Bellezza, espressione di libertà

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CLAUDIO SOTTOCORNOLA

Resto dell’idea che, se ci poniamo ermeneuticamente nei confronti della realtà, sia poi congruo avere atteggiamenti di rispetto verso le altrui posizioni che, prospetticamente, restituiscono “l’intero”. Ecco perché ritengo appartenga alla sfera dell’essere, e dunque di un qualche valore, anche una concezione materialistica e direi quasi esclusivamente biologica della bellezza. Ma non dimentico, subito dopo, la provocazione a cui sottoponeva noi studenti la Prof.ssa Sofia Vanni Rovighi, ordinaria di Filosofia Teoretica alla Università Cattolica di Milano e celeberrima studiosa neo-scolastica, quando azzardava: “Chi di noi vorrebbe rinunciare ad avere, nella Storia dell’umanità, un Giacomo Leopardi, a favore di un qualunque calciatore?”. Lascio immaginare le perplessità che oggi (con un calcio internazionale abbastanza immorale dal punto di vista economico-finanziario, ma che pure è uno degli strumenti più idonei a plagiare e domare le masse) susciterebbe una tale opzione radicale fra due ordini di valori così asimmetrici. Ma la mia prof voleva solo ribadire un principio che le era caro: non tutti i valori si equivalgono, e dunque, anche se faticosamente, è giusto, è lecito, è auspicabile, sceverare una sorta di graduatoria, gerarchia, scala dei valori che si offrono alla nostra valutazione. E fuor di metafora, i valori biologici, altissimi, sembrano inferiori a quelli spirituali o, con linguaggio più attuale, il piano della libertà (proprio delle scelte, che appartengono alla sfera interiore dell’uomo, e dunque a quella che tradizionalmente viene chiamata la sua “anima”) è superiore al piano della necessità (quello, kantianamente, della natura e dei suoi rapporti di causalità). Dunque i valori artistici, filosofici, morali, spirituali, risulterebbero incommensurabilmente superiori, per esempio, a quelli del corpo, intesa come mera entità materiale e biologica. Ovvio – lo sappiamo tutti – che in realtà i due ordini non sono così manicheisticamente separabili, in virtù del fatto che la nostra esperienza umana è unitaria, e che noi  viviamo anche il corpo, e lo guidiamo, a partire dal piano della libertà, e pertanto, ad esempio, anche il calciatore che disciplina il corpo è, in certa misura, un artista, o un maratoneta della voluntas, e quindi imprime al proprio agire una qualità di sforzo che ha natura senz’altro etica e, dunque, “spirituale” o “libera”. Ma le semplificazioni (Leopardi o un qualunque calciatore?) a volte servono a meglio definire, ritagliare, circoscrivere, comprendere, proprio come fanno i paradossi.

Detto che anche la bellezza intesa biologisticamente è “qualcosa”, resta da aggiungere che è “poca cosa”, rispetto agli orizzonti di una bellezza che dell’anima sia improntata, e dunque restituisca, per così dire, l’essenza profonda, la vita intima, la complessità e vastità di orizzonti della coscienza nel suo relazionarsi con il tutto, divenendone cassa di risonanza, mediante una interpretazione che costituirà un unicum, un mondo irripetibile nella sua configurazione, attraversato dalla profondità di un’intelligenza sintonizzata con il fondamento fondante di ogni cosa. L’intelligenza che riflette l’essere diviene allora il luogo più idoneo della sua manifestazione e, quando questa ha luogo, si ha una esperienza di bellezza intensa e universale. Se questa è la meta, ovvio che i gradi di attuazione variano, e che in una società caratterizzata dal più radicale materialismo consumistico, vi sia una sorta di banalizzazione della bellezza, che è persino più dolorosa della sua corruzione, perché almeno quella lascia intravedere, per desiderio e contrasto, il valore di riferimento, mentre questa – la banalità più assoluta – è puro oblio della bellezza, ovvero una sua ben pallida evocazione. Ecco perché i giovani di oggi hanno estrema difficoltà a comprendere il linguaggio della grande poesia, da Leopardi a Montale, da Campana a Pascoli, da Luzi a Dante: sono continuamente sovraesposti a stimoli fisici e immediati, ordinari e volgari, convenzionali e privi di qualunque originalità, che plasmano le loro sinapsi e le orientano a una percezione piatta e semplificata del fatto estetico. Con danni gnoseologicamente irreparabili per le loro possibilità di esperienza futura.

Voleva Kant che l’esperienza estetica fosse l’esercizio, il libero gioco delle facoltà del soggetto, in qualche modo catalizzate da un’occasione-spinta (l’oggetto estetico), a fronte della quale, tuttavia, determinanti sono proprio le “facoltà del soggetto”, al punto che la vera bellezza, in ultimo, risiederebbe proprio in lui, nel soggetto che, faticosamente, ha sviluppato quelle facoltà o capacità, appunto “estetiche”, che lo rendono idoneo a “giocare” ai livelli più alti, proprio come un Maradona dell’esperienza estetica. In realtà, si potrebbe pensare che “è il bello in me che riconosce il bello in te”, ma se, sempre come voleva Kant, tale gioco è il riflesso della libertà noumenica nel mondo della natura, allora pervenire a tale condizione di “libertà”, o quantomeno tendere ad essa con tutte le proprie forze, vuol dire anche rendersi capaci di una esperienza estetica superiore. E questa forse testimonia un grado di libertà, e dunque una perfezione etica, più alta.

Così, l’esperienza della bellezza è un po’ come il gioco della palla: l’oggetto c’è, e la sua rotondità mi permette di farlo rotolare e passare, di mirare in porta, ma la qualità del gioco è tutta mia e, forse, anche il merito. La palla è solo un’occasione per perfezionarmi nel gioco. (E così abbiamo rivalutato anche il calciatore, umiliato dalla Vanni Rovighi e da chi riferisce le sue parole!). Il gioco della libertà…

Certamente, a fronte dell’enorme peso specifico che la soggettività ha in Kant, ma a maggior ragione anche in Hegel, e più in generale nella modernità, resta l’opposta sottolineatura di una sorta di “oggettività assoluta” – il mondo delle idee – in Platone e – la forma, essenza o sostanza delle cose – in Aristotele, ma più in generale in tutta la classicità e il periodo medievale. Platone, in effetti, sottolinea come non vi possa essere alcuna esperienza dei valori e della loro declinazione senza un originario rapporto della mente con i fondamenti di tali valori, le Idee in sé, e dunque, a livello estetico, la bellezza in sé, che poi identifichiamo nelle sue declinazioni sensibili e spirituali finite e limitate. Aristotele, che fa discendere l’idea “nella cosa”, come sua forma o essenza, ritiene comunque che essa abbia un’ontologia propria, e dunque una bellezza specifica che può essere rilevata dalla mente umana. Trovo, come sempre, nell’Ermeneutica contemporanea una via d’uscita dall’impasse, meglio ancora, una sintesi fra le due posizioni: l’esperienza della coscienza è sempre relazionale e in qualche modo riferibile ad una polarità-mondo – come voleva la fenomenologia – e il rapporto fra le due – coscienza ed essere/ pensiero e mondo – si costituisce come “interpretazione”. Anche l’esperienza della bellezza dunque, in tale ottica, comporta un approccio relazionale, di essenziale apertura ad una qualche trascendenza, rispetto al semplice atto del mio esistere, ed una manifestazione di tale apertura nell’esperienza estetica.

Ribadisco sempre che gli artisti e gli esteti della vita poi sono più numerosi e nascosti di quelli acclarati, e che esistono individui che sembrano capaci di produrre bellezza autentica e segreta in una quotidianità non certo gratificante e corrispondente: eppure essi riescono a generare intorno a sé una armonia e un ordine, una semplicità e una gioia che costituiscono un mondo a parte, un luogo dove hanno tregua i dissidi e le perturbazioni della vita. Come ve ne sono altri che appaiono seminare tempesta. Di solito la dicotomia appare riconducibile ad una diversa scelta (a prescindere dal grado di consapevolezza coinvolta) di tipo etico, e del resto abbiamo capito, nel solco della riflessione kantiana, che un incremento di libertà (connessa alla condizione morale dell’uomo), produce un suo più intenso risplendere nell’ordine della natura e del fenomeno, dunque del divenire e della Storia, generando una più elevata estetica. Il grado di libertà, e dunque di bene che è dato realizzare, secondo la grande tradizione spirituale dell’Occidente cristiano, è connesso al grado di verità che siamo in grado di riconoscere ed esprimere, e questa verità corrisponderebbe ad una sorta di giusta mappatura dell’ordine dei valori, identificati nella loro gerarchia ontologica. In primis è essenziale distinguere l’ordine della creaturalità dall’ordine del trascendente: mondo e Dio. Ciò comporterebbe un atteggiamento conseguente, per cui la creatura riconoscendosi finita, contingente, dipendente e intimamente relazionale nell’ordine dell’essere, assumerebbe una posizione di umiltà (corrispondente alla consapevolezza della verità su di sé), la cui totale assenza o privazione determinerebbe invece il sorgere del vizio opposto a tale virtù, la superbia, non  a caso temuta dallo stesso Dante come tentazione prossima, e catalogata dallo stesso cristianesimo come il vizio in assoluto più grande in cui sia possibile incorrere. Umiltà e bellezza, o verità e bellezza, o libertà e bellezza, sembrano quindi stare assieme, così come a capo della superbia sembrano essere riferibili inestetismi non marginali, come la volgarità, l’ostentazione, l’eccesso, per esempio di lusso e ricchezza. Personalmente, l’estetica di un soggetto mi è sempre di grande aiuto nel cercare di comprendere, ad una prima occhiata, le sue priorità morali e, di riflesso, la sua ontologia personale.

Ma guardo ai medievali quando devo tentare una sintesi che salvaguardi la complessità del reale, quando vado cercando una soluzione ottimistica alle almeno apparenti aporie del pensiero, quando cerco un qualche conforto alla freddezza della modernità e all’approccio da slot machine del postmoderno. I loro bizantinismi mi appaiono in realtà come un tentativo di salvaguardare tutto l’ordine del reale, di fare in modo che nulla vada perduto, di raccogliere anche le briciole, alla tavola della conoscenza. Così trovo nella loro dottrina dei trascendentali, come analizzato anche nel mio “I trascendentali traditi” (Velar, 2011), un’ancora, un porto, una rivelazione. Verità, bene e bellezza (ma anche altro, secondo le diverse declinazioni della teoria) sarebbero attributi fenomenologicamente trasversali a tutto l’essere e pertanto, in primis, riferibili nella loro pienezza allo stesso eventuale fondamento dell’essere, quella sorta di Dna – che gli Scolastici chiamavano Ipsum esse subsistens – di cui gli altri esseri si costituirebbero in certo qual modo come partecipazioni, recandone traccia. Tutto allora sarebbe vero, bello e buono: “tutto è Grazia…”, diceva il curato di campagna di Bernanos, di fronte allo spettacolo della vita e, soprattutto, dell’esistenza umana, riscontrando una sorta di trasversale e benedicente paternità nell’ordine del creato, capace di integrare – e relativizzare – ogni ordine di grandezza.

Si capisce che in tale orizzonte non esista vera bruttezza se non come lontananza massima dall’essere, e dal suo fondamento, e cioè nell’insipienza, nella menzogna e nella malvagità più assolute. Ma tali condizioni esistono in realtà, o sono solo dei concetti limite?

Intanto, la bellezza è dovunque…

(da Claudio Sottocornola, Fiorire nel deserto, Velar 2023, pp. 123-128; estratto da Parole buone, CLD-Velar-Marna 2020)