La Resistenza, un prisma dalle tante facce

il-ritorno-di-prico

STEFANO CASARINO

Bisogna ricordare. Di questi tempi preferiscono dimenticare, fare finta di niente: quest’ affermazione, che incontriamo nella seconda parte dell’ultimo libro di Daniele La Corte (Il ritorno di Pricò. Un’altra Resistenza Fusta editore, Saluzzo 2020), rappresenta la chiave di lettura di quest’opera intensa e documentata, vibrante di autentica passione per la Resistenza e per il suo imprescindibile significato storico ed etico.
Di questi tempi: vale per il periodo in cui opera Pricò e si svolge la vicenda narrata, il 1977 (e vedremo che si accenna anche agli Anni di Piombo); vale non meno – anzi, direi, forse ancora di più – per questi nostri anni di rigurgiti neofascisti, di suprematismo bianco e di altre perversioni ideologiche del genere, che continuano ad infettare troppe persone e contro le quali l’unico vaccino possibile è la cultura, lo studio della Storia e la lettura di libri come questo.
Strutturato con un potente tema conduttore (la ricerca del chi, del perché, del come sia avvenuta l’uccisione del padre del protagonista), questo funziona come una sorta di tronco sul quale si innestano tante altre vicende che il cacciatore di storie Pricò – ma questa definizione vale benissimo anche per l’Autore: lascio al lettore il piacere di scoprire quanto ci sia di proiezione autobiografica di Daniele La Corte in Pricò Rutelli – deve e vuole riportare alla luce.
E così passano davanti ai nostri occhi altre Resistenze ­ – si noti l’importanza del sottotitolo, che personalmente considero un pluralia tantum – e si fondono naturalmente assieme giornalismo, letteratura e storia: voglio segnalare subito la grande importanza dell’Appendice, intitolata I testimoni, che contiene le foto di molti personaggi citati, alcuni già morti, altri (pochi, invero) ancora vivi, e di molti luoghi che furono anch’essi testimoni muti di quegli orrori.
Ma dove ha “pescato” La Corte lo strano nome del protagonista? Viene rivelato nel libro: Pricò è un romanzo scritto da Cesare Giulio Viola, pubblicato nel 1924 da Arnoldo Mondadori Editore, il cui protagonista è un  bambino di sette anni, la stessa età che ha il protagonista del nostro libro quando intraprende con la madre il viaggio per emigrare in Argentina (un viaggio per rifarsi una vita grazie all’aiuto dello zio materno; molto opportuna la citazione di De Amicis: Mi emigro per magnar; oggi però l’abbiamo evidentemente rimosso!): Pricò aveva da poco compiuto sette anni e non capiva bene cosa veramente stesse accadendo.[…] Era nato il 15 marzo del 1945. Suo padre era morto a settembre dell’anno precedente. Dal libro fu tratto il film I bambini ci guardano di Vittorio De Sica e là si parla anche di Alassio, la città di La Corte.
Nel romanzo di Viola e nel film di De Sica quel bambino assiste alla disintegrazione della sua famiglia; qui questo bambino diventa adulto, lo ritroviamo a 32 anni, agguerrito giornalista che scava con le sue inchieste in un passato ancora abbastanza prossimo.
Entrambi i Pricò sono orfani di padre; entrambi sono vittime di un trauma terribile: Perché gli altri bambini hanno un papà? è la domanda che fa il nostro Pricò, che afferra subito la sua diversità rispetto agli altri e che su ciò imposta tutto il suo futuro.
Dalle sue inchieste, dalla sua furia di apprendere come si è compiuto il destino del proprio padre emergono episodi più o meno rimossi: ad esempio, la fuga di molti nazisti in Sudamerica, resa possibile e organizzata da non pochi religiosi.
Emblematica al riguardo la figura di Ramon Monteforte: Don Monteforte aveva accompagnato in Argentina centinaia di criminali nazisti. Era la rotta dei topi, la linea segnata anche dagli Stati Uniti per accaparrarsi i cervelli prima al servizio di Hitler.
Pagine dopo, un commento che suona come inappellabile condanna: Sono credente […] ma certi preti spero siano finiti all’inferno!
Tanti i luoghi citati: Alassio, certamente, ma anche Pieve di Teco, Albenga, Imperia (e l’Olio Sasso, azienda di tradizione antifascista, condotta da Mario e Angiolo Silvio Novaro, autore di quella poesia Che dice la pioggerellina di marzo, che fu croce e delizia di molti miei coetanei, quando eravamo alle Elementari e dovemmo impararla a memoria); perfino le ciminiere di Vado Ligure (ora ne è rimasta una sola), che  davano il benvenuto con le loro strisce rosse e bianche, per molti simbolo del taglio netto tra montagna e costa.
Eppoi Mondovì, Ceva, Cuneo, Vicoforte, Fossano: Liguria e Piemonte, regioni indissolubilmente legate sia dalla contiguità geografica che dalla comune memoria resistenziale.
E tanti, ovviamente pure, i personaggi che compaiono: Sandro Pertini (il Presidente Partigiano, di cui quest’anno ricorrevano i trent’anni dalla morte), Sandro Cascione, il comandante Mauri, il comandante Cion (Silvio Bonfanti, Medaglia d’Oro al Valor Militare, a cui La Corte ha dedicato nel 2016 il suo Il coraggio di Cion, Fusta Ed.), Duccio Galimberti, Maria Gavotto (la sartina dagli occhi azzurri, vivente), Ferruccio Iebole (storico e scrittore della Resistenza, vivente) e tanti altri ancora: tra tutti costoro, mi piace ricordare don Oggero, una figura di religioso che mi ha rammentato il don Raimondo Viale de Il prete giusto (1998) di Nuto Revelli:
Don Oggero era l’anticompromesso, il servitore di Dio pronto ad aiutare i più deboli combattendo le ingiustizie. Anche i potenti e non pochi esponenti del fascio l’avevano temuto. Quel prete dall’abito spesso sgualcito, quell’uomo che rifuggiva la forma e andava dritto alla sostanza era considerato scomodo anche quando solo minacciava una tirata di orecchie. “Il mio compito è sempre stato quello di diffondere il messaggio evangelico. I violenti, i delinquenti della politica non mi sono mai piaciuti.
Meno male che la Chiesa ha avuto, oltre e ben meglio di preti come don Monteforte, quelli come don Viale e don Oggero!
Si è detto prima che La Corte porta qui alla luce anche vicende poco note, giacché per lui – esattamente come per Pricò – trovare è il “suo” mestiere!
Mi ha particolarmente colpito (confesso che non ne sapevo proprio nulla) l’invasione francese di Ventimiglia e Bordighera del 1945: Dopo tutto quello che avevamo passato, ci mancavano solo i francesi. […] Molti volevano staccarsi dall’Italia. Rivendicavano il Rattachement, l’attaccamento a una presunta vecchia loro patria, alla voglia di abbandonare Roma per Parigi […] una subdola e vigliacca invasione. Non potevo accettare, insieme ad altri compagni, l’annessione dell’estremo Ponente ligure alla Francia. […]  La storia di Giuseppe Leone metteva anche in luce uno spaccato poco conosciuto dell’immediato Dopoguerra. Fu poi l’intervento americano a riportare l’ordine ristabilendo i confini territoriali.
E, in questo nostro orrendo tempo di epidemia mondiale, non manca neppure il ricordo della tremenda “Spagnola”, manifestatasi esattamente cent’anni fa.
Afferma un personaggio dell’opera: Avevo otto anni. Mio nonno e due dei miei fratelli morirono per colpa di quella maledetta influenza, per la “spagnola”. Era il 1920. In due anni la piccola azienda di famiglia cominciava a funzionare ma l’epidemia mise tutti in ginocchio. […] La grande pandemia, a livello mondiale, fino al 1921, infettò circa 500 milioni di persone su una popolazione totale di 2 miliardi e i morti salirono a 50 milioni: è giusto e doveroso ricordare questo agli attuali negazionisti, complottisti e simil genia.
Lo studio della storia ci attesta che l’umanità è stata (è e può tornare ad essere) vittima di epidemie del genere, per lo meno dai tempi di Tucidide ad oggi.
E come non è naturaliter immune da virus e batteri di ogni sorta, allo stesso modo l’umanità non è immune, ma anzi spesso rivive momenti particolarmente tragici per la sua propria stoltezza.
Si diceva prima che il tempo in cui sono ambientati il ritorno e la ricerca di Pricò sono gli anni Settanta del secolo scorso.
Lo deduciamo da particolari che suonano strani, incomprensibili ad un lettore che abbia oggi meno di trent’anni: la disperata ricerca di un posto di telefono pubblico – impensabile oggi, coi nostri cellulari sempre a portata di mano – e il sacchetto coi gettoni, le cento lire per pagarsi il caffè e, in genere, tutta la particolare atmosfera di quel tempo (trattorie, più che veri e propri ristoranti; il lavoro della redazione del giornale con le rotative che girano e tirano fino a 150.000 copie, ecc…) che l’Autore rievoca con affettuosa nostalgia.
Ma lo capiamo soprattutto, e in modo del tutto esplicito, quando Pricò viene richiamato bruscamente in redazione: Erano da mettere da parte racconti e inchieste sulla Resistenza. Quel giorno serviva una nuova resistenza, la capacità di non mollare, di essere sulla notizia senza perdere neppure una battuta. Aveva lasciato l’Argentina scossa da tumulti continui, e dopo dieci anni trovava anche in Italia in balia del terrore. La strategia della tensione si stava impadronendo delle piazze e dopo la contestazione studentesca de Sessantotto anche la politica era cambiata […] Erano gli Anni di Piombo. Gli attentati iniziavano di nuovo a sconvolgere l’Italia. Tutto era partito il 12 dicembre del 1969 a Milano, piazza Fontana.
Tra il nostro presente e la Resistenza ecco comparire anche gli Anni di Piombo, un (altro) periodo rimosso dalla nostra memoria, ben poco studiato a scuola, ben poco presente nei nostri dibattiti politici attuali, nei quali spesso si ha l’impressione che tutto inizi con la cosiddetta Seconda Repubblica, dal 1994 in poi.
Personalmente, mi auguro che leggendo il libro di La Corte venga anche voglia di interrogarsi su ciò, su quella stagione così tragica e ancora per larghi versi inspiegabile.
L’opera, però, è focalizzata sulle vicende dell’ultima parte del secondo conflitto mondiale, gli anni peggiori, dal 1943 al 1945, e sulla Resistenza: il suo incipit è anche il suo explicit, con un montaggio perfettamente circolare.
Alla fine Pricò scopre chi ha ucciso suo padre.
Mi auguro, invece, che il lettore scopra di chi noi siamo “figli”, quanto a libertà democratiche e valori civili e politici.
Nel libro un personaggio afferma di essere stato cresciuto a pane e Resistenza: da quanto tempo non è più così?
Certo, sarebbe assurdo pretendere che si ritorni a ciò, troppo grande ormai è il divario cronologico.
Ma non è affatto assurdo, invece, pretendere che si combatta questa perniciosa rimozione di tutto ciò che concerne quel periodo storico e, soprattutto, di quella straordinaria esperienza di riscatto etico e nazionale che è stata la Resistenza.
Paolo Mieli ha recentemente scritto un libro, La terapia dell’oblio. Contro gli eccessi della memoria. Vorrei sommessamente ricordare che c’è, ci deve essere, anche una terapia della memoria, a mio giudizio ben più importante e salvifica, soprattutto per quanto concerne certi momenti storici, ancora così vicini a noi e che pare si ostinino a non passare, a giudicare dal ripetersi costante di episodi di stampo neofascista.
Ritengo che abbia molta più ragione George Santayana: quelli che non sanno ricordare il passato sono condannati a ripeterlo.
Proprio per questo, il libro di Daniele La Corte è bello, utile e necessario.