Misericordia. Una parola. Un film.

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EVA MAIO

Misericordia: una parola densa.
Un’opera di teatro. E ora anche un film diretto da Emma Dante, 2023.

La parola guardata dal versante dell’etimologia latina ha a che vedere con la miseria e col cuore. Ripercorsa nelle scritture ebraiche ha a che vedere con la radice rehem da cui deriva rahamin che sono le viscere femminili, l’utero, e con il termine hesed che è il movimento interiore che lega due persone, agito di fatto con atti di solidarietà, sollecitudine, alleanza.
Si mescolano passione e vibrazioni di un’etica umanizzante, la ricchezza delle relazioni intrecciata con il riconoscimento sapiente delle proprie e altrui miserie.

Il film l’ho visto: poetico e surrealista ci sbatte in faccia ciò che non vogliamo vedere, che quindi tendiamo a lasciare ai margini.
Un film visionario e materialissimo che dallo scorcio di una periferia
desolata e squallida di mondo innesca un movimento di coscienza luminoso.
Si respira la luce di Sicilia, la sua tragica bellezza nelle alte onde fruscianti, nelle rocce, nelle lande tra cielo e mare, nei corpi.
La trama cruda e dolce ha pochi fili tessuti con il coraggio della essenzialità e dello stupore: una persona fragile e bambina nata da uno stupro è accolta e cresciuta in una stramba comunità di prostitute.
Si coglie che dietro questa storia semplice e fiabesca ci stanno in filigrana l’epica greca, la freschezza di un bizzarro evangelo d’oggi e una non comune sintonia coi pozzi fondi dell’umanità in cui palpitano piccole stelle di cura e tenerezza.
Cura e tenerezza stanno respirando a fatica nelle nostre società, imbrigliate nel gelo del bon ton e rischiano addirittura la morte nell’ipertrofia di calcoli e mercato.
Occorre ridare loro peso. A partire dal basso.
Questo film potrebbe essere un buon viatico, anche grazie alla sua distanza da ogni linguaggio retorico.

La visione mi ha mosso a queste poche righe.
È una sorta di grazie a un’opera scarna nella trama, potente nelle domande che suscita, originalissima e a suo modo intrisa di bellezza.

Li sento
nella schiuma del mare
i miti antichi
le umane tragedie.
E in quell’incavo
di roccia quasi rosa
come culla per un neonato
sputato da onde salate
risento
l’eterna buona novella
di piccole vite ostinate
a stare al mondo
chiamarlo con grida
il mondo
chiamarlo dalla riva
fino a montagnole
poveri pascoli e belati.
Quell’insistere a lungo
su capre e pecore
il loro andare
i musi in primo piano
agnelli da allattare
mi raggiunge
come se tutto fosse
una parabola eterna
candida e sanguinosa
dei desideri di bene
andati a male.
C’è all’inizio
l’affogare
della bellezza nel buio
d’ogni stupro
come una genesi
di quelle storie
in periferie amare
fatte di rifiuti
cumuli d’angherie
risse per un niente
e per un niente il riso
un ballo un corale
sentirsi uniti.
Scorre calore
lì dove tutto è fatiscente
scorre
una sollecitudine una cura
stramba selvatica
eppure carezzevole
che fa crescere
quella vita nata a stento
dal cupo stupro del bello
in carne giovane
di donna.
Scorrono le scene
come pagine di un vangelo
anarchico ribelle
scritte adesso
nella luce
di un’isola maestra
di dolori riscatti
e canti novelli.

A risvegliare in noi
la mappatura
dei piccoli fuochi
caldi lucenti
a farli vibrare
e transitare
dal dentro al fuori
sono sguardi bambini
corpi senza un baricentro
vite diroccate.
A risvegliare in noi
mani senza artigli
di possesso
che carezzano l’anima
d’ogni carne
e piedi solleciti al cammino
sono gli squarci le ferite
nascoste o in centimetri
di pelle esposte
di noi
di ogni altro.
Che infine tutti
ci ritroviamo ugualmente nudi
nel dolore.
E le danze di Arturo
ci scorreranno dentro
a lungo
come un belato d’agnello
a fare risorgere
in noi
la voglia d’allattare
chi cade
nella dimenticanza
del nostro mondo.