A proposito di “Burri. La poesia della materia”.

23-3-fondazione-ferrero-burri-alba-manifestoFULVIA GIACOSA

Amo Burri, perché non è solo il pittore maggiore d’oggi, ma è anche la principale causa di invidia per me: è oggi il primo poeta” [1].

Così si apre l’intervento in catalogo di Bruno Corà, curatore della mostra “Burri. La poesia della materia”, appena conclusasi ad Alba presso la Fondazione Ferrero, con opere provenienti dalla Collezione Burri di Palazzo Albizzini a Città di Castello e da collezioni private che percorrono la lunga carriera dell’artista, nato a Città di Castello (PG) nel 1915 e considerato uno dei grandi del secondo Novecento. Un interessante filmato all’ingresso aiuta i visitatori ad entrare nel suo lavoro con documenti d’epoca e testimonianze di amici e critici. Poi, alle pareti di un bianco puro, luminoso e quasi abbagliante, si dispiega il percorso dell’artista con capolavori assoluti e piccole opere raramente visibili al pubblico.

L’accostamento tra arte e poesia in riferimento a Burri, che poco amava la prosa dei critici d’arte ma molto i poeti a lui contemporanei e con i quali aveva collaborato (oltre a Ungaretti, l’amico Emilio Villa, Leonardo Sinisgalli, Cesare Vivaldi, tutti appassionati d’arte), era già stato oggetto di alcune mostre come quella del 2015 a Città di Castello dal titolo “Alberto Burri e i poeti. Materia e suono della parola”.

È il ritmo compositivo, elemento ordinatore del magma materico a cui Burri è sempre stato attentissimo, la liason con il verseggiare della poesia. Se la parola e il suono sono corpo e anima della poesia, la pittura è materia fisica impetuosa dalla cromia densa, suggerisce Corà che non a caso richiama l’ut pictura poesis per cui la pittura è poesia muta, la poesia è pittura parlante.

Già in una delle primissime prove, “Texas” del 1945, realizzata durante la carcerazione ad Hereford quando Burri si volge alla pittura rifiutandosi di svolgere la professione di medico per le condizioni restrittive imposte dagli americani agli ufficiali internati nel campo, la corporeità del colore predomina sulle poche cose del paesaggio e rende la terra desertica ed arsa dal sole con concretissime pennellate, libere e dense. Dopo il ritorno in Italia (a Roma) nel 1946 il suo percorso è ormai segnato: non è certo casuale che, da qui in poi, i suoi cicli pittorici abbiano per titolo non un soggetto narrativo o simbolico ma il materiale di cui son fatti: muffe, catrami, sacchi, gobbi, ferri, legni, plastiche, cretti, cellotex, colori (rosso, nero, bianco, oro) a cui s’aggiunge la modalità dell’agire delle “Combustioni”. Una vera epifania iletica solo apparentemente casuale, in realtà governata da una ricerca di equilibrio delle tensioni, assoluto e a suo modo “classico”. La sua vicinanza alle varie esperienze informali europee (Nouveau Réalisme) e statunitensi (la cosiddetta Scuola di New York o Espressionismo astratto), più volte ribadita dalle storie dell’arte, è solo parzialmente indicativa; la personalità di Burri, il suo essere “diversamente” informel lo fa un capitolo a sé dell’arte secondo-novecentesca e contemporaneamente artista universale.  Gli influssi che esercita su molte avanguardie (dal New Dada all’Arte Povera) sono fuori dal comune e molti giovani artisti che ne visitano lo studio romano (Rauschenberg, Twombly) gli sono debitori.

I famosi “Sacchi” degli anni Cinquanta, con i loro rattoppi, cuciture, strappi, possono certo richiamare il medico che sutura le lacerazioni di corpi feriti, ma Burri ha sempre negato tale implicazione; ciò che va cercando è la conciliazione della agitazione magmatica con il rigore formale dello spazio pittorico, cosicché la fragilità dei mezzi coincide con la fragilità umana nella sua visione del mondo e dell’arte, dotata di un potere liberatorio dopo gli orrori della guerra. In sostanza un duello tra il grido informe della materia, la sua natura ctonia e la trasformazione in forma assestata e silente, scontro che si ricompone nell’arte così come la intendeva Burri. Bruciare, soffiare sulla fiamma, piegare la materia con le mani, organizzarla in relazione alla forma (poetica) cui Burri tende sono “azioni” come le combustioni di Arman ma il nizzardo non parte dalla materia grezza come Burri (il critico Réstany dice, nel 1963, che Burri lascia “la parola alla sola materia”) bensì da un objet trouvé.  Le grandi opere di Burri non sono prelievi o rappresentazioni illusionistiche, ma pur sempre “quadri”; come un regista egli “presenta” un mondo a sé, tanto fisicamente concreto quanto fortemente espressivo.

Le “Combustioni” (dal 1956) su vari materiali e in particolare sulla plastica (nera, rossa, bianca o trasparente) sono realizzate con la fiamma ossidrica che consente di governarne gli effetti: l’artista soffia sulla fiamma, crea crateri e cascami, inspessimenti sui bordi e ripiegature con effetti tragici, quasi barocchi nel senso che la tecnica è finalizzata ad ordinare il caos: Burri stesso parla di “equilibrio squilibrato”.

I “Cretti” (tipici degli anni Sessanta e Settanta) sono bianchi o neri e anche qui l’idea compositiva dell’artista incanala il naturale essiccamento del caolino mescolato ai collosi acrovinilici utilizzati su cellotex, masonite, compensato o tela. Ne risultano superfici screpolate (la crettatura), sapientemente sorvegliate nel dosaggio programmato dei componenti (creta, caolino, bianco di zinco) in modo da “controllare l’imprevisto” come disse l’artista. Proprio la nuova tecnica fu l’imput per progettare una monumentale opera site specific a Gibellina (TP), una delle città devastate dal terremoto del febbraio 1968, rivestendo i resti della distruzione compattati in colate di cemento candido che rispecchiano i blocchi edilizi originali e le principali strade della cittadina. Percorribile ancor oggi, il cretto è l’unica opera ambientale dell’autore: ad essa è dedicata la mostra massmediale che si è tenuta al Palazzo Banca d’Alba in contemporanea a quella presso la Fondazione Ferrero. Il cretto traduce il dramma in segno estetico a futura memoria, quasi un sudario che custodisce mentre cicatrizza e aiuta la rielaborazione del lutto.

Le ultime opere sono soprattutto “Cellotex”, materiale già utilizzato precedentemente come supporto e ora diventato protagonista.  Al vinavil e all’acrilico si aggiunge la sottrazione con una lama degli strati superficiali del cellotex. Prevalenti sono i campi nero e oro accordati in geometrie eleganti, fino all’uso della sezione aurea (“Cellotex oro e nero”, 1978), tanto amata da Piero della Francesca, lontano conterraneo di Burri, nato a Borgo San Sepolcro tra Marche e Umbria intorno al 1415. La foglia in oro (“Nero e oro”, 1993) è luce pura, assoluta come le dorature bizantine nei mosaici veneziani che tanto avevano già affascinato Lucio Fontana nei primi anni Sessanta. Lo spazio incommensurabile dell’oro dialoga con quello fisico e misurabile dei neri, ora lucidi e smaltati ora opachi e scabri, distesi in composizioni acquietate. L’aggressività dinamica di certi cicli precedenti si smorza nelle nuove stesure piane anche se vibranti.

Una sorta di serenità senile sembra chiudere un percorso travagliato per la forza primigenia della materia faticosamente domata; alcuni cellotex degli ultimi anni sono titolati “Annottarsi”: l’uomo Burri s’inoltra nella notte dell’esistenza, “un andare verso l’estrema soglia … in una tenebrosa contemplazione” (M. Calvesi).

Nell’OLTRE dello spazio esperibile.

 

 

 

 



[1] La frase era stata scritta dal poeta su una copia del volume di Bianco e Ungaretti “Dialogo” del 1968 regalata a Burri come ringraziamento per aver realizzato una “Combustione” appositamente per quel testo.