Imperialismi buoni e cattivi

Ogedei

Ogedei

PAOLO LAMBERTI

Da anni minoranze rumorose manifestano contro i misfatti e le ingiustizie dell’imperialismo dell’Occidente, passati e presenti: una visione storicamente anche corretta, ma con un unilateralismo che mette insieme il miserere di San Gerolamo nel deserto, l’autocritica di stile stalinian-maoista e un gusto masochista più adatto a Venere in pelliccia di von Sacher Masoch che alla politica estera. Per distrarmi da tali spettacoli nelle ultime settimane mi è capitato di leggere alcuni libri che sembrano dialogare tra di loro.
Anarchia di William Dalrymple
I persiani: l’era dei grandi re di Lloyd Llewellyn-Jones
Gli Ottomani: Khan, cesari e califfi di Marc David Baer
The Mongol Storm: Making and Breaking Empires in the Medieval Near East di Nicholas Morton

Dalrymple traccia la storia dell’East India Company, con uno stile elegante ed una vasta documentazione che unisce fonti inglesi e storici e testimoni dell’India; la narrazione accompagna la sorprendente ascesa di un’impresa commerciale privata che nel giro di poco più di due secoli riesce a controllare quasi completamente il subcontinente indiano, sfruttando abilmente e cinicamente le occasioni, senza avere piani preordinati che non siano il profitto. Per l’autore la Compagnia offre un modello ancor oggi senza paragoni di come possa comportarsi una compagnia multinazionale, e il confronto sotteso è appunto con il presente. Così si incontrano manager/soldati spietati come Clive, professionisti come il futuro duca di Wellington, dirigenti simpatetici con la cultura indiana come Warren Hastings; vi sono azionisti interessati al profitto, pronti a distribuire dividendi e accumulare debiti, tanto che più volte devono intervenire la Bank of England e il governo perché la compagnia è too big to fail; e buona parte dei parlamentari inglesi è azionista. Alla fine la Gran Bretagna nazionalizza la compagnia e si ritrova con un impero.
Molte sono le voci indiane che accompagnano dolorosamente questa ascesa, a scapito degli stati locali. Quello che però l’autore non sottolinea è che, ad eccezione di Maratha e Rajput, gli stati indiani sono guidati da islamici stranieri, a partire dalla dinastia Mughal, di origine mongola, per arrivare a signori della guerra di origine persiana, irachena, araba; senza contare la distruttiva presenza afghana nel XVIII secolo, che facilita l’ascesa degli europei e sottrae immense ricchezze all’India: con il bottino delle scorrerie in India e in Persia gli afgani accumulano ricchezze paragonabili a quelle sottratte dagli europei, ma questi ci finanziano la rivoluzione industriale, gli afgani le guerre di clan, con i risultati oggi ben evidenti confrontando Londra e Kabul. Rimane singolare che l’avido imperialismo inglese venga descritto sullo sfondo del secolare imperialismo islamico, capace di molta cultura ma spesso anche di fondamentalismo. Comunque la dominante cultura islamico-persiana si sovrappone a quella dell’India in modo non diverso da quella europea.
Quanto ai due volumi sugli Achemenidi e sugli Ottomani, distanti nel tempo e accomunati dagli spazi, condividono anche la medesima impostazione: narrazione sintetica e ideologia antioccidentale.
Lloyd Llewellyn-Jones rivela un difetto sempre più comune negli storici e saggisti anglosassoni che si occupano del mondo classico, ovvero scarsa o nulla conoscenza di greco e latino: lo dimostra l’uso sistematico delle opere antiche nell’edizione della Loeb Classical Library. Chi abbia conoscenza della filologia classica sa che mediamente le collane di edizioni più affidabili sono quelle della Teubner e quelle della Oxford Classical Text, mentre Les Belles Lettres è più diseguale; la Loeb si usa se non vi sono edizioni migliori: però le prime due collane hanno solo il testo, LBL ha la traduzione francese e la Loeb ha quella inglese; visto che anche le bibliografie rivelano un angloglottismo dominante, ci si trova davanti ad un mondo angloclassico.
Venendo al libro, l’introduzione e frequenti passi prendono di mira Erodoto e più in generale le fonti greche, mentre i Greci, Ateniesi e Spartani in primis, sono descritti come agitatori che non comprendono gli infiniti vantaggi nell’entrare nell’impero persiano; non solo lo combattono, ma ne nascondono i molti meriti, salvo poi vivere per secoli alla sua ombra, almeno fino ad Alessandro Magno, che ne diventa l’assassino (evidentemente in buona compagnia, visti i numerosi alleati che trova nell’impero stesso). Se l’uso di fonti persiane o comunque mesopotamiche o egizie è un merito del libro, una volta giunti alla narrazione degli avvenimenti ci si trova dinanzi alla solita sfilza di guerre di aggressione, sfruttamento dei popoli sottomessi (sia pure a favore di una bella architettura palaziale), ribellioni continue da stroncare ed una feroce serie di omicidi di corte e rivolte familiari.
Marc David Baer racconta un numero minore di lotte dinastiche, grazie all’uso di ogni sultano di strangolare fratelli e cugini ad ogni accessione al trono: un’usanza che all’autore non sembra disprezzabile. Per il resto la sinossi di storia ottomana è un buon manuale per gli europei che ne conoscono l’espansione verso Ovest, ma che possono scoprire i duri scontri tra l’imperialismo ottomano e quello persiano (senza contare i mamluk egiziani); interessante anche l’analisi dell’ascesa ottomana in un Medio Oriente ancora sconvolto dai Mongoli (vedi oltre) e quella dell’organizzazione dell’impero, in cui ogni comunità (millet) aveva spazi di autogoverno, salvo poi, in casi di rivolta, sostenerne una responsabilità collettiva (vedi i curdi; un uso che Hitler condivideva). Anche in questo caso alla positività dell’impero turco corrisponde come esempio negativo quello inglese, mentre curiosamente quello romano viene visto come un antecedente; non troppo curiosamente, visto che l’autore fa sua la propaganda ottomana per cui il sultano era l’erede dell’imperatore e tra XV e XVII secolo l’obiettivo di conquistare la “Mela Rossa”, ovvero Roma, non era considerato impossibile.
Con Nicholas Morton si trova un libro di storia più tradizionale, fatto soprattutto di politica e guerra, con un uso di fonti originali approfondito. L’argomento è l’impatto dell’imperialismo mongolo negli spazi già achemenidi e poi ottomani: dall’India al Mediterraneo; non quindi tutta l’espansione mongola (Cina ed Europa sono appena accennate), ma la profonda ristrutturazione che tra XIII e XIV secolo avviene in quelle aree, con conseguenze durate sino ad oggi. Al centro sono la superiorità militare mongola e l’ideologia di Gengis Khan secondo cui il mandato del cielo ha affidato ai Mongoli il dominio del mondo.
Recentemente il Papa è stato in Mongolia, ma sorprende il suo elogio della pax mongolica: Francesco è un gesuita, ordine controverso ma grande esperto di Asia, e guida la curia romana, che già nel Duecento era in contatto con i Mongoli, nella speranza di convincerli ad attaccare i Musulmani. La pax mongolica era davvero tollerante ed ecumenica, come detto dal Papa, ma a Roma dovrebbero ricordare i circa 200.000 abitanti di Baghdad passati a fil di spada (così vantava il Khan Hulagu), o le migliaia di cavalieri tedeschi e slavi ridotti a puntaspilli dalle frecce degli archi compositi, le mitragliatrici della steppa (battaglia di Legnica); e si può rileggere la “Storia segreta  dei Mongoli”, scritta per la corte verso il 1240, un lungo elenco di battaglie e popoli sottomessi, dall’Adriatico al Pacifico, che fa impallidire Alessandro, Cesare e Napoleone.
Altro elemento interessante del libro è la quasi totale assenza dell’Europa: a parte i moribondi staterelli crociati e temporanee apparizioni bizantine, il gigantesco scontro di imperialismi tra mongoli, persiani, egiziani, turchi ed arabi non si presta ad invettive contro il malvagio Occidente.
Ma ormai da troppi anni il masochismo impone che l’unico imperialismo cattivo sia quello dell’Occidente: gli altri sono tutti paradisi in terra.