L’eredità di Sándor – 2

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GABRIELLA MONGARDI

La seconda parte della mia trattazione è dedicata ai due romanzi principali di Márai, Braci e La recita di Bolzano.

 

La recita di Bolzano

A mio avviso il capolavoro assoluto di Márai è il suo romanzo più romanzesco, il suo romanzo storico, La recita di Bolzano. Certo Márai rifiuterebbe l’etichetta di “romanzo storico” per quest’opera: perché se è vero che è ambientata nel 1756 e ha per protagonista un personaggio storico, Giacomo Casanova, è anche vero che – come spiega l’autore stesso nella sua Avvertenza al lettore –  «dalle famigerate Memorie (l’autobiografia di Casanova, n.d.r.) non ho preso a prestito nulla più che il momento e le circostanze dell’evasione (dai Piombi di Venezia, n.d.r.). Per il resto, tutto quello che il lettore troverà in questo romanzo è fiaba e frutto di invenzione». Invenzione, certo, dal punto di vista della Storia – ma come a noi italiani ha insegnato Manzoni, l’invenzione dell’arte, della poesia, attinge ad una verità più profonda e più vera, e la svela. E questa verità non è per così dire una verità storica, non sono conoscenze più precise, ricche e profonde sul Settecento, l’età in cui Giacomo Casanova è vissuto, no: la verità che a Márai importa, e che spalanca ai nostri occhi, è una verità astorica, atemporale, sono le leggi eterne e immutabili che regolano l’agire dell’uomo – è la stessa verità che emergeva dall’Eredità di Eszter.

Ma questa volta il romanzo è più “romanzo”, grazie al “temperamento romanzesco” del protagonista: c’è più movimento, più azione, benché anche in questo libro, come in Divorzio a Buda, tutta l’azione converga e culmini nell’episodio finale, che giustifica il titolo: “la recita”, con  la conseguente “risposta”. Ma la durata degli eventi  narrati si dilata, non è più ristretta nel limite di un giorno, si arriva ad alcune settimane; anche dal punto di vista dello spazio, il romanzo si apre con una fuga da Mestre a Bolzano; e se poi Bolzano rimane lo sfondo dell’azione, dichiarato fin dal titolo, non mancano però “escursioni” fantastiche in altre città, quali Venezia o Monaco di Baviera. Anche la velocità della narrazione cambia: adeguandosi al suo personaggio, che era un avventuriero e un uomo d’azione, ma anche uno scrittore, Márai  alterna sapientemente il ‘presto’ vorticoso della fuga e dell’organizzazione all’ ‘adagio’ delle riflessioni e dei dialoghi. E trova certe parole! Perché è dalle parole che si vede il grande scrittore, la sua originalità si misura con la “novità” delle sue combinazioni di parole, del suo uso delle parole. Prendiamo ad esempio i titoli dei 15 capitoli che compongono questo romanzo: Un gentiluomo di Venezia – La notizia – «Un uomo» – Il risveglio – Vocalizzi ed esercizi – Il bacio – Uno scrittore – «Non offendere Venezia!» – Francesca – Gli accessori – Il consulto – Il contratto – La maschera – La recita – La risposta. Leggendoli uno di seguito all’altro si ricava non soltanto un’idea del contenuto del romanzo, in una sorta di estrema sintesi, ma si coglie appunto la genialità dell’autore – vediamo in che senso.

Il “gentiluomo di Venezia” è ovviamente il protagonista, Giacomo Casanova, evaso dai Piombi, che accompagnato da padre Balbi in tre giorni arriva a Bolzano e scende alla Locanda del Cervo, dove l’oste viene subito contattato da agenti della polizia segreta (eh, gli osti – Manzoni insegna!). È il capitolo propriamente storico del romanzo, l’‘attacco’ in senso musicale, l’ouverture.

Il secondo capitolo è già, a mio parere, un colpo di genio: perché Márai in esso riferisce le reazioni della gente alla notizia dell’evasione del celeberrimo detenuto. Sembra un capitolo superfluo, inutile ai fini della storia, ma contribuisce a creare quella dimensione giocosa, fiabesca, in cui lo scrittore vuole collocarsi – e collocare il lettore. È anche un modo per introdurre un diverso punto di vista e creare intorno allo scrittore e dongiovanni Casanova un alone di “oralità”, di voci, sussurri, ammiccamenti che ne dilatano la figura, fino farne “un uomo” per eccellenza.

Un uomo, titolo del terzo capitolo, è infatti la definizione che di lui danno le donne di Bolzano che lo spiano dalla serratura mentre “dorme appassionatamente”: come si fa – mi domando io – a “dormire appassionatamente”? È da abbinamenti insoliti come questo che si vede la superiorità di uno scrittore, perché l’originalità non è fine a se stessa, gratuita, ma in questo caso ci illumina sul personaggio – che è l’unico vero uomo perché fa tutto con passione, anche una “azione” così passiva come il… dormire.

Ma se il sonno di Casanova è così significativo, ancor di più lo è il suo risveglio, alla cui narrazione sono infatti dedicati ben tre capitoli, dai titoli espliciti: il risveglio, vocalizzi ed esercizi, il bacio. Il ritmo della narrazione è lentissimo: il seduttore è colto in azione di fronte alle donne di Bolzano e in particolare con la giovane Teresa, che cerca sulle prime di resistergli, ma poi si abbandona al suo bacio. E se al bacio viene riservato un intero capitolo, non è per scendere nei dettagli fisici di chissà quale ars amatoria, bensì per riferire le sensazioni e i pensieri dei due amanti, in pagine di delicatissime riflessioni sul mistero dell’attrazione e dell’amore.

Nei due capitoli successivi, Uno scrittore e «Non offendere Venezia», Giacomo attraverso il dialogo con padre Balbi definisce se stesso, la propria identità, le proprie radici, il sentimento conflittuale, di amore e odio, verso Venezia: le sue parole sono un’esaltazione della scrittura («che ha potere sul destino e sul tempo») e di Venezia: «Venezia non è soltanto quel che si vede di lei. Quanti sono a conoscerla? Bisogna esserci nati, per conoscere Venezia! Bisogna aver assorbito insieme al latte materno il suo profumo acre e stagnante, impregnato di muffa, quel profumo nobile e corrotto che somiglia all’alito dei moribondi, al ricordo di un’ora felice in cui non temevamo né la vita né la morte, e ogni fibra del nostro corpo, ogni recesso della nostra mente era in preda all’incantesimo di quell’istante, alla vertigine di quella realtà, all’estasi della consapevolezza di essere vivi qui sulla terra, a Venezia».

Col nono capitolo, nei pensieri di Giacomo compare Francesca, il suo amore incompiuto. È pomeriggio, il barbiere che è venuto a sistemargli i capelli gli comunica che il Conte di Parma vuole vederlo; così, rimasto solo, Casanova ripensa al Conte di Parma e a Francesca che adesso è sua moglie: lui l’aveva conosciuta quindicenne a Pistoia, un anno dopo l’aveva incontrata nel giardino della villa, la mattina del giorno in cui doveva fidanzarsi con il conte di Parma, e un anno dopo ancora il conte di Parma l’aveva sfidato a duello e lo aveva ferito seriamente – questo era avvenuto cinque anni  prima e forse «Francesca e quei giardini silenziosi erano stati la giovinezza, quello era stato l’attimo estremo della sua giovinezza».
Intanto scrive una lettera al suo protettore veneziano, messer Bragadin, per chiedergli dei soldi – il principale degli accessori cui allude il titolo del capito successivo: gli altri sono le armi e i vestiti, ma va da sé che coi primi ci si procurano facilmente gli altri due. Per avere soldi, però, Casanova non può aspettare che gli arrivino da Venezia, così esce per le strade di Bolzano e va da un usuraio, Mensch. Tra i due si sviluppa un vero e proprio duello – ovviamente solo verbale, a livello di strategie comunicative – in cui ciascuno dei due ‘contendenti’ mira a perseguire il suo fine: Giacomo quello di ottenere il denaro, che ha per lui una vitale importanza in questo momento, Mensch quello di non lasciarsi sedurre, di resistere, di negare. Naturalmente ha la meglio Casanova, che però cercherà di procurarsi altro denaro con il gioco e con una sorta di “lavoro” procuratogli da Balbi: quello che oggi chiameremmo il counselling psicologico, ossia il consulto.

Siamo all’11° capitolo, che diventa una galleria di tipi umani – i “clienti” di Giacomo – tutti accomunati dall’aspettarsi sempre qualcosa dalla vita, soprattutto l’amore, ovviamente, senza voler però dare nulla in cambio, senza volerne però pagare il “prezzo”. Ma anche la “ciarlataneria” del protagonista finisce col diventare, nelle mani di Márai, uno strumento di autocoscienza del personaggio: grazie al dialogo con l’ultima postulante Casanova ha modo di riconoscere, di dichiarare la propria infelicità e non è un passo da poco. Arriviamo così agli ultimi quattro capitoli, il culmine del romanzo, quelli che gli danno il senso e il titolo: in particolare il 14° capitolo, il penultimo, si intitola appunto La recita, e narra l’episodio-clou, la “recita di Bolzano”. Ma prima di questo capitolo ce ne sono ancora due preparatori, Il contratto e La maschera, e significativamente al 14° capitolo ne seguirà ancora uno, La riposta.

Il 12° capitolo a noi oggi può ricordare per certi versi il film Proposta indecente, in quanto il contratto del titolo è la proposta che il conte di Parma fa a Casanova di partecipare alla festa in maschera che si terrà quella sera nel suo palazzo, per Carnevale, e passare la notte con Francesca. (Nel film è il ricco spasimante a chiedere ad una coppia squattrinata il permesso di essere per una notte l’amante della donna, in cambio di un milione di dollari.) Anche il conte offre a Giacomo tantissimi soldi e un salvacondotto che gli permetterà di attraversare l’Europa da evaso senza più rischiare di cadere nelle mani della polizia, ma la sua richiesta è molto più raffinata: incontrando Francesca, il seduttore veneziano dovrà “guarire” la donna innamorata di lui dalla malattia dell’amore, dovrà condensare in poche ore quell’evoluzione sentimentale che normalmente, nelle relazioni amorose, si verifica nel giro di mesi o di anni. Giacomo rifiuta ogni ricompensa, ma accetta l’incarico, la sfida: così, restato solo, si prepara per l’insolita festa mascherata, dove però sa che “reciterà un testo autentico”.

Il corto 13° capitolo è tutto occupato dal soliloquio del personaggio e dai suoi preparativi: scartata l’idea di fuggire subito, sottraendosi per così dire all’impegno, Casanova si procura un vestito da donna per recarsi alla festa di Carnevale e organizza la sua partenza per il mattino dopo.

Ma nel palazzo del conte di Parma Giacomo non arriverà mai, perché Francesca lo previene: travestita da giovinetto, entra nella sua stanza alla locanda e parla, parla, parla… È lei a sostenere la parte principale nella recita che finalmente avviene, mentre fuori infuria una bufera di neve. Indubbiamente il fascino del romanzo nasce anche dalla sua ambientazione invernale, nordica: Márai non è uno scrittore romantico, che fa palpitare la natura in sintonia o in antitesi con i suoi personaggi, ma le poche pennellate con cui delinea lo sfondo contro cui essi si muovono ne illuminano le vibrazioni emotive e aiutano il lettore nell’interpretazione, dilatando la suggestione. In questo caso, il contrasto tra il dentro e il fuori (“Il vento del nord spazza le strade sollevando turbini di neve. Ma qui dentro regnano il silenzio ed un tepore profumato”) anticipa motivi che affioreranno nel corso del capitolo, tutto all’insegna del contrasto, del “duello”, perché l’amore è un “duetto” e un “duello”. Qui la scrittura di Márai  tocca altezze sublimi, per i temi che affronta e per la pacata eleganza dello stile. Com’è tipico di Márai, il dialogo in maschera tra Giacomo e Francesca in realtà consiste praticamente in un monologo di Francesca, intercalato da qualche breve commento o domanda di Giacomo. Ed è perciò da una voce femminile che noi udiamo parole profonde e impegnative, che trasmettono un messaggio esigente di vita, come queste: «La vita, amore mio, è la pienezza. La vita sono un uomo e una donna che si incontrano perché sono fatti l’uno per l’altro, perché sono, l’uno per l’altro, ciò che la pioggia è per il mare: l’uno torna sempre a cadere nell’altro, si generano a vicenda, l’uno è la condizione dell’altro. Da tale pienezza nasce l’armonia, e in questo consiste la vita. Una cosa rarissima fra gli esseri umani».

E la risposta viene con il capitolo successivo, il quindicesimo e ultimo del romanzo. Non è una risposta a Francesca, ma al conte di Parma, ed è una lettera che contiene una confessione sconcertante. Il mutismo di Giacomo di fronte a Francesca non era dovuto ad una sorta di frigidità emotiva del seduttore, bensì ad una precisa consapevolezza e ad una deliberata scelta: era dovuta all’amore di Casanova per Francesca, un «amore che non vuole togliere ma preservare, che non vuole ferire ma salvare». Detta Giacomo: «Siamo uomini, e il nostro alto rango ci impone un obbligo: dobbiamo conoscere il nostro cuore e il nostro destino. Non è una cosa facile. Esistono solo due farmaci divini che possono aiutarci sopportare il veleno della realtà  senza che ne moriamo anzitempo: la ragione e l’indifferenza». Così Márai ci dà il rovescio della medaglia (il punto di vista maschile), dopo averne mostrato il diritto (il punto di vista femminile) – e si rimane con l’impressione che siano agli antipodi, inconciliabili, incolmabilmente distanti…

Il romanzo si chiude, enigmaticamente, con la risata a gola spiegata di padre Balbi, che finisce di ricopiare la lettera che Casanova gli ha dettato mentre il “gentiluomo di Venezia” è già in strada, in carrozza, di nuovo in viaggio verso il suo destino, la solitudine…

 

Le braci

Se per me La recita di Bolzano rappresenta il vertice dell’arte di Márai, per molti il suo capolavoro assoluto sono invece Le braci. Le leggi enunciate nei romanzi precedenti sull’eternità dei sentimenti trovano una rigorosa conferma, una geometrica dimostrazione in questo, che è stata la prima opera dello scrittore ungherese ad essere tradotta e conosciuta in Italia… e nel mondo. Sì, perché è stato il passaparola dei lettori italiani, che nel 1998 avevano letto da Adelphi la traduzione italiana delle Braci, a decretare il grande ritorno di Márai, dopo il lungo oblio, in tutto il mondo, Ungheria compresa: Márai  infatti era stato popolare negli anni ’30, come si è visto, poi su di lui era caduto il silenzio. Roberto Calasso, l’anima dell’editrice Adelphi, in un’intervista del 2004 a “La Stampa” racconta di aver letto in una notte una dimenticata traduzione francese del libro e di aver deciso subito di acquistarne i diritti, tanto il libro lo aveva entusiasmato. Ed è a lui che si deve il suggestivo titolo, al posto di un’intraducibile immagine di candele consunte. La prodigiosa versione di Marinella D’Alessandro ha fatto il resto.

Le braci si potrebbero definire un romanzo geriatrico, e non solo perché i protagonisti sono due settantacinquenni che si ritengono vicini al temine della vita; la fine di una civiltà (il crepuscolo degli dei) è nell’aria, per la seconda volta, e tutti, personaggi e narratore, non possono far altro che prenderne atto e adeguarvisi, cercando al più di rimanere fedeli a ciò che muore, di farlo durare il più possibile, nella convinzione che l’importante è sopravvivere.
È un libro denso, struggente, malinconico. Impostato come un “canto e controcanto”, sotto l’artificio del dialogo tra due amici sviluppa un doppio discorso: da un lato racconta in flashback un triangolo amoroso con mancato delitto, istruisce un processo indiziario alle intenzioni – partendo da pochi fatti realmente accertati; dall’altro elabora una serie di microsaggi su passione, amicizia, musica, ricordi, vecchiaia, comportamento umano, destino, storia europea ecc. Di conseguenza anche il tempo si sdoppia, o addirittura si moltiplica: il lettore deve seguire il  tempo del colloquio, ricostruire il passato del protagonista, nelle varie tappe della sua vita e nelle ore di un giorno cruciale, e insieme ripercorrere il tempo della storia d’Europa ai primi del Novecento. Il tutto è raccontato in 20 capitoli, privi di titolo questa volta, da un narratore esterno, che cerca di essere il più oggettivo possibile: non ci presenta i personaggi, non ci dice né dove né quando vivono, e tocca a noi rimettere insieme le informazioni disseminate qua e là nel testo.

Ad un primo livello di lettura, quello delle azioni nel ‘presente’ della storia, la trama è semplicissima, fin troppo esile. È il 14 agosto 1940: il protagonista, il generale Henrik, riceve una lettera che gli annuncia la visita del suo più caro amico di un tempo, Konrad, di ritorno in patria dopo 41 anni di assenza. Chiama la governante del castello, la sua vecchia balia Nini, e le dà istruzioni per allestire una cena in onore dell’ospite. Durante la cena i due amici si raccontano reciprocamente la vita che hanno trascorso separati; dopo cena invece parla quasi esclusivamente il generale, in un lungo monologo in cui l’altro inserisce appena qualche intercalare. È ormai l’alba quando Henrik rivolge all’amico due domande a cui questi non risponde, prendendo invece congedo. Henrik si ritira nella sua stanza a dormire, dopo un breve colloquio con la balia.

Anche questo romanzo è costruito con quella che si potrebbe definire una “sintassi di attesa”, una tecnica di dilazione creatrice di “suspense”: se nel primo capitolo viene recapitata una lettera che annuncia un arrivo, il personaggio atteso apparirà sulla scena soltanto alla fine del capitolo nono, quasi a metà del libro. Nei capitoli dal secondo al settimo ci si muove su di un altro piano temporale, il tempo si dilata grazie ad una serie di flashback. Il generale ricorda il primo incontro e il matrimonio tra i suoi genitori, la contessa francese e l’ufficiale ungherese, “che non si comprendevano” tanto erano agli antipodi per abitudini di vita e sensibilità: «L’ufficiale della guardia e sua moglie si combattevano in silenzio, avendo come armi la musica e la caccia, i viaggi e i ricevimenti». Poi rievoca un episodio cruciale della sua infanzia, il viaggio dalla nonna francese e la sua malattia dovuta alla permanenza in quella terra straniera; ricorda l’educazione severa, spartana nel collegio militare a Vienna e l’amicizia adolescenziale con Konrad, che appaga il suo bisogno di affetto.

I capitoli 6 e 7 sono dedicati ad un tema cruciale, ricorrente nella letteratura novecentesca mitteleuropea (si pensi in particolare a Thomas Mann): la musica. Per il protagonista che ripensa al passato, e che non ha orecchio musicale, la musica è il nascondiglio segreto di Konrad, un rifugio dove lui non poteva seguirlo. Henrik e suo padre, i “borghesi”, si limitavano a tollerare la musica e la consideravano con indulgenza, come una specie di capriccio giovanile; per la madre di Henrik e per Konrad, invece, dalla  musica si sprigiona una forza eversiva: la musica scatena forze che sommuovono e fanno esplodere tutto ciò che di solito viene accuratamente occultato dall’ordinamento umano.  Sotto questo aspetto, Le braci possono rappresentare la continuazione dei Buddenbrook e della Montagna incantata, proprio perché riprendono il tema dell’antagonismo parola-musica, ragione-musica, vita-musica, ma si possono anche considerare come il rovesciamento del Tonio Kröger di Thomas Mann: lì era l’artista ad avere nostalgia dell’ordine e del successo borghese, qui è il borghese a invidiare l’artista per il mondo ‘altro’ che la musica gli dischiude.

Con i capitoli 8 e 9 si ritorna al “presente” della storia, agli ultimi preparativi prima dell’arrivo dell’amico, dopo tanti anni di lontananza. È un evento che segna una cesura, una svolta nel romanzo. Ma la narrazione si allontana subito dal presente, perché durante la cena i due amici si raccontano gli eventi essenziali degli anni che hanno trascorso separati: Konrad parla della sua vita ai Tropici e del marchio che lascia, Henrik rievoca la guerra (la prima guerra mondiale) che ha cancellato il mondo cui loro due avevano giurato fedeltà, un mondo  per il quale valeva la pena di vivere e di morire, e informa l’amico della morte della moglie, Krisztina, colpita da anemia perniciosa all’età di trent’anni, nel 1907.

Ma siamo ancor sempre in attesa che l’incontro venga al dunque, e sveli la verità che Henrik aveva dichiarato di voler cercare. Nel capitolo 12 si ritorna per un momento al presente, la cena ha termine e i due si spostano nella sala del pianoforte. Ma dal capitolo 13 in poi ci immergiamo di nuovo nel passato: il colloquio fra i due amici si trasforma praticamente in un monologo del generale, che ricorda il fatto cruciale avvenuto nell’ultimo giorno trascorso insieme, prima della “fuga” di Konrad, durante la battuta di caccia cui loro due avevano partecipato, e la scoperta da lui fatta il giorno dopo, nella casa che Konrad aveva abbandonato. Ovviamente non si può rivelare di quale fatto e di quale scoperta si tratti, perché il libro è anche un romanzo-giallo sui generis e non è giusto distruggerne la suspense; meglio sottolineare la dimensione “saggistica” e “filosofica” che caratterizza questo romanzo, come e forse più degli altri libri di Márai .
Soprattutto nella seconda parte, infatti, come abbiamo visto, sono incastonati nel discorso di Henrik dei veri e propri microsaggi: sulla passione, sull’amicizia, sulla vecchiaia, sul destino, sul senso della vita, sull’attesa, sui ricordi, sull’accettazione di sé, sulla musica, che danno al testo uno spessore e un sapore particolare.

Il dialogo tra il generale e Konrad si conclude con un gesto altamente simbolico: il diario di Krisztina, dove verosimilmente è custodita la risposta alle domande che hanno tormentato il generale per tutta la vita, viene gettato nel fuoco, e all’ultima domanda di Henrik: «Non credi anche tu che il significato della vita sia semplicemente la passione che un giorno invade il nostro cuore, la nostra anima e il nostro corpo e che, qualunque cosa accada, continua a bruciare in eterno fino alla morte? E non credi che non saremo vissuti invano, perché abbiamo provato questa passione?»,
Konrad tranquillamente replica: «Perché me lo domandi? Sai bene che è così». Dopo di che, l’amico-rivale si congeda e il generale si ritira a dormire (anche se è ormai l’alba), scambiando un bacio della buonanotte con la sua vecchia balia, «uno strano bacio rapido e un po’ goffo… Ma come tutti i baci umani anche questo, alla sua maniera tenera e grottesca, è la risposta a una domanda che non è possibile affidare alle parole».

Che cosa ci vuol dire Márai , con questo romanzo, con questa conclusione? Che è inutile cercare di mettere ordine nel turbinio della vita umana? Che è vano parlare di lealtà, onore, devozione, fedeltà – come sosteneva Bruno Ventavoli in un articolo su La Stampa? A me non sembra affatto che Márai sia così disfattista e rinunciatario, anzi… non avrebbe scritto i suoi romanzi, se lo fosse. “Cercare di mettere ordine nel turbinio della vita umana”, come fanno i due personaggi con il loro dialogo, è tutt’altro che “inutile”, è tutto ciò che l’uomo può fare, è ciò che lo tiene in vita, ma è appunto un cercare, un tentativo: è una ricerca che vale di per sé, in quanto tale. Non importa se è “impossibile” riuscire a mettere ordine “nel guazzabuglio del cuore umano”, non importa se è impossibile trovare una risposta razionale agli enigmi della vita – già riuscire a parlarne, a scriverne è tanto, già arrivare a riconoscere che sono l’intensità e l’autenticità della passione a dar senso alla vita è tanto: questa è per noi l’eredità di Sándor, questa è la ragione per leggere i suoi libri.

           

2 – FINE 

QUI la prima parte della mia lettura