G come GALLIZIO

FULVIA GIACOSA

Mi si consenta un po’ di partigianeria. Tra tante possibilità di scelta per la lettera “G” ho deciso di dedicare questa scheda ad un conterraneo, Pinot Gallizio, nato e vissuto ad Alba. Non si cada però nell’errore di intendere la sua arte come “provinciale”, poiché lo sguardo di Gallizio è sempre stato lungo, arrischiato, internazionale. Ciò non è in contraddizione col fatto che l’artista debba essere definito un genius loci, anche per carattere: dell’uomo di Langa ha “ironia, coscienza del destino, persino una certa crudeltà, una propensione positivistica terribile … una costante carica fantastica, una smania del rischio, un selvaggio amore per la vita”, come scrive Giovanni Arpino in “Alba e la sua Langa” nel 1970. Sono soprattutto lo spirito ironico, effervescente e bizzarro, una sottile vena di colta pazzia e il gusto delle sfide le qualità che Gallizio ha incarnato del “tipo” albese. Sicuramente, pur nei linguaggi internazionali che ha parlato, egli ha sempre “tradotto” dall’albese. Le sue opere specchiano un universo di vigne e nebbie, di terre dure nella crosta dell’argilla come duro è il “mestiere di vivere” pavesiano, pregne di storie e di miti, di falò e streghe, ancestrale e moderno insieme, ricco della propria contraddittorietà.

Il suo primo mestiere è quello di farmacista ed erborista (laurea a Torino in Chimica e Farmacia), ma ha anche svolto ricerche archeologiche lungo il Tanaro recuperando ceramiche neolitiche, si è interessato della comunità zingara – che l’ha eletto “re”-, ha fatto l’insegnante, ha coltivato la fisica, la letteratura, il teatro e, quasi per caso, l’arte, stimolando incontri nella casa di famiglia e usando cortile e scantinati come laboratorio d’arte; ha organizzato il “Primo Congresso degli Artisti Liberi” (1956) e fondato il“Laboratorio Sperimentale del Movimento per una Bauhaus Immaginista” (come lo storico Bauhaus in quanto laboratorio collettivo in cui però deve predominare l’inutile estetico sull’utile pratico). Stretti sono i rapporti con l’artista Piero Simondo che lo inizia alla pittura, con l’“Internazionale Situazionista” di Debord (1957) e i Lettristi. E poiché nemo profeta in patria ad Alba resta a lungo dimenticato dai suoi concittadini. Partecipa alla Resistenza (nome di battaglia “Gin”) ed è amico di Fenoglio che gli regala nel 1954 una copia dattiloscritta de “La Malora”. Dopo la guerra, nel 1952, organizza una mostra di artisti liguri ad Alba e stringe contatti con Tullio d’Albissola, il cui laboratorio ceramico era già un mito dall’inizio del secolo quando i Futuristi vi andavano a cuocere le ceramiche. Il laboratorio albese diventa subito internazionale, grazie alla frequentazione assidua di Asger Jorn, protagonista del gruppo COBRA (acronimo di Copenhagen-Bruxelles-Amsterdam), conosciuto ad Albissola. Nasce anche la rivista, “Eristica”.

Le prime opere, sperimentali nei materiali, nel fare pittorico e nei linguaggi, sono in carta pressata, pece, resine naturali e colori all’anilina, usati nel suo laboratorio erboristico tra alambicchi e provette. “I guitti” (1956) ha un linguaggio espressionistico, una figurazione volutamente approssimata, deformante e primitivistica, il cui soggetto sono figure grossolanamente contornate, quasi trasfigurazione “stilistica” di questi attori da strapazzo e poco raccomandabili. L’opera si presenta come superficie bidimensionale e materica. L’anno dopo Gallizio dà vita alla “pittura industriale” cosiddetta perché realizzata su rotoli di tela dipinta o impressa con la tecnica dei “monotipi” coevi, che veniva venduta a metri come fosse una merce qualunque: la lingua usata è quella tipica dell’informale, gestuale e segnico, che si ripete in un’opera ambientale, “La caverna dell’antimateria” (1959) per la galleria Druin di Parigi: è una installazione pluri-sensoriale che copre completamente di pittura una stanza/caverna, pavimento e soffitto compresi e pure una modella avvolta da tele dipinte, mentre profumi resinosi a base di erbe invadono il luogo. Per i visitatori è come entrare in una sorta di antimondo. L’arte diventa democratica, non merce per pochi privilegiati e, contemporaneamente, prende atto della sua attuale condizione industriale avendo perduto l’unicità auratica del passato (circa dieci anni dopo sarà la Pop con la sua “riproducibilità”). L’opera rappresenta il momento di massima vicinanza al Situazionismo internazionale e adotta il principio del caso che costituisce per Gallizio un elemento di fascinazione e scoperta solo se l’artista ne decide la pregnanza di senso. Inoltre, affascinato dalle teorie fisiche sull’antimateria, gli viene naturale dar corpo all’immaginazione di un mondo altro che l’arte invera proprio attraverso il misterioso alchemico.

Dopo questa prima fase Gallizio torna ai “quadri”, raccolti in cicli. Il primo, “La Gibigianna. Storie del re di pipe” (1960) consta di otto tele presentate alla galleria “Notizie” di Torino che nell’insieme costituiscono un fregio narrativo monumentale, un fantasioso racconto di tradimento e pentimento, con figure tra antropomorfico e geometrico. Spunti autobiografici si intrecciano a figure della cultura popolare (Gibigianna è un temine lombardo che ha parecchi significati: riverbero di luce, ma anche scherzo, strega, fantasma): l’oscillazione semantica della parola ben si specchia nella misteriosa sequenza delle immagini. La vera protagonista è però la pittura in sé, intesa come continua metamorfosi. Vi si notano gli influssi dell’espressionismo nordico di Jorn e la gestualità dell’Informale; a tal proposito si tenga conto anche della presenza a Torino di Michel Tapié (promotore dell’Informel francese) e del gruppo giapponese “Gutaj” con le loro famose performances. Per questo ciclo Gallizio riutilizza pezzi di tela precedentemente dipinti cui sovrappone stesure gessose e resinose, contorni spessi e neri, colori ad olio spalmati direttamente dal tubetto, procedimento che ne accentua la matericità. Tecniche simili e una ancor più accentuata improvvisazione si vedono nel ciclo “Storia di Ipotenusa” (1960-’61), nove tele che sono un inno ad una geometria biomorfica (“psichica” e generatrice di forme l’ha chiamata l’autore). Nella successiva serie de “Le notti di cristallo”(1962-‘63) la notte non è buio inerte ma corrente vitale piena di immagini affascinanti altamente sperimentali (usa siringhe, fruste, petardi, raschietti); ognuna delle quattro tele (la quarta è stata ritrovata dopo la sua morte) ha caratteristiche proprie: la “Notte barbara”, come gli amici danesi olandesi e tedeschi, prevalentemente segnica con tracciati vorticosi, la “Notte cieca” cosiddetta perché  dipinta a occhi bendati, evidente richiamo all’automatismo surrealista, e la splendida “Notte etrusca” in cui il colore è sparato con una pistola per petardi cosicché, quando si scontra con la tela, si atomizza in modo casuale.

In questi cicli le sperimentazioni hanno una matrice ludica, ora ironiche ora seriose, e l’effetto d’insieme trasporta lo spettatore in un mondo primordiale in continuo divenire. Seguono “Le fabbriche del vento” (1963) che riprendono precedenti segni spiraliformi ed hanno colori inediti; infine il ciclo dei “Neri” che si conclude con una installazione (“L’anticamera della morte”), una scansia contenente oggetti impolverati dal tempo.

È il 1964, anno della morte improvvisa che Gallizio sembra preconizzare. Tutto in questa specie di sala d’attesa dell’ “incontro definitivo” è ricoperto da vernice corvina. La pittura sparisce, restano solo tracce oggettuali di una esistenza, “oggetti d’affezione” direbbe Man Ray. Ancora la notte come protagonista, ma questa volta opaca e tragica nel nero alchemico, primo stadio per l’Opera, inizio a cui tutto ritorna per riprendere il ciclo della vita e della conoscenza.

In quell’anno era già stata decisa una sala personale per Gallizio alla Biennale veneziana curata da Maurizio Calvesi, che avviene ugualmente trasformandosi in un omaggio postumo.

Se per altri artisti abbiamo cercato di evidenziare, in queste schede, l’anticipazione di certe tendenze contemporanee, qui il bilancio è un po’ diverso. Guardiamo alle date che non mentono mai. Gallizio è nato nel 1902, dunque un “vecchio” quando decide di darsi all’arte a metà degli anni Cinquanta e ancor più quando la morte lo coglie improvvisamente nel 1964: dieci anni in tutto di creatività prorompente. Il questo lasso di tempo la situazione dell’arte occidentale è in fermento: la dominante informale, sia in America sia in Europa, sta già sul viale del tramonto, sostituita dalla Pop Art e, contemporaneamente, dall’alternativa Optical.

Dunque possiamo definire assai coraggiose le scelte di Gallizio. Lo ha ben compreso il critico Flaminio Gualdoni che nel 1983 scrive: ”Arruolarsi nell’esercito dell’avanguardia proprio mentre la rotta si avvicina è solo in piccola parte un soprassalto roman­tico. E’ soprattutto tentare di evitare, o almeno ritar­dare, la disfatta. Più, guardarla in viso, quando verrà. … Ecco, allora, proprio il gran gioco, sempre incerto se prendersi sul serio, nel dubbio se esser quadro o no I “Neri! della fine, il filo di una cupa grazia, al ter­mine della speranza.

Non so se Alberto Savinio rientrasse nelle letture di Pinot Gallizio, ma non mi stupirei. A questo indomabile concittadino voglio dedicare poche righe saviniane, tratte da un libricino che amo molto, “Dico a te, Clio”: “Nell’ultimo sguardo che daranno i nostri occhi, nell’ultima luce che darà la nostra intelligenza, quello sguardo, quella luce non al passato saranno rivolti, posto definitivamente dietro la porta chiusa, ma all’avvenire. E l’avvenire, come avrete capito, signori, è la morte, inazione per eccellenza e suprema purità.”

Le opere di Gallizio sono oggi nelle più importanti gallerie, collezioni private e musei di tutto il mondo, anche se la sua posizione è sempre restata “a latere” del sistema arte perché, come dice a Debord, “noi non abbiamo nulla da perdere”. Il tempo a venire renderà Gallizio internazionale, nonostante Gallizio.

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