L’incomunicabilità della conoscenza

Leonardo San Giovanni Battista

Leonardo San Giovanni Battista

ANTONIO VIGLINO

Yogin, lama, adepti, filosofi naturali, cabbalisti, alchimisti nonché i mistici di ogni dove, anche questo hanno in comune, l’asserire che delle loro esperienze e quindi del loro sapere non è possibile parlare compiutamente. E questo non per altro ma per il solo e dichiarato motivo che le persone ordinarie non sarebbero state in grado di capirle.
Afferma Eraclito che gli uomini sono “come bestie d’armento”: “rispetto alla conoscenza delle cose manifeste gli uomini vengono ingannati…”; “gli uomini non sono consapevoli di tutto quello che fanno, una volta desti, proprio come si dimenticano di quello che fanno mentre dormono”, e via dicendo.
Scrive Parmenide da parte sua che gli uomini errano nel non rendersi conto dell’Essere, e danno nomi alle cose (dice ad esempio che rispetto all’essere “saranno nomi tutte quelle cose che hanno stabilito i mortali, convinti che fossero vere”), poiché sono “sordi e ciechi a un tempo”.
I filosofi e gli storici della filosofia sostanzialmente ignorano queste sferzate dei due grandi filosofi naturali, e riducono il loro pensiero a concetti logici o metafisici. Invece Parmenide e Eraclito dicono chiaramente con grandissima forza, nei pochi frammenti rimasti dei loro poemi, che gli uomini ordinari non comprendono nulla della realtà effettiva, bensì sono ingannati dai fenomeni al punto da prenderli per vera e unica realtà. Lo stesso diceva Socrate, sebbene in termini più urbani, e lo stesso diceva Platone — per quanto anche il suo pensiero sia anestetizzato dai sedicenti filosofi che lo vogliono un filosofo razionalista, nonostante che Platone stesso dica costantemente che i sensi sono ingannatori e la facoltà razionale sia uno strumento limitato e fallace, inadeguato a comprendere la vera realtà.
Nel confronto con questi grandissimi sapienti, vale per i filosofi ordinari del pensiero occidentale quello che dice Eraclito: “di questo logos che è sempre gli uomini sono incapaci di comprensione, né prima di aver sentito parlarne, né dopo aver sentito parlarne la prima volta”. E ciò per il semplice motivo che se appunto si legge cosa Parmenide, Eraclito, Socrate e Platone dicono per cosa dicono, senza credere di sapere che debbano essere stati filosofici razionalistici, allora si deve prendere atto del fatto che il successivo pensiero occidentale, per quanto proprio su di essi proclami di fondarsi, non ha in verità nulla a che spartire con cosa loro costoro affermavano.
Sarà infatti poi solo Aristotele che impose il paradigma della ragione come mezzo unico e verace di conoscenza, e della realtà materiale e razionale come esaurente l’intero mondo. E questa impostazione, anche quando aveva ad oggetto il dio del cristianesimo, è quella che si è affermata al punto da costituire l’anima del pensiero occidentale ed essere ai giorni nostri pienamente trionfante.
Ma quindi Parmenide, Eraclito, Socrate e Platone erano dei visionari, degli inguaribili sognatori ad occhi aperti e, per puro caso, anche seducenti affabulatori? Eppure questi quattro filosofi sono sempre stati e sono oggi ancora studiati come la base del pensiero occidentale che invece è puramente meccanicistico e razionalistico!
La verità è molto semplice, ed anche molto facile da cogliere, se ci si sottrae al pregiudizio che il pensiero occidentale sia la Verità. Parmenide, Eraclito, Socrate e Platone dicevano in sostanza esattamente lo stesso di ciò che nell’Oriente, in India e in Tibet in particolare, ma anche nelle tradizioni esoteriche di ogni luogo e tempo, è la comprensione basica ed elementare della realtà. A partire dal Rigveda, attraverso le Upanishad, il Buddhismo, il Vedanta, i Tantra e le varie scuole di Yoga, in Oriente costantemente viene dato per scontato ciò che i primi filosofi greci avevano inteso e quindi dicevano (seppur in modo un po’ rozzo ed involuto, a causa del fatto che costoro non avevano una solida tradizione conoscenza alle spalle).
Questa premessa introduce all’argomento della incomunicabilità della vera conoscenza.
Oggi tutti possono leggere le Upanishad, e tutti, gli accademici come i vari lettori, credono che siano testi filosofici, assai profondi e un po’ ingenui. Ma forse non si sa che questi testi in passato erano assolutamente segreti, tanto che a chi li avesse ascoltati senza autorizzazione gli si sarebbe versato piombo fuso nelle orecchie — come si connette questa dimensione di segretezza iniziatica con la intrinseca fatuità e inessenza di un contenuto semplicemente filosofico? Certo questo problema non si porrebbe se si avesse la bontà di por mente a cosa dicono i rishi stessi compositori delle Upanishad, i quali affermano che Brahman e prana non sono concetti, ma la vera realtà. Allo stesso modo gli yoga di Naropa, che sono alla base delle scuole del buddismo tibetano della seconda ondata di traduzione di tantra indiani, furono trasmessi da bocca o orecchio dei soli discepoli meritevoli per tredici generazioni; e fu solo a causa della occupazione cinese del Tibet che alcuni testi del Veicolo del Diamante sono stati rivelati in Occidente. Ancora, in tutti i Tantra rivelati dell’India, si legge che i testi stessi contengono solo una succinta descrizione della conoscenza e delle pratiche, le quali debbono restare segrete. E forse si ignora che il Buddha Shakyamuni, quando un discepolo gli chiese di parlargli della vera realtà, rispose che parlarne non avrebbe avuto senso, perché può capirla solo chi vi giunge, mentre per chi non la esperisce il sentirne parlare è del tutto inutile. Per quanto riguarda la Qabbalah, poi, si deve sapere che i testi dei cabbalisti rivelano il minimo indispensabile delle verità segrete, e precisamente dicono solo nozioni di carattere generale, perché tocca all’adepto procedere da sé sul sentiero; quanto all’alchimia basta leggere un qualsiasi testo per rendersi conto della impenetrabilità assoluta di cosa vi sia scritto. Ed anche Gesù fa affermazioni identiche, ad esempio quando dice agli apostoli che alle genti parla per parabole perché diversamente non capirebbero; peraltro aggiungendo che le conoscenze segrete le rivela agli apostoli, però nei Vangeli, perlomeno in quelli sinottici, di queste nozioni superiori non v’è traccia. E per finire questa carrellata non si può non menzionare il Rigveda, il testo unico e supremo del quale tutte le diverse tradizioni sono approfondimento e commento di diversi e singoli aspetti; dice il rishi Vamadevah nell’inno III del IV mandala: “Così, o Agni, io rishi ti parlo — parole arcane, saggezze di rishi che al veggente soltanto manifestano il loro senso reale nascosto”.
E per spiegare il perché di questa segretezza si può citare nuovamente il Rigveda: “Altrimenti, egli non vede, sebbene guardi, egli non comprende, sebbene ascolti. Viceversa, a colui che è pronto, la dea Parola svela la sua forma più bella, come una donna affettuosa si spoglia davanti al proprio marito” (X.LXXI,4). Le conoscenze esoteriche non sono comprensibili a chi non abbia la fortuna (cioè, stando ai testi, la grazia divina coltivata con dedizione assoluta) di avere esperienza diretta e personale di quel livello superiore di realtà di cui le Tradizioni sono tramite. In termini diretti: accumulare nozioni ed erudizione non serve a nulla, autoreferenziale e insignificante è la comprensione intellettuale, perché la vera conoscenza, il Sanatama Dharma, può essere solo vissuto.
A questo punto si può ritornare a Platone.
Nella sua famosa Lettera Settima, in cui tratta un bilancio della sua vita politica e delle esperienze conoscitive, afferma, riferendosi ai tratti fondamentali e originari della sua filosofia: “in effetti, la conoscenza di tali verità non è affatto comunicabile come le altre conoscenze, ma, dopo molte discussioni fatte su questi temi, e dopo una comunanza di vita, improvvisamente, come luce che si accende dallo scoccare di una scintilla, essa nasce dallanima e da se stessa si alimenta. Tuttavia questo io so: che se dovessero essere messe per iscritto o essere dette, lo sarebbero nel miglior modo possibile da me… Ma io non credo che quel che passa per una trattazione, a riguardo di questi argomenti, sia un beneficio per gli uomini, se non per quei pochi i quali da soli sono capaci di trovare il vero con poche indicazioni date loro, mentre gli altri si riempirebbero, alcuni, di ingiusto disprezzo, per nulla conveniente, altri, invece, di una superba e vuota presunzione, convinti di aver imparato cose magnifiche”.
Questo passo di Platone è molto importante, e costituisce una sintesi del rapporto tra le conoscenze esoteriche e le conoscenze degli uomini comuni.
In primo luogo, Platone dice esplicitamente, proprio come dicono gli yogin e i mistici, che la conoscenza delle verità fondamentali non è comunicabile come le altre conoscenze: non può essere detta dialogicamente ad altri, né può esser messa per iscritto, perché chi ascolta o chi legge non potrebbe capire — e ciò vale anche se l’ascoltatore o il lettore fosse Aristotele o Einstein. Perché chi ascolta non può capire? Per il semplice fatto che le verità esoteriche si riferiscono a sfere di esperienza che sono ulteriori rispetto a quelle comuni e ordinarie; se l’interlocutore non ha avuto di queste esperienze, si possono dare due alternative sole: o crede che le cose che sente siano follie, o le riduce alle proprie limitate esperienze e conoscenze — è la mente umana che funziona così, ed è questo ciò che Socrate chiama “il credere di sapere”. Prosegue Platone chiarendo che questa particolare conoscenza di ordine superiore scocca, se scocca, come una luce che si accende nella mente, allo stesso modo in cui tutti gli yogin, i lama, gli alchimisti e via dicendo, dicono che si apre una luce nella mente. Platone dice cioè che la vera conoscenza è una esperienza, non una apprensione di concetti come la intende il pensiero occidentale da duemilacinquecento anni — per tutti gli adepti i concetti sono solo fantasmi, giochi di parole, creazioni della ristretta mente razionale che brancolando crede di sapere creandosi nozioni a sua misura. Poi Platone aggiunge che nessuno meglio di lui potrebbe mettere per iscritto queste cose (e chi ha letto i suoi Dialoghi sa di certo che non si vanta), ma non lo fa; e non lo fa appunto perché i più, come detto sopra, o le disprezzerebbero o le banalizzerebbero, e ciò sarebbe senza dubbio di nocumento per la sacralità delle verità. E precisa ancora Platone che pochi sono coloro che da soli sono capaci di trovare il vero, e a questi bastano poche indicazioni: ciò implica (Platone non lo dice espressamente, ma gli yogin sì) che anche per costoro la rivelazione dei segreti sarebbe di disvalore, perché essa li priverebbe della possibilità di realizzare, e cioè di conoscere in senso effettivo, le esperienze di cui consta la Scienza Sacra. Ed anche un’altra lapidaria asserzione di Platone deve essere intesa in questo alveo: scrive l’Ateniese nel Fedro che chi scrive o dice tutto cosa sa o pensa, è niente altro che un parolaio (nelle tonnellate di libri in commercio, compresi quelli dei filosofi, si constaterà che gli autori si sforzano in ogni modo di riempire pagine con le proprie opinioni e giustificazioni, altro che astenersi dal dire le cose più profonde…), mentre il vero filosofo è chi ha cose di maggior valore rispetto a cosa comunica. Queste cose di maggior valore sono da intendersi non solo come una riserva di nozioni, ma sono propriamente quelle cose che non si possono comunicare. In altri termini, ciò che Platone dice è che solo chi ha le conoscenze superiori dovrebbe poter insegnare (ed è appunto ciò che egli ha fatto nei suoi Dialoghi), diversamente i sedicenti maestri sono guide cieche.
Ebbene, tutti questi motivi che Platone oppone al divulgare le conoscenze supreme, sono esattamente le stesse che dicono gli adepti di ogni Tradizione. Non si può rivelare la Scienza Sacra in modo discorsivo, perché chi non ha esperienza dei fenomeni sacri non può comprendere cosa gli venga detto — ed è questo il motivo per cui sempre si legge che il linguaggio  (ordinario) non è idoneo a comunicare nulla di vero, ed ancora è per questo motivo che la kundalini è da tutti detta la dea del linguaggio (pre-teoretico). Eppure gli yogin e i lama, e gli alchimisti e i cabbalisti e non da ultimo Platone, dicono cose effettivamente sacre e segrete, in modo più o meno velato o diretto a seconda dei contesti; e questo perché obbligo dei risvegliati, come essi stessi dicono, è di perpetuare la conoscenza, di tenere viva la fiaccola della vera sapienza, a beneficio degli esseri senzienti (come dedicano i loro testi i tibetani). E proprio il coesistere di queste due motivazioni generali apparentemente contrastanti, e cioè l’impossibilità di comunicare cose sacre, e al contempo l’obbligo di dirne nei limiti in cui è possibile, rende evidente il perché gli adepti, come sempre dicono, non mirino a convincere o persuadere alcuno: la facoltà razionale ordinaria non è in grado di comprendere le cose spirituali, quindi il voler dibattere su tali argomenti e il chiederne prove idonee a soddisfare la ragione sarebbe futile e sciocco, così come il persuadere è inutile, perché solo chi vi è portato può conseguire la conoscenza diretta. I risvegliati rivelano ed insegnano: chi è in grado di animadvertere o presagire cosa è detto, ne può trarre grande beneficio, per sé e per gli altri, quelli che invece credono di sapere restano come sono.
Certo per gli occidentali tutte queste sono sciocchezze, tant’è vero che sono rarissimi i pensatori occidentali che hanno capito cosa dicesse davvero Platone in oltre agli insegnamenti basici che elargiva per indirizzare gli uomini a un vivere non animalesco. Ma c’è anche l’eventualità che al contrario gli occidentali vivano, parafrasando Shantideva, come quel malato che crede di guarire unicamente leggendo trattati di medicina.