Il giuramento di Ippocrate

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GABRIELLA VERGARI

Non si poteva più aspettare.
Il medico curante era stato chiarissimo. - Game over – aveva decretato con il suo fare bonario ma deciso.
Un’ allusione un po’ vieta, da maglietta di addio al celibato, riguardo alla quale Gilberto si era sforzato di abbozzare un sorriso. Più mesto, per la verità, che cortese. Lo avrebbe anzi detto di mesta cortesia, definizione che gli tenne compagnia lungo il ritorno a casa come un motivetto parassita.
E del resto, con quale altra disposizione d’animo avrebbe dovuto accogliere la notizia che la sua cistifellea era ormai giunta al capolinea?
         Giunta al capolinea, nuova metafora, forse un po’ più consolatoria del game over precedente, ma in ogni caso insufficiente a stornargli il peso dell’amara realtà, nonché l’evidenza che, metafora o meno, l’avrebbero presto chiamato per fissare la data dell’intervento cui da anni provava a sottrarsi.
Aveva curato l’alimentazione con tutti gli accorgimenti possibili, assunto integratori di ultima generazione, praticato moto con regolarità, anche durante le giornate di pioggia in cui nulla al mondo l’avrebbe dovuto costringere ad abbandonare il calduccio del suo confortevole trivani per mettere, non dico la tuta e le scarpette da jogging, ma anche solo il naso fuori di casa.
Si era sottoposto alle analisi di routine, fatto le visite prescritte, vissuto l’altalena emotiva dell’attesa e del riscontro dei referti. Gli pareva di essere rimasto insomma coinvolto in una specie di gioco d’azzardo in cui la posta in ballo non era una vincita milionaria ma   ̶  bene mille volte più prezioso  ̶  la sua salute, soprattutto mentale.
Perché per tutto il tempo era come se si fosse sentito tradito dal suo corpo, una percezione straniante e persistente, da generargli costante frustrazione. Possibile che il controllo e, prima ancora, la cura che provava a esercitare sul suo fisico non bastassero mai? Per quanti sforzi compisse, c’era sempre qualcosa che sfuggiva, un parametro che intraprendeva una strada autonoma, un accidente imponderabile che faceva sì che all’ultimo i conti non tornassero. E di fatto non erano tornati: la sentenza appena emessa non dava l’idea di voler concedere grandi margini di appello.
Varcato l’ingresso di casa, Gilberto si scorse un attimo riflesso al grande specchio vicino all’attaccapanni. Non trapelava nulla di che. Nessun colorito sospetto, nessun nuovo gonfiore né segno palese di qualcosa che non andasse.
Come sempre il traditore manteneva un profilo basso, guardandosi bene dallo svelare il subdolo armamentario di cui in realtà disponeva. In altre parole, osservandosi dall’esterno lui avrebbe giurato e spergiurato di non avere nulla di diverso rispetto al giorno precedente. Era invece dall’interno che il suo corpo…
Cos’è che aveva detto quel professore in televisione un paio di giorni prima? «Noi non siamo trasparenti a noi stessi».
Ecco sì, magari non con quelle identiche parole, ma il senso complessivo l’aveva molto colpito, perché gli era parso che il professore o l’autore citato – non avrebbe saputo precisarlo, visto che si era sintonizzato giusto in quell’attimo, tra un zapping e l’altro  ̶  gli stesse leggendo dentro. E poco importava che la questione dibattuta fosse di tipo morale e si riferisse all’interiorità spirituale. Cambiandola di segno e applicandola ai suoi organi vitali, Gilberto trovava che calzasse lo stesso come un guanto alla propria percezione del momento.
Basta, doveva comunque reagire. Avviandosi verso il soggiorno emise un lungo sospiro di rassegnazione. Poi ne emise un altro e un altro ancora finché i sospiri non si trasformarono in una serie di respiri profondi che gli infusero un certo sollievo, rasserenandolo.
Beh  ̶  provò a riflettere da una nuova prospettiva  ̶ , aspettare per anni il confronto con un drago può alla fine riuscire più logorante che affrontarlo una volta per tutte. A ben vedere, il succo di tutta la vicenda sarebbe stato trasformarlo in un uomo nuovo, liberandolo dalla spada di Damocle che gli aveva sfiorato il collo non so quante volte, e ripristinandogli un corpo che valesse da alleato, al posto dello Iago in cui si era da un bel po’ tramutato, pronto a cogliere la minima occasione per colpire senza pietà.
L’ultima colica non sapeva bene cosa l’avesse scatenata, ma come l’avesse preso nel pieno di una gioiosa distrazione, quando era lontanissimo dal pensare potesse succedergli, lo sapeva eccome. Ed era stata a dir poco epica, accompagnata da dolori che di cuore si augurava non gli si ripresentassero mai più.
Quando arrivò la telefonata di Marco, la accolse perciò con un tono che, se non era di leggerezza, poco ci mancava.
«Ehi, dai retta a me che ci sono già passato» tentò di fargli animo l’amico, lui sì veramente fidato. «Oggi ci stanno più a dirlo che a farlo. Con le tecniche moderne, vedrai che non ti rimarrà quasi nemmeno la cicatrice».
E giù tutta una serie di informazioni e incoraggiamenti da rendere l’andare sotto i ferri meno impegnativo, stressante e doloroso della seduta da un callista.
Benché non vi avesse prestato fede fino in fondo  ̶  sapeva che Marco lo aveva chiamato per rassicurarlo  ̶ , Gilberto si rincuorò. Hai visto mai che il quadro dipintogli  non si rivelasse poi molto distante dal vero?
       Quali effetti positivi possono produrre le parole benefiche e affettuose pensò, riattaccando. E per tutta l’attesa del gran giorno se ne lasciò cullare.
Tanto che, già preparato per la sala operatoria, se le andava ancora ripetendo come un mantra, insieme al Coraggio, andrà tutto bene con cui Marco l’aveva dieci minuti prima salutato, strizzandogli un occhiolino complice.
«Certo che andrà tutto bene».
Il sorriso dell’infermiere venuto a controllare la flebo non pareva solo di prammatica. «E poi il dottor Parolisi è un mago del bisturi».
A quell’affermazione, Gilberto sobbalzò dalla barella: «Il dottor Parolisi? Ma non avrebbe dovuto operarmi il dottore Francavilla?».
Si sentì montare dentro una bell’ondata di panico. «Ho preso accordi con lui, è lui che mi ha seguito e che conosco, dov’è finito il dottore Francavilla?», la voce già fatta stridula.
L’infermiere lo guardò perplesso domandandosi se non fosse il caso di somministrargli un pre-anestetico.
«Credevo l’avessero informata» si giustificò. «C’è stato un cambio di turno, anche perché il dottor Francavilla ha chiesto un giorno per motivi personali. Guardi però che il dottor Parolisi… ».
«Parolisi come?» lo interruppe veloce Gilberto, mentre un dubbio atroce lo folgorava riportandolo al ricordo di una storia passata .
«Vincenzo».
«Vincenzo! Quarantenne, alto, rossiccio di capelli, con gli occhi azzurri e il naso aquilino?».
L’altro lo guardò stupefatto.
«Ma allora lo conosce. Ha visto che è tutto a posto?» esclamò con sincero sollievo.
No, non lo era. Non lo era affatto. Gilberto era troppo sconvolto per proseguire quella conversazione. L’unica cosa a cui pensava era come sottrarsi all’intervento. Avrebbe dovuto strapparsi dal braccio la flebo, afferrare i vestiti e scappar via dall’ospedale.
Ma era troppo tardi e già la barella si stava avviando verso l’ascensore che l’avrebbe condotto giù, tra le mani – oh che ennesimo tradimento – di un suo ex-alunno, quello stesso che gli aveva giurato vendetta per la bocciatura al liceo.
Si sentì preso in trappola, come la proverbiale preda braccata.
Che avrebbe potuto fare?
Rassegnarsi al suo destino, implorare misericordia, denunciare l’episodio, mettersi a urlare?
Mai si era sentito così impotente e impreparato, un’autentica vittima sacrificale al macello.
Raggiuta ormai la sala operatoria scorse, tra le altre, una silhouette ben nota accennare verso di lui. «Buongiorno, Professore, ecco che alla fine ci si rivede».
Troppo frastornato per rispondere o riuscire a decifrare l’ intenzione di quel saluto,  «Ippocrate, assistimi tu» pregò allora Gilberto tra sé e sé, confidando nella lealtà dei medici di qualunque razza, fede e orientamento a uno dei giuramenti più sacri del mondo.
E si lasciò scivolare nel buio dell’anestesia.