“You are free!” – Erfurt, 10 Aprile 1945

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VINCENZO SIRIANNI

Mi chiamo Vincenzo Sirianni, nato a Nicastro (CZ) il 13 -3-1914. Nella foto sono il terzo a destra, nella fila in alto.
Primogenito di sei figli, sia per i tempi difficili sia per la condizione di vedovanza di mia madre, appena ne ebbi l’occasione, decisi di arruolarmi nell’esercito italiano per fare la carriera militare.
Tra le mie destinazioni ci fu Roma dove vissi qualche tempo con la mia prima moglie, sposata nel 1939. Quando lei restò incinta, decidemmo che per il parto sarebbe tornata in Calabria.
Era il 1940 e il conflitto, scoppiato a settembre del ’39, ci obbligava a tenerci pronti per qualsiasi evenienza. A giugno del ‘40, con la dichiarazione di guerra dell’Italia a Francia e Inghilterra, lo stato di allerta salì al massimo.
Mia moglie partorì ad agosto e feci appena in tempo a vedere la mia primogenita che fui richiamato per raggiungere il fronte greco-albanese con il 207° reggimento fanteria Taro.
Purtroppo, dopo 15 giorni dal parto, la mia sposa morì per una infezione. Lasciai con grande dolore la neonata alle cure dei parenti più stretti perché le assicurassero una balia per il latte e tutto ciò che fosse necessario per crescere una bimba orfana di madre e con il papà in guerra.

Il mio reggimento fu inviato inizialmente in Albania e poi in Montenegro, dove sulle montagne si combatteva aspramente, accampati per settimane nei boschi.
Durante le operazioni belliche fui ferito, ma ricevetti anche una medaglia di bronzo al valor militare per un’impresa con cui evitai l’accerchiamento del mio battaglione. Per questo motivo sono menzionato nell’Albo d’oro degli Azzurri.
Dopo l’8 settembre del ’43, per l’armistizio firmato dall’Italia con gli anglo-americani, noi soldati italiani, sui vari fronti di guerra, ci trovammo in balia dei tedeschi che ci trattarono come nemici traditori. Fu una tragedia in quanto, senza possibilità di reagire e direttive precise, fummo abbandonati ad un triste destino.
Io mi trovavo ancora in Albania con il 14° corpo di armata. Gli italiani che non si unirono all’esercito nazista, tentarono di organizzare una resistenza prendendo contatto con i partigiani locali. Ero tra quelli, ma non ci fu il tempo. Il 27 settembre fui disarmato e catturato con altri connazionali.
I tedeschi ci ricattarono: o combattere al loro fianco o la prigionia.
Io dissi no insieme a molti. Così segnammo la nostra deportazione in Germania.
Nel giro di una settimana, a tappe forzate, ci ammassarono su dei convogli. Chi tentava la fuga o la ribellione veniva fucilato sul posto.

Nei carri eravamo stipati in centinaia, senza aria, in ambienti soffocanti, privi di servizi igienici. Avevamo delle guardie con le armi puntate continuamente addosso. A chi osava chiedere dove ci portassero, veniva risposto con calci, insulti, sputi, bastonate. Non era permesso usare il bagno che non esisteva per cui, lascio immaginare, come si provvedeva ai bisogni corporali.
Il treno procedeva lentissimo verso nord. Ogni tanto vi erano delle soste in aperta campagna dove cercavamo di portare alla bocca qualsiasi cosa, pure lucertole, per placare i crampi allo stomaco.
In breve ci ritrovammo pieni di pulci. Affamati, disidratati, sporchi, puzzolenti, eravamo peggio delle bestie.
Io che ero agile mi arrampicavo facilmente per spiare fuori dalle aperture poste in alto sui vagoni. Proprio guardando da questi finestrini, in territorio jugoslavo, vidi qualcosa di agghiacciante.
Lungo i pali dell’elettrificazione vi erano degli impiccati: uno spettacolo orrendo di cadaveri penzolanti, gonfi, in decomposizione, per chilometri. Erano partigiani di Tito giustiziati dai tedeschi.

Dopo circa due giorni arrivammo in Germania. Ci radunarono in dei punti di raccolta di prigionieri di tutte le nazionalità. Restammo lì per poco tempo dopo essere stati identificati. Ci distribuirono in vari gruppi e io, insieme a circa cinquecento italiani, fui destinato ad Erfurt, una città che si trova al centro della Germania, nella regione della Turingia. Lì vi era il famoso Stalag IX-C, un campo di internamento per prigionieri di guerra. Dopo anni seppi che vi erano transitati circa 15.000 internati di diverse nazionalità.

Appena arrivati, ci assegnarono alle baracche disposte a schiere parallele. Dentro vi erano dei giacigli ricoperti di paglia, a castello, un tavolo con qualche sedia al centro, una finestra e null’altro. Ci guardavamo gli uni gli altri negli occhi, consapevoli del comune destino, ormai in balia di uomini che consideravano le nostre vite un nulla. Non osavamo parlare, annichiliti dallo sgomento per quello ci attendeva. Ma nessuno di noi sapeva esattamente cosa.
I tedeschi gridavano solo ordini perentori di disciplina e obbedienza senza dirci altro. Si fece sera. Le luci si spensero e andammo a distenderci sulle brande, completamente digiuni. Nel silenzio cominciammo a scambiarci qualche parola, pianissimo per dirci chi eravamo, che avevamo un nome. La scoperta per me fu sapere che nella baracca vi era un altro calabrese che divenne mio amico fraterno.
La mattina seguente, sveglia alle sei, ci dissero dove erano le latrine, divise in zona gabinetti e zona lavabi. Lì, per la prima volta, ci fu consentito di spogliarci e lavarci alla meno peggio con acqua gelata.
Periodicamente, date le pulci e i pidocchi, i tedeschi ci obbligavano ad una disinfestazione collettiva con saponina, che, secondo i nostri carcerieri, doveva servire a contenere anche le infezioni che si prendevano facilmente nella promiscuità, come la tubercolosi. Nel campo vi era una specie di infermeria per le cure più immediate. I casi gravi non venivano neppure trattati. Di solito, dei malati a rischio della vita, non se ne sapeva più nulla. Per questo, facevamo di tutto per non ammalarci, per stare bene e mostrare sempre di essere in salute.
Essere in grado di lavorare per loro, era la nostra salvezza.
Tutti fummo costretti al lavoro coatto, a divenire operai, braccianti, boscaioli, falegnami, muratori, agli ordini di civili supportati da guardie. A me toccò andare a fare pezzi di aereo in una fabbrica. Seppi, più tardi negli anni, che Erfurt era famosa anche per la fabbricazione di forni crematori. Ringrazio Dio che io non capitai tra i selezionati per questa orribile mansione.
In autunno e in inverno faceva un freddo che non dimentico mai, implacabile, per cui eravamo sempre pieni di tosse e catarro. Ma sopportavamo, stringendo i denti, nascondendo la febbre, malesseri per non venire scartati e finire chissà dove. Apparire forti e abili, ribadisco, era la nostra garanzia di vita.
Il rancio era costituito da gallette che sapevano di segatura. Solo a sera ci veniva data una zuppa con bucce di patate e qualche foglia di cavolo. Il cibo che mangiai io, che mangiarono gli altri miei compagni di sventura, fu sempre lo stesso fino alla liberazione. Nelle baracche ci toccava pure un pezzo di pane nero di segale di cui non facevamo perdere neanche una briciola. Per questo motivo, ancora oggi, non riesco a buttare il pane e mi fa male il cuore, quando lo vedo buttato nella spazzatura.

Per scampare alla durezza dell’internamento, vi era un unico modo: presentarsi alle autorità del campo e dichiarare la propria fedeltà a Mussolini, al fascismo e aderire alla Repubblica Sociale Italiana. Solo così si poteva tornare in Italia e sfuggire a privazioni, sofferenze, maltrattamenti.
Nessuno dei miei compagni di baracca né altri che lì conobbi, si piegarono mai a questo ricatto. Preferimmo patire la prigionia a costo della vita piuttosto che stare dalla loro parte.
Purtroppo, quella nostra forma di resistenza al nazifascismo, accresceva il disprezzo dei tedeschi che ci picchiavano per un nonnulla e ci deridevano chiamandoci maccheroni e traditori di Badoglio.

A lavoro ero bravo e avevo imparato un po’ il tedesco. Per questo motivo fui nominato caposquadra. Si stava alle macchine per 12 ore al giorno, deboli, denutriti e disperatamente attaccati alla vita.
Un giorno mentre eravamo in fabbrica, suonò l’allarme aereo. Io mi assunsi la responsabilità di fermare i macchinari per metterci al riparo.
Cessato l’allarme, ritornammo ognuno al nostro lavoro. Il tedesco che era addetto a farci da guardiano, gridando come un ossesso mi chiese come mi fossi permesso a prendere quell’iniziativa di mia spontanea volontà. Non volle sentire nessuna giustificazione e, avvicinatosi, mi colpì violentemente alla testa con il calcio del suo fucile, provocandomi uno spacco profondo e un copioso sanguinamento. Ancora oggi ne porto la cicatrice sulla fronte.

Nel campo c’erano prigionieri di varie nazionalità, anche donne. Nei momenti in cui ci era concesso di uscire per stare all’aperto, attraverso il filo spinato, conobbi una ragazza di nome Vera che era bielorussa. In Italia avevo una bambina di pochi anni affidata ai nonni. La solitudine, la lontananza dalla mia terra, dai miei affetti, le durezze che ero costretto a patire, mi fecero legare a quella giovane, che non aveva più di vent’anni. Ci confortammo reciprocamente di quell’amore fragile, nato nella prigionia, promettendoci fedeltà duratura come fanno tutti gli innamorati, sempre divisi da una rete. Così trascorsero quasi due anni di quelle condizioni disumane per cui morirono molti internati per denutrizione e per malattie che nessuno curava. Ma io e Vera resistemmo oltre ogni speranza.

Da marzo del 1945 capimmo che qualcosa stava cambiando: c’erano strani movimenti nel campo.
Si avvicendarono nuovi guardiani e giunsero altri soldati tedeschi. Fra di loro serpeggiava una viva preoccupazione. All’alba del 10 aprile, sentimmo un gran trambusto e grida indistinte. Il giorno prima avevamo visto andar via un gruppo di tedeschi e da giorni non ci portavano più a lavorare. Poco dopo udimmo il rumore di mezzi corazzati. Lo stalag fu circondato interamente da soldati americani. Erano dell’armata del generale George Patton. Non volevamo credere ai nostri occhi. Ci fecero uscire dalle baracche ripetendoci ad alta voce: “You are free!”
Dopo l’iniziale stupore, ci demmo a salti e urla di gioia. Dal campo si levarono canti popolari in tutte le lingue.

Io e Vera finalmente non avevamo più un filo spinato che ci divideva ma sarebbe stata la vita a separarci, ognuno con il suo destino.
Gli americani ci smistarono a seconda della nazionalità.
A me toccò sostare in un campo di ex prigionieri in Renania fino ad agosto.
Poi fui mandato in Italia con una tradotta militare. Il 10 dello stesso mese mi presentai alle autorità del Distretto militare di Catanzaro, essendo sottufficiale di carriera.

Mia madre, i miei fratelli tra cui una sorella, i miei parenti più stretti, mi avevano atteso con ansia per cinque lunghi anni. Finalmente, potei abbracciare la mia bambina che era ormai cresciuta.
Nel 1946 mi risposai e mi feci una nuova famiglia. Di Vera non seppi mai più nulla.

Testimonianza raccolta dalla figlia Enza.