Il mondo intatto di Laura Recanati

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Dalla prefazione di Tommaso Di Dio

La scrittura di Laura Recanati sembra dapprima volerci rassicurare. In principio tutto è così innocuo: il libro parte con un verbo al passato e ci parla di luce, alberi e aiuole. Bastano, però, pochi versi, poche parole e lentamente scivoliamo, senza quasi accorgercene, in un incubo denso, bianco come la neve, ma che ha il sapore acre e ferroso del sangue e della verità. Non c’è niente in questa stanza./ Ci sei solo tu: la poesia ci introduce in una sorta di presente scosceso, un rito personalissimo, il falò di una memoria troppo bruciante e fondamentale per essere soppressa e tacitata in un angolo nascosto della mente. Quell’angolo – lo capiamo presto – ha due occhi, due braccia, un corpo e una voce femminile; si colloca nel bagliore bianco di un ospedale, gioca da sola con una moneta, è circondata dalle figure ambigue e angeliche di medici e medicine e vive fra altre sorelle, pazienti come lei. L’ombra di una gemella invoca la presenza, il suo silenzio chiama la parola e viceversa. Questo libro è, in fondo, il tentativo (riuscito) di un esorcismo: un fantasma deve andarsene per lasciare definitivamente il posto a una vita ritrovata. Sullo sfondo di un mondo luccicante e intatto perché infrangibile, puro mondo di esistenza infinita e indifferente, ogni poesia tira al cielo la moneta della memoria, evoca un frammento di questo passato e lo scaccia via per sempre. Recanati ci dice che una scelta va fatta e la poesia qui diventa un gioco mortale. Per una delle due ombre infatti non ci sarà scampo: Tieni questa moneta, lanciala in aria./ Se è testa muori tu, se è croce muoio io./ Non possiamo più vivere entrambe. Nel vuoto di ogni lancio, il dolore è il cucchiaino che si riempie di sangue, è il tumore che si intravede nella luce delle stelle, è una bomba nella bocca; ma a ogni pagina, a ogni poesia, questo male evocato evapora e si fa chiarore, spazio, diventa parola e poi nulla del fiato. A un certo punto troviamo i versi: La nostra allucinazione/ era la mancanza. In un mondo di patologie immedicabili, dove anche il desiderio di guarire diventa una forma di ossessione, saper percepire e accettare la propria mancanza è la paradossale allucinazione di chi ha imparato a traguardare la soglia della sanità e sa riconoscersi oltre il paradigma della malattia, ma non a smarrirne il sempre imminente presagio. [...] Al dolore bisogna dar retta – scrive Recanati – è necessario attrezzarsi in anticipo per quando/ dovrà partorire altri cuccioli di pianto; la poesia è, forse, solo il modo di stringere con se stessi questa promessa, un modo per non perdere mai, sotto la lingua, questa piccola moneta.

Da Il mondo intatto (Mar dei Sargassi Edizioni 2024, collana Apnea)

Non c’è niente in questa stanza.
Ci sei solo tu. Che boccheggi,
che bevi latte. Che giochi
con una piccola moneta.

L’aria sgocciola bianca dal soffitto
e quando cade tintinna
come una piccola moneta.

Ti chiedi se ci sia un modo
per porre fine a tutto questo.
Poseresti adesso il tuo oro
sulla bilancia, tutto il tuo oro
per fare smettere.

Provi molto dolore.

*

Pareti bianche
lenzuola bianche
corridoi bianchi.
E bianco il latte caldo nella tazza
bianca la carne nuda della compagna
bianchi i camici
bianche le pastiglie
nel bicchierino di plastica bianco.

Se socchiudevo gli occhi
strizzando appena le palpebre
ecco un nero sfarfallio.

Incidevo sulla scorza dell’aria
il mio geroglifico fantastico.

Nelle foto di famiglia adesso rideva
quella bambina bionda non aveva
mai pensato alla morte

non si era mai gettata il sale nelle mutande
come una prova
per resistere al dolore.

*

Nel mondo degli uomini ogni cosa ha un nome.
L’indice dritto dell’uomo
dice questo e quello. Mio e tuo, decide.
E poi ancora.
Sentenzia e inscatola ogni sostanza
nell’ovatta bianca della parola.

Ma nell’altro mondo
quello piatto e nero e fondo
non si poteva nominare niente.

Persino la diagnosi
abbassata anche di poco la guardia si sgretolava.

*

Ho sempre amato quell’ora del giorno
in cui il sole non alle spalle
ma davanti al corpo getta l’ombra del corpo.

Allora camminavo come uno spettro
fradicio di luce nel giardino dell’ospedale.

E poggiando i piedi, ogni passo
da se stesso preceduto
coincidendo perfettamente mi sembrava
che fosse proprio dove doveva essere.

La mia gemella oscura mi indicava la via. Io
non ero che lo strascico calmo
la redine troppo a lungo tirata e lasciata
per aver fatto sanguinare il palmo.

Noi amavamo quell’ora del giorno.
Camminavamo come spettri
nel giardino dell’ospedale, eravamo
entrambe dissolventi

esiliate e incompiute
un malinteso di luce.

*

F.

Diceva che gli angeli la notte
uscivano dal comò accanto al letto
e le pettinavano i capelli.

La mattina si cospargeva di gioielli
s’incipriava il viso, che così bianco
sembrava una maschera immobile.

Poi indossava il suo pigiama migliore
e aspettava che venisse l’infermiera
a imboccarle la terapia. Solo così, diceva

solo così può avere effetto la cura
da mano in bocca come da becco a becco
un verme che si dimena, una particola.

*

Non ci sarà memoria di noi.

Non verremo seppellite
con una campanella nella bara.

Le nostre teste rotoleranno come mele nella bocca dell’oblio.

*

Laura Recanati è nata a Milano nel 1993. Si è laureata in Psicologia Clinica all’Università di Bergamo con una tesi dal titolo Malinconia e filosofia dell’opera di Jean Starobinski, dove viene indagato il rapporto tra melanconia, psichiatria e letteratura a partire dall’opera di Ippocrate sino a giungere a quella di Robert Burton. Autrice e musicista, vive e lavora come educatrice e docente in provincia di Bergamo.

(A cura di Silvia Rosa)