E come ERNST

FULVIA GIACOSA

Lungi dall’essere stato “soltanto” un protagonista del Surrealismo, Max Ernst (1891-1976) ha innovato tecniche, forme, estetiche che sono proprie solo dei grandi. È stato anche poeta e scrittore. Il suo “Au-delà de la peinture” (1937) costituisce una interessante raccolta dei suoi scritti.

Nato in Germania sulle rive del Reno circondate da boschi che diventeranno luoghi psicologici oltre che fisici nelle opere degli anni Venti, da ragazzino legge Julius Verne, sogna ad occhi aperti e soffre di allucinazioni e incubi. C’è un episodio infantile a cui si riferisce un dipinto del 1926, “La Santa Vergine sculaccia Gesù Bambino”: Max a cinque anni era fuggito di casa in camicia da notte e andava dicendo di essere Gesù Bambino; riportatolo a casa, il padre – insegnante e pittore dilettante – lo ritrae in quei panni mentre la madre lo sculaccia. Un altro episodio risale al 1906 quando muore la sorellina appena nata e contemporaneamente il suo pappagallo rosa; Max si convince che la nascita della prima abbia determinato la morte del secondo. Ne deriva un processo di identificazione in un volatile, “Loplop” (1928), il suo alter ego, metafora del libero volo dell’immaginazione.  Da giovane ha molti interessi: studia filosofia, psichiatria e storia dell’arte all’università di Bonn. Le prime opere sono espressionistiche influenzate dalla frequentazione di August Macke, artista del Blaue Reiter. Le cose cambiano dal 1914 quando conosce Jean Arp con cui fonda la sezione Dada di Colonia e organizza una collettiva nel 1920, un happening ante litteram il cui scopo era quello di demolire il gusto corrente: i visitatori erano invitati a colpire con un’ascia (parte dell’opera) un lavoro di Ernst. Per lui la partecipazione all’esposizione ha anche significato la definitiva rottura dei rapporti col padre. Dopo la guerra, nel 1922 si trasferisce a Parigi e si avvicina al nascente Surrealismo. All’inizio degli anni Venti predomina il collage. Diversamente dai papier collés cubisti, il collage di Max Ernst (in realtà un montaggio) non è la semplice sostituzione della rappresentazione illusiva con pezzi prelevati dalla realtà, bensì un procedimento mentale ed estetico. L’opera d’arte nasce sì da un “prelievo” ma questo diventa starter per la creazione artistica. Ernst lo usa a partire dalla fase dadaista ma lo coltiva anche in seguito mettendolo al servizio dell’automatismo psichico bretoniano. È l’artista stesso a chiarire l’estetica del collage: “se sono le piume a fare il piumaggio, non è però la colla a fare il collage” e “Il principio di ambiguità, che è l’essenza stessa dei miei collage, mi fornisce i mezzi per trovare soluzioni immaginarie, in cui tutto è permesso e niente è falso”. Esso presuppone un “reale immaginato”, come nel sogno ove non c’è confine tra realtà e finzione, e assume un costrutto aforistico appartenente alla sfera dell’assurdo e del caso tipico di Lautréamont (“bello come l’incontro casuale di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio”), frase che ha ispirato Man Ray per “L’Enigme d’Isidor Ducasse” (1920). A collage è “L’eléfant Célèbes,” (1921) che segna il passaggio dal Dada al Surrealismo. Il titolo si riferisce ad un testo satirico che ha come protagonista un elefante; è un “assemblamento fatto con il subconscio” -dice-, un montaggio tipografico d’immagini da vecchie riviste e illustrazioni così efficace da rendere coesa la composizione: il corpo dell’elefante ha un aspetto robotico con un tubo flessibile che termina in una testa cornuta, richiamo al mito di Europa rapita da Zeus/toro; costei è identificabile con la figura femminile senza testa in basso.

La femme 100 têtes” (1929), romanzo-collage come altri del periodo, è un libro fatto di stampe a collage. Il titolo è ambiguo e gioca con le omofonie (come in Duchamp): può infatti essere intesa sia come “la donna dalle cento (cent) teste” sia come “la donna senza (sans) testa”. I temi del secondo decennio sono foreste, uccelli e città, veri e propri cicli, dove la ricerca tecnica si fa intensa. Anche dipinti nella tradizionale pittura ad olio introducono pezzi di collage, come “Oedipus rex” (1922) dai colori e segni nitidi. La tragedia greca che dà il titolo è rimaneggiata freudianamente con figure oniriche e simboliche: da una finestra sbucano enormi dita trafitte che tengono una noce (il femmineo, la vulva) infilzata da una freccia; a destra due teste di uccelli (due “genitori”) sporgono da una scatola, uno con corna di toro e legato da uno spago (i lacci delle convenzioni), l’altro che cerca di liberarsi dalla scatola-gabbia per prendere il volo (la mongolfiera sul fondo).  L’opera accosta motivi personali e collettivi: i rapporti tesi col padre autoritario, la sessualità, le convenzioni sociali. In questi anni troviamo diverse opere sul tema della coppia, da “La coppia” (1925), un collage giocoso con inserti di pizzo a “Coppia zoomorfica” (1933), dalla inquietante figura umanoide che abbraccia una vaga forma di uccello appoggiato su un trespolo. Sul piano formale, nella parte bassa dell’opera l’artista ha usato una corda intrisa di colore con cui ha “frustato” la tela lasciando colare la vernice, anticipazione del dripping di Pollock degli anni Cinquanta. Ernst ha chiamato tale modalità gestuale “oscillazione”, che può consistere anche nel forare il barattolo di vernice per poi farlo oscillare in modo da creare grovigli di colore sul supporto. Un’altra tecnica frequente dal 1925 in poi è il frottage, sostanzialmente un’impronta ricavata dal sovrapporre il foglio su una superficie irregolare (tela ruvida, corteccia, legno, foglie, pietre) e poi sfregarlo velocemente con mina di piombo, matita o carboncino, dunque quanto mai una modalità “automatica”. L’artista dichiara nel 1936 che il frottage gli consente di guardare le proprie opere “come uno spettatore” consapevole che logica e irrazionalità sono complementari e Argan sintetizza: “Ernst non racconta i sogni, li fabbrica” – e li “contempla”, aggiungiamo. Il frottage è già presente nella serie delle “foreste” (“Foresta-lische”, 1927), abbinato all’altra tecnica, in parte simile, del grattage (in francese gratter = raschiare) che consiste nel grattare con una spatola almeno due strati di pigmento fresco ad olio steso sulla tela appoggiata su un oggetto scabro lasciando affiorare gli strati di colore sottostanti cosicché si ottiene un’impronta colorata dell’oggetto e della sua consistenza. Le due tecniche sono presenti in “L’orda” (1927), ricordo delle foreste natie come di quelle da incubo presenti nelle fiabe, un barbarico groviglio “barocco” di creature orrende in trasformazione, e in “La ville entière” (1935/36), una vegetazione primordiale piena di vita che dal basso del dipinto si protende aggrovigliandosi verso un secco altipiano fatto di sedimenti stratificati che ricorda le ziqqurat babilonesi.


Ormai famoso, tra i Trenta e i Quaranta ottiene importanti personali a New York, grazie anche al sostegno di Peggy Guggenheim che sposa nel 1941 (ma il matrimonio dura poco). Ritorna il collage in forme nuove: “Surrealismo e pittura” (1942), titolo bretoniano, è un collage “pittorico” in cui è difficile distinguere i singoli frammenti anche per la presenza di colature di colore. In fondo si tratta di una dichiarazione visiva di poetica: un grande uccello di fantasia con un piccolo che ne succhia le mammelle è un miscuglio di parti anatomiche come la testa d’uccello che sta dipingendo un quadro astratto. Ernst introduce anche una nuova tecnica, la decalcomania che consiste in una stesura sulla tela di uno strato sottile di vernice liquida per mezzo di un foglio di carta o una lastra di vetro.  Essa è presente sia ne “La vestizione della sposa” (1939) sia in “L’Europa dopo la pioggia II” (1940/42), iniziato in Francia e terminato negli USA. La prima opera citata, surreale e sconvolgente anche se stilisticamente elegante, mostra al centro la sposa (forse la pittrice Dorothea Tanning, la terza delle sue mogli), una strana mescolanza di una donna nuda alla Cranach avvolta in un mantello di sontuose piume rosse con accanto un uccello con testa di civetta, simbolo di saggezza. L’uccello a sinistra (l’autore) ha una lancia dal chiaro senso fallico; in alto a sinistra si trova un “quadro nel quadro”, memore de “I coniugi Arnolfini” di van Eyck; a destra un altro nudo femminile dalla chioma a ventaglio è rivolta al passato e viene cacciata dalla sposa (un’allusione al passaggio dalla Vergine alla Sposa, tema duchampiano; in basso un ermafrodito verdastro, con quattro seni, il ventre gonfio e i piedi palmati è una sorta di idolo della fertilità. L’insieme accenna ad un rito di iniziazione sessuale e la difficile unione tra maschio e femmina (ancora Duchamp). “L’Europa dopo la pioggia” è uno dei quadri più spettrali di Ernst. Lo scenario, in contrasto col cielo azzurro e sereno, è inquietante: un paesaggio sforacchiato e spugnoso, ora secco ora marcescente, ha pochi sopravvissuti: un uomo al centro dalla testa d’uccello (l’autore in fuga dalla guerra) è accanto ad una femminile pietrificata (simbolo della cultura “seccata” dal male), vicina a una struttura totemica. Nel desolato paesaggio c’è un tempio tra le cui colonne sta Europa e, più in basso, la carcassa di un toro (l’Europa distrutta) che nel loro insieme richiamano il mito di Europa, ricorrente, come si è già visto, nella produzione dell’artista. Una anticipazione, sul piano figurativo, di tanta filmografia apocalittica a venire.

Tornato nel vecchio continente nel 1949 lavora a grandi tele che riprendono le sperimentazioni e i temi precedenti ma si caratterizzano per una luminosità nuova. Alla Biennale veneziana del 1954 che presenta un’ampia antologica sul Surrealismo riceve il Leone d’oro. La sua posizione eccentrica rispetto agli altri surrealisti si precisa anche in questa occasione. Di essi condivide la linea tematica dell’onirico e dell’inconscio ma non il legame stretto con le tecniche tradizionali, preferendo una costante ricerca tecnico-estetica sulla pittura come linguaggio plurimo e intuitivo. Superare le convenzioni linguistiche in favore d’ogni sperimentazione, l’“hasard” tecnico che genera immagini non previste neppure dall’autore sono la peculiarità del suo Surrealismo. E se l’ignoto stimola l’atto creativo, il suo frutto (l’opera) attesta con lucida consapevolezza che nell’ignoto vive l’uomo. La serie delle “Foreste” e delle “Orde” ne sono forse la più convincente testimonianza. Eppure i suoi tardi lavori rivelano una nuova serenità e un piacere erotico nel dipingere (“Festa a Seillans”, 1964).

Nel suo lungo percorso artistico Ernst coltiva anche la scultura che è per lui un “andare in vacanza dalla pittura”. Usa di tutto, dai materiali di recupero che assembla come fossero collage tridimensionali a quelli “nobili” come il bronzo e la pietra; d’altronde era stato un anno intero (1934) nello studio svizzero di Alberto Giacometti lavorando il granito. La figurazione è semplificata, primitiva, totemica nella fissità delle figure: “Capricorno” (1948, più volte ripetuto in bronzo), scultura inizialmente destinata al giardino di casa a fare da panchina, si compone di un Re e una Regina come negli scacchi di cui s’era appassionato tanto da creare scacchiere destinate a Duchamp, notoriamente scacchista esperto.

Se “il linguaggio è stato dato all’uomo perché ne faccia un uso surrealista”; se “tutto lo sforzo tecnico del surrealismo è consistito nel moltiplicare le vie di penetrazione degli strati più profondi della mente”,  se “l’idea di surrealismo tende al recupero totale della nostra forza psichica con un mezzo che non è altro se non la vertiginosa discesa in noi stessi, l’illuminazione sistematica dei luoghi nascosti”, insomma se “il pensiero deve finalmente soccombere sotto il pensabile”[1] (Breton), allora Max Ernst l’ha dimostrato efficacemente e ha garantito una lunga vita al Surrealismo.

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[1] Citato da: André Breton, Manifesti del Surrealismo, Einaudi