La vivida forza del ricordo

locandina-27-gennaio

STEFANO CASARINO

Premessa: la Shoah è un’infame tragedia, una delle peggiori della storia dell’umanità. In questo caso, la “vivida forza del ricordo” serve non a celebrare ma a esecrare, scaturisce dal dovere morale di stigmatizzare con orrore ciò che avvenne, per almeno due motivi essenziali:
perché la condanna è doverosa, imprescindibile per esseri umani degni di tale nome;
perché ciò non si ripeta mai più: a Dachau – primo campo nazista, aperto il 22 marzo del 1933, a soli 20 km da Monaco di Baviera – vi è una grande scritta incisa in 5 lingue: ebraico, francese, inglese, tedesco e russo: “MAI PIÚ”.

La Giornata della Memoria in Italia fu istituita 25 anni fa, nel 2000, e dall’ONU 20 anni fa, nel 2005;
L’Italia la decretò con la legge n. 211 del 20 luglio 2000, e si avanzarono tre ipotesi diverse di data:
16 ottobre (1943), per ricordare il rastrellamento del ghetto di Roma (e successiva deportazione ad Auschwitz di oltre 1000 ebrei italiani);
5 maggio (1945), giorno della liberazione da parte degli americani di Mauthausen, l’ultimo campo ad essere liberato;
27 gennaio (1945), liberazione di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa, data che venne prescelta.
Nei primi due articoli della legge è scritto:
«La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.
In occasione del “Giorno della Memoria” di cui all’articolo 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere».

L’ONU, invece, la istituì cinque anni dopo il Parlamento italiano, con risoluzione 60/7 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 1º novembre 2005 durante la 42° riunione plenaria.

È opportuna la distinzione terminologica tra “olocausto”, “Shoah” e “genocidio”, perché l’uso corretto del linguaggio è alla base di tutto.
OLOCAUSTO deriva dal greco olókaustos, (“bruciato interamente”), a sua volta composta da ólos (“tutto intero”) e kaio (“brucio”), ed era inizialmente utilizzata ad indicare una particolare forma di sacrificio prevista dal giudaismo: nella Bibbia è il termine che designa il sacrificio di Isacco da parte di Abramo (Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va’ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su un monte che io ti indicherò). Nel greco antico (e, successivamente, in latino come holocaustum) questo termine indicava un tipo di sacrificio religioso in cui il corpo della vittima animale, dopo l’uccisione, veniva completamente bruciato, cosi che nessuna parte commestibile poteva essere consumata e che quindi venisse devoluto soltanto agli dei / a Dio. A causa del significato religioso del termine, alcuni, Ebrei, ma non solo, trovano inappropriato l’uso di tale termine: costoro giudicano offensivo paragonare o associare l’uccisione di milioni di ebrei a una “offerta a Dio”; per questo oggi si preferisce il termine
SHOAH, che compare correttamente nel testo della nostra legge citata: significa “desolazione, catastrofe, disastro”, è stato così adottato più recentemente per descrivere specificamente la tragedia ebraica di quel periodo storico.
Questo termine venne usato per la prima volta nel 1940 dalla comunità ebraica in Palestina, in riferimento alla distruzione degli ebrei polacchi. Da allora, definisce nella sua interezza il genocidio della popolazione ebraica d’Europa.
Questi sono, comunque, i due termini impiegati: il terzo, oggi tristemente alla ribalta per ben noti fatti a noi contemporanei e che suscita delle, per me futili, disquisizioni linguistiche, è proprio
GENOCIDIO: il vocabolo fu impiegato la prima volta dal giurista Raphael Lemkin nel 1944 e utilizzato a partire dall’autunno del 1945 a proposito del processo di Norimberga.
La risoluzione 96 dell’11 dicembre 1946 dell’Assemblea Generale dell’ONU lo definisce come una negazione del diritto all’esistenza di interi gruppi umani. La risoluzione precisa, inoltre, che molti casi di tali crimini di genocidio si sono verificati quando gruppi razziali, religiosi, politici e di altro genere sono stati distrutti, in tutto o in parte.
Oltre a quello ebraico, sono stati riconosciuti nella storia altri genocidi: quello armeno; quello del Ruanda; quello cambogiano; quello, tutto europeo, avvenuto in Bosnia negli anni Novanta.
Questo tanto per fare chiarezza, linguistica e, si spera, intellettuale.

Vogliamo ora ricordare (la vivida forza del ricordo) la Shoah non ricorrendo alla storia ma alla poesia (o meglio, alla letteratura in genere), sulle orme di Aristotele, per il quale quest’ultima è “più filosofica” della storia, perché le conoscenze che ci fornisce raggiungono un maggior grado di universalità.

Il primo testo non è una poesia. Ascoltiamolo prima, lo commenteremo dopo:
“Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare”

Attribuito erroneamente a Bertold Brecht negli anni Settanta, in realtà è parte di un sermone del pastore Martin Niemöller (1892-1984), oppositore del nazismo sin dal 1934: nel 1937 fu arrestato dalla Gestapo per ordine diretto di Hitler, infuriato per un suo sermone. Fece otto anni di prigionia in diversi lager, fu liberato il 4 maggio 1945 dagli Alleati.
Mi pare che il senso e la forza del testo siano immediati e non necessitino di particolari osservazioni, se non forse una: il testo ci segnala il gravissimo errore della sottovalutazione, il pericolo di pensare: “tanto non mi riguarda, non è un problema mio” oppure “in fondo, non è poi cosi grave”.
Il totalitarismo nasce in sordina, assume spesso la maschera del ripristino dell’ordine (via gli zingari, più repressione contro chi delinque, ecc…) per evolvere in un crescendo parossistico, che finisce per riguardare tutti, nessuno escluso.
È una formidabile lezione che forse non abbiamo imparato bene.

Il secondo testo è notissimo: Se questo è un uomo, 1947
 
Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
 il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane che muore per un si o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.

Il titolo, come appare nella raccolta di poesie di Primo Levi “Ad ora incerta” (1984), è “Shemà”, inizio di preghiera della liturgia ebraica (Shemà, Israel: “Ascolta Israele): letta due volte al giorno, al mattino e alla sera; il primo versetto è l’essenza del monoteismo ebraico:
Ascolta, Israele: il Signore è nostro Dio, il Signore è uno”.
Può essere sufficiente qui citare solo la prima parte di questa preghiera: E amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze. E metterai queste parole che lo ti comando oggi, nel tuo cuore, e le insegnerai ai tuoi figli, pronunciandole quando riposi in casa, quando cammini per la strada, quando ti addormenti e quando ti alzi. E le legherai al tuo braccio, e le userai come separatore tra i tuoi occhi, e le scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle porte delle tue città.
Come è immediatamente constatabile, il testo dell’ateo Levi è quasi una parodia (in senso tecnico: una riscrittura), riprende e ricalca molte espressioni: siamo di fronte ad uno spietato, impressionante stravolgimento.
Dalla preghiera e dall’invito ad amare sempre e comunque il Signore alla denuncia atemporale del processo di disumanizzazione perfettamente compiuto nel Lager, al monito tremendo che ciò è storicamente accaduto… e potrebbe ancora accadere.
Levi ci invita a “considerare se questo è un uomo”: considerazione che non dovrebbe mai abbandonarci.
A me viene in mente, per antitesi, un frammento di Menandro, che dice: Che cosa bella è l’uomo quando è uomo veramente.
Quanto ciò sia facilmente verificabile, ce lo insegnano (ce lo dovrebbero insegnare) la scuola e la cultura: che però, sulla scorta di Primo Levi, ci dovrebbero insegnare anche questo: quanto, invece, l’uomo sia, possa essere tremendo, mostruoso,
spaventoso…

Il terzo ed ultimo testo è una pagina di La notte di Eli Wiesel, 1958:
 
Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata.
Mai dimenticherò quel fumo.
Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi
trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto.
Mai dimenticherò quelle fiamme che bruciarono per sempre la mia fede.
Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere.
Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima,
e i miei sogni, che presero il volto del deserto.
Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai.

È potentissima qui la martellante anafora: “Mai dimenticherò”: ma ciò che vale a livello personale dell’autore dovrebbe valere per tutti noi, che siamo venuti dopo quella tragedia. MAI DIMENTICARE.
Credo però che sia opportuno, per meglio comprendere questo testo cosi impressionante, dire qualcosa del suo autore, Elie Wiesel (1928-2016), Premio Nobel per la pace nel 1986. Fu deportato a 15 anni ad Auschwitz con la sua famiglia: appena arrivate, la madre e le sorelle furono subito gasate:
Per una frazione di secondo ho intravisto mia madre e le mie sorelle che si allontanavano verso destra. Tzipora teneva la mano della mamma. Le ho viste sparire in lontananza; mia madre stava accarezzando i capelli biondi di mia sorella /…/ E io non sapevo che in quel luogo, in quel momento, mi stavo separando da mia madre e Tzipora per sempre
Lui e il padre restarono assieme per più di otto mesi e furono trasferiti in tre campi diverse, fino ad arrivare a Buchenwald, dove il padre, ammalato, fu picchiato da altri detenuti per la sua razione di cibo e mori prima della liberazione del campo.

Per molto tempo, Wiesel non volle parlare della sua esperienza: poi scrisse in yiddish un corposo volume di memorie di 900 pagine dal titolo “E il mondo rimase in silenzio” e solo successivamente, su invito di François Mauriac, scrisse in francese nel 1958 La nuit, tradotta poi in inglese due anni dopo nel 1960, un volumetto di poco più di 100 pagine, considerato una delle opere migliori sulla Shoah.
Il libro è assolutamente sconvolgente, lascia attoniti.
Tra i tanti momenti memorabili c’è quello dell’impiccagione di un bambino, alla quale tutti i detenuti del Lager sono costretti ad assistere. Wiesel sente qualcuno chiedere: Dov’è Dio? Dove si trova? Lo strazio del bambino impiccato è orrendo: il peso del suo corpo non è sufficiente a rompergli il collo, cosi il bambino muore lentamente con una lunghissima agonia. Wiesel lo ricorda davanti a lui, vede la sua lingua ancora rosea e gli occhi chiari, e piange.
Commenta: Dietro di me senti lo stesso uomo chiedere: Dov’è Dio adesso? E udii una voce dentro di me rispondergli: Egli è qui – Egli è appeso qui su questa forca.

Dal 1955 Wiesel si trasferi a New York e divenne cittadino americano; prese parte alla costruzione del Museo sulla Memoria dell’Olocausto a Washington.
Nel 2006 visitò Auschwitz assieme alla conduttrice televisiva Oprah Winfrey: di ciò esiste la videoregistrazione trasmessa negli USA il 24 marzo 2006. Gli fu offerta la carica di Presidente di Israele, ma rifiutò.
Nel 2007 subi l’aggressione di un negazionista ventiduenne, Eric Hunt: su quel processo, l’allora Procuratore Distrettuale Kamala Harris disse: I criminali motivati ad odiare commettono il più riprovevole dei reati… questo imputato è stato chiamato a rispondere di un attacco ingiustificato ad un uomo che ha dedicato la sua vita alla pace.

Per concludere, vi propongo una riflessione di George Steiner, in Linguaggio e silenzio, 1967: Quanto alla mia coscienza, è ossessionata dall’esplosione di barbarie nell’Europa moderna; dall’assassinio in massa degli ebrei e dalla distruzione sotto il nazismo e lo stalinismo di quello che in alcuni di questi saggi io cerco di definire il genio particolare dell’ “umanesimo centroeuropeo”…; adesso sappiamo che un uomo può leggere Goethe o Rilke la sera, può suonare Bach e Schubert, e quindi, il mattino dopo recarsi al proprio lavoro ad Auschwitz … noi oggi siamo homo sapiens post Auschwitz perché la documentazione, le fotografie del mare di ossa e denti d’oro, di piedi e mani di bambini che lasciano il segno nero delle unghie sui muri del forno hanno modificato il nostro senso delle disposizioni possibili…,

Trovo davvero notevole questa definizione “noi oggi siamo homo sapiens post Auschwitz”: dovremmo rammentarlo sempre, non solo durante la Giornata della Memoria!

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(testo dell’intervento del prof. Casarino in occasione della Giornata della Memoria 2025, raccolto da Gabriella Mongardi)