista è quasi sempre presente in mostra e fa da battistrada agli spettatori, cosa documentata da una serie di fotografie di lui che s’infila e fa capriole entrando letteralmente in esse.  I soggetti sono per lo più animali: una anticipazione era stata  “Ricostruzione di un dinosauro” del 1966; ora sono balene, ragni, bruchi che paiono nati dalla mano di un mago-bricolour per far divertire bambini ed adulti: ecco la “Vedova Blu” (1968), un enorme ragno in finta pelliccia sotto il quale ci si può infilare per giocare a nascondino. La passione per i giocattoli e il modellismo sono anche lo starter per i “Bachi da setola” (1968), grandi bruchi artificiali realizzati con setole acriliche e stesi a terra in modo casuale, il cui titolo è un calembour che unisce il naturale (bachi) con l’artificiale (setole). Pascali usa sempre più spesso materiali extra-artistici come bitume, latta, cuoio, metallo, polistirolo, plastica, cartapesta. Nel ciclo delle “Armi giocattolo” (carri armati, siluri, missili, bombe a mano, cannoni, tra cui la prima, un cannone titolato “Bella Ciao” del 1965) c’è il ricordo di quando a cinque anni con la madre faceva avanti e indietro su navi militari (se ne stava rischiosamente sul ponte a scrutare gli aerei nemici in volo) per andare a trovare il padre, funzionario di polizia che era stato trasferito a Tirana durante il conflitto tra il ‘40 e ‘41. Le armi sono enormi giocattoli realizzati con l’assemblaggio di pezzi metallici di recupero o compensato e dipinti con colori militari per renderli più verosimili, scherzi formali di sottile ironia, così fedeli al vero anche nelle dimensioni così da ingannare lo spettatore. Calvesi le definisce “una recitazione esibita, un comizio pacifista, un pomeriggio di giochi, una brutta avventura della fantasia”; per Pascali sono inganni visivi che trasformano la paura della guerra vera in una esperienza ludica, quella finta che s’inventano i bambini. Nulla di estetico (“io le ho soltanto ridipinte”, dice) né tanto meno di politico, anche se non va escluso un riferimento alla guerra del Vietnam. La galleria romana di De Martiis però si rifiuta di esporle e le opere vengono spedite a Torino per una mostra da Sperone grazie all’interessamento di Michelangelo Pistoletto che aveva visitato lo studio di Pascali a Roma; i due condividevano l’idea di far entrare lo spettatore nell’opera, sia pure in modalità diverse (Pistoletto aveva già iniziato nel 1962 la serie dei “quadri specchianti”, lastre metalliche in cui si riflettono i visitatori diventati parte attiva dell’opera). E’ così che Pascali entra tra i poveristi torinesi ai loro esordi.
Purtroppo il destino ha troncato l’iter di un artista estroso, ironico e contemporaneamente serio e profondo e la sua “leggenda” è sostanzialmente iniziata quando si è chiusa la sua esistenza.
Nell’ autobiografia incompiuta, pubblicata postuma solo nel 1983, Pascali ci racconta come tutto è iniziato: “Sono nato nel 1935. I miei primi giochi erano basati soprattutto sulla guerra. I miei primi giocattoli erano mucchi di oggetti trovati in casa che rappresentavano armi: per esempio un fagiolo diventava una pallottola, un bastone di scopa ed una scatola tenuti insieme da un elastico diventavano un fucile, un rotolo di carta legato ad uno sgabello un cannone, una pentola un elmetto, due pezzi di legno inchiodati una sciabola, tre pezzi di legno un aeroplano e così via. Il mio rapporto di gioco con gli altri bambini era in gran parte basato sulla rappresentazione eroico-guerresca dei grandi (i nostri padri erano in guerra!)”. È come se l’esperienza infantile fatta di giochi si mantenesse nell’età adulta in un’arte che si solleva al di sopra d’ogni negatività per ritrovare un sorriso.

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