Giocavamo con l’aquilone

vicoforte-nella-neve-fabio-saglio

MARIA GRAZIA ORLANDINI

Vico lassù, in alto, sulla collina, domina con il verde dei suoi abeti un piccolo mondo di monti e di valli.
Lo guardo, salendo lungo l’antica via di S. Rocco, con lo stesso affetto che si riserva alla nonna che ti ha coccolato e viziato nell’infanzia, e sorrido. Ogni angolo, ogni prato o vigna, ogni sentiero mi è noto e affonda nella mia storia.
Mentre il respiro si fa più frequente ad ogni passo per la salita, rivivo le mille immagini di vita di ieri che per me sono un lungo passato remoto e per il paese meno di un soffio, alla luce del suo tempo di più di un migliaio d’anni.
Il Borgo. Il suo profilo in alto è rimasto quasi lo stesso dei miei ricordi; il suo contorno mi rimanda l’immagine di una giovane donna bruna, ridente, che invita ad un abbraccio; a una mamma, con i capelli verde scuro delle sue conifere, il colore rosato del Borgo che si apre al sorriso, le braccia larghe e generose del suo arco di case degradanti a destra e sinistra, che mi ha cullato nei sogni di bambina.
La mia infanzia è tutta lì, stretta fra quelle case addossate le une alle altre, lungo l’unica strada che, come un nastro posato sul poggio, delimita il profilo del paese. Un arco di case che conserva in seno il suo gioiello: il Santuario.
Nel mezzo il Dunis, il catino naturale e verdeggiante oggi solcato da vie trafficate ed edifici che mal si conciliano con l’uniformità storica.
Allora, una vita fa, questo declivio di prati era la miglior palestra di lancio dei miei aquiloni coloratissimi, con lunghe code di anelli di carta colorata che, con papà e pazienza, confezionavo.
In quella discesa, quando il bianco delle margheritine già lasciava il campo al giallo dei ranuncoli e al blu della salvia selvatica, mi lanciavo in una corsa pazza per dare l’abbrivio al gioco.
Allora l’aquilone saliva nel vento, ridendo al sole e alla primavera con i suoi sgargianti colori, ondeggiando, ballonzolando, riprendendo quota, allontanandosi sempre di più mentre il filo, avvolto intorno ad un cartoncino di recupero, si srotolava velocemente.
Che emozione sentirlo tirare con forza, quasi a strappare quell’anello di nastro infilato al polso, vivo e birichino nel suo voler toccar le nuvole che si sbioccavano, bianche e vaporose, nel cielo azzurro.

Vivevamo allora in modo semplice, in un paese senza soluzione di continuità fra le case, un nastro di abitazioni che si abbracciavano lungo un’unica antica via, un’umanità che, forse più che in altri luoghi, viveva una profonda competizione fra i borghi che nessuno da fuori avrebbe facilmente identificato. Bastava un arco, uno scantonare che subito la solidarietà si tramutava in disprezzo, il sostegno reciproco in pettegolezzo, l’amicizia in divisione.
Solo l’attacco alla dignità comune vedeva la comunità coesa.
Un esempio era la definizione di Santuario di Mondovì presso Vicoforte, che spesso era stampata su dépliant e cartoline.
- Se era di Mondovì, si dicevano l’un l’altro, perché non se lo sono fatti là.  L’hanno costruito qui, perché vicese era Sargiano, il cacciatore che sparò alla Madonna, vicese era la figlia del fornaciaro cui la Madonna apparve, vicese era la cappellina costruita e restaurata dal Trombetta. Il Santuario è di Vico. -
Ma la concordia durava poco.
Due volte l’anno, all’Ascensione e alla festa del Santuario, arrivava la processione da Mondovì con il vescovo e tutte le autorità civili: era un avvenimento per il numero di partecipanti e la solennità del rito.
Giunta a Fiamenga, ai fedeli si univano, per diritto sancito addirittura con antica sentenza, i fedeli dell’antica parrocchia di S. Pietro in Fiamenga, con in testa il gonfalone comunale, il sindaco e le autorità.
Che dovessero proprio essere quelli di Fiamenga a sfilare in testa alla processione di Mondovì era un affronto mal sopportato dalla parrocchia di S. Donato, sede del capoluogo e del palazzo del comune.
Per questo si partiva in processione prestissimo per essere in chiesa alle sei, al momento dell’apertura delle porte, a rivendicare questo sacrosanto diritto di primogenitura.
Si partiva dal Borgo che era quasi buio, con due o tre figlie di Maria con il lungo velo bianco, poche umiliate nelle loro divise gialle, quattro gatti di fedeli, alcune suore, il parroco in stola e rocchetto e la croce in testa alla fila.
Man mano che la processione sfilava lungo il paese, la folla aumentava. Si entrava nella palazzata cantando a squarciagola le lodi alla Madonna per ribadire il nostro diritto di primogenitura.
Poi il rito del bicerin: una cioccolata fumante con una pasta di meliga della pasticceria più rinomata dei dintorni.
Si ritornava dalla strada di S. Rocco con il sole caldo e le gambe pesanti per la lunga camminata, senza aspettare l’ingresso solenne della processione di Mondovì.

Allora i lunghi e freddi inverni facevano paura.
Ricordo tanta neve sulla grande terrazza affacciata sulla valle che appariva avvolta da una candida coperta, dolcemente incurvata al centro proprio come il mio caldo copriletto imbottito, steso ad abbracciare il materasso di piume di gallina spennate chissà quando…
Era la vigilia della festa, e quello sarebbe stato un bianco Natale come raffigurato nelle tante cartoline d’auguri che tutti si inviavano.
I fiocchi continuavano a cadere, volteggiando nell’aria grigia, come uno sciame di farfalle bianche che scendesse sui fiori di montagna.
I bruni fili del bucato, ricoperti di soffice panna, nel chiarore uniforme del cielo disegnavano una composizione astratta in bianco e nero.
Nella cucina il profumo buono di brodo si spandeva e riempiva ogni angolo di casa.
Il borbottare della pentola e il ritmico, secco, rumore del tagliapasta sul nastro di sfoglia si univano al cantilenare di mia madre che intonava dolci nenie seguendo un suo pensiero di ricordi infantili.
Avevo socchiuso appena l’uscio e un profumo di gelo e di neve era entrato con i piccoli fiocchi che danzano in un vortice di vento. Rimanevo lì, incantata, con il naso schiacciato contro il vetro della finestra, incurante dei richiami di aiuto di mamma che, china sulla sfoglia tirata a dovere, cominciava a riempire i quadratini di pasta con il ripieno dei tortellini.
Tutta la notte, nel silenzio ovattato della strada deserta, era passato l’uomo del ‘lsun[1] col placido bove coperto da una gualdrappa di lana con fiocchi e frange, utili a cacciare improbabili mosche nella notte di tormenta.
Lo risentivo nuovamente, avvolto nel mantello nero tirato fin quasi sugli occhi, andare sulla via dietro al suo animale a passo cadenzato per aprire  un varco, poco più che una calà[2], per chi nelle ripide vie selciate del paese, doveva transitare a piedi: una trincea che presto scompariva nel biancore uniforme.
Sul canterano della camera, mio padre aveva fatto il presepio.

Si viveva in modo semplice, con gli stessi ritmi, da secoli.
A casa l’unica fonte di riscaldamento era la stufa, perennemente accesa in cucina, con una vaschetta a lato per l’acqua calda e il tubo che saliva al soffitto; lì, nelle giornate invernali, si stendeva la biancheria minuta sui bracci di ferro, che per il bucato vero e proprio si aspettava la bella stagione.
La sera il letto ci accoglieva al caldo tiepido del frà, un cestello di cotto ripieno di brace, nella stanza gelida.
Niente bagno, neppure un gabinetto, solo una tampa che dal ballatoio scaricava in un buco in cortile. Di notte si usava un pitale, conservato perennemente nel comodino e svuotato ogni mattina.
Lavarsi? In inverno viso, collo e mani nel catino, con acqua tiepida scaldata sul fuoco. In estate un bagno nel semicupi[3] lasciato al sole in cortile finché l’acqua diventava tiepida.
Se noi avevamo l’acqua corrente, anche se solo in cucina, non così le zie o la nonna. Per questo d’inverno si faceva il bucato solo del vestiario minuto rimandando quello grosso, come la biancheria da letto accatastata sporca in fagotti in un angolo del granaio, alle pulizie pasquali.
Appena il tempo volgeva al bello, si preparavano dei grandi mastelli in cortile nei quali s’impilava, ben piegata, la biancheria da lavare. Sopra si stendeva un telo sul quale si versava cenere, liscivia e acqua caldissima, bollita sul fuoco. Più tardi si strofinava la biancheria su di un asse di legno con grandi pezzi di sapone preparati in casa.
Si lasciava scorrere l’acqua per terra o la si raccoglieva per lavare roba meno sporca. Si sciacquava, poi, il tutto con acqua pulita attinta al pozzo, aggiunta d’azur, pezzi di colore blu che davano alla biancheria un aspetto di maggior candore. Erano, infine, piantati in cortile dei pali che terminavano a V e reggevano delle grosse corde su cui si sciorinava il bucato al sole.
Quando tutto era asciutto e piegato, sulla stufa a legna si scaldavano tre o quattro ferri di ghisa; con questi si stiravano le grandi pile di biancheria, prima di sistemarle negli armadi con mazzetti di lavanda e saponette che conferivano  un profumo di pulito che durava a lungo.

La primavera era la fine del lungo gelo. Si aspettava Pasqua con trepidazione: segnava il ritorno all’aria aperta. Prima, però, si celebrava la Settimana Santa, lugubre e di penitenza, con i suoi drappi viola e le lunghe veglie di preghiere in latino.
Dal giovedì alla sera del sabato non si potevano suonare le campane; così a mezzogiorno, ma già almeno mezz’ora prima e fino ad almeno a due ore dopo, i ragazzi giravano il paese con il rabadan, un arnese di legno con un batacchio con cui, con un gran fracasso, si annunciava l’ora dell’Angelus.
Era una cosa divertente, per niente penitenziale, a cui noi bambine non potevamo partecipare perché per la Chiesa, e ancor più per la società di allora, il mondo femminile contava meno di un due di picche.
Il venerdì santo era il giorno dei sepolcri e tutti facevano il giro delle parrocchiali del paese per lucrare indulgenze: un po’ come oggi quando si raccolgono bollini al supermercato per un regalo, ma allora il dono si ritirava nell’Aldilà, con sconto di pena prima del Paradiso.
Il venerdì e la vigilia di Pasqua, come tutte le vigilie delle grandi feste, portava con sé il dovere di digiunare e di astenersi dalle carni.
Avevamo molto paura di commettere peccati contravvenendo alle regole della religione, concetto che mi assillava fin dalla prima infanzia quando, a 5 anni e prima di andare a scuola, fui ammessa alla 1° comunione con a memoria tutto il catechismo.
Alla prima confessione fu mio padre che mi preparò per bene.
Per ciascun comandamento trovò qualcosa di cui dovevo chiedere perdono: di aver chiacchierato con le amiche in chiesa, disubbidito ai genitori, fatto i dispetti a mia sorella, raccontato bugie…
Ricapitolando, però, quello che avrei dovuto dire, mi parve che mio papà avesse dimenticato un comandamento: il sesto.
Se ne avevo  non rispettati nove, sicuramene anche il decimo non era esente da trasgressione.
Confessai di aver formicato; d’altronde, ragionava la mia logica infantile, chissà quante formiche ho calpestato anche volontariamente.
Con mio stupore il priù, il vecchio parroco che tanti vicesi aveva battezzato e accompagnato al cimitero, scoppiò in una risata improvvisa e mi invitò a non confessarlo più.

In un mondo piccolo, dove tutti si conoscevano, ogni occasione offerta dalle vicissitudini della vita era al centro dell’attenzione; anche la morte.
Dal momento del trapasso, il defunto diventava, nelle parole di parenti e amici, un essere quasi mitico, di cui si poteva parlarne solo bene e, se qualche critica era doverosa (e sempre con piacere queste cose passavano di bocca in bocca) si abbassava la voce e si premetteva: cun licensa, parlan-d-ne da vìu[4] come se questa frase evitasse automaticamente l’offesa alla memoria di colui che ora avrebbe assunto il prenome di ‘l povre….[5]
A me piccina i funerali piacevano: tanta gente, e, se il morto abitava lontano dalla chiesa, un’occasione per una bella passeggiata.
L’accompagnamento di prima classe era annunciato con un rintocco delle campane che i maligni identificavano come: I n’han… i n’han… (ne hanno… sono ricchi). Se, invece, il defunto era povero (funerale di terza classe) suonava una sola campana sulla torre con un rintocco del tipo:  I n’ han nen….i n’han nen….(non ne hanno…non ne hanno”).
Rispondeva sempre la campana della Confraternita dei Battuti Bianchi che, con un rintocco particolare, informava se il morto era uomo o donna.
Le due cose più importanti agli occhi della gente erano così comunicate al paese: i soldi e il genere, tenendo conto che indigenti e donne erano considerati esseri di serie B.
Secondo la classe prevista per il funerale, usciva poi dal deposito polveroso la vettura tirata da uno, due o quattro cavalli.
Ovviamente uno dei problemi di chi seguiva il feretro era evitare le deiezioni degli animali. Ricordo preti, parenti e corteo, tutti intenti a non pestare i rifiuti fumanti che sbucavano, all’improvviso, dal passo di chi precedeva.
La carrozza di 1° classe aveva il baldacchino di velluto, i fiocchi, le rifiniture di metallo lucente, tre preti tutti vestiti di nero e argento, scortata da quattro persone che reggevano i cordoni (che a me ricordavano i tiranti delle tende di casa mia) e in chiesa c’era anche l’accompagnamento di organo e coro.
Il funerale dei poveri era seguito da una carrozza disadorna, un solo cavallo e un solo prete; monsù Roch, il sacrestano, intonava da solo la messa da requiem cantando tutte le parti, maschili e femminili.
La sua voce proveniva, secondo i momenti, da dove lui sbrigava le sue incombenze come raccogliere le offerte, accendere candele e luci, prendere il turibolo in sacrestia.
Un’atmosfera surreale.

Ho frequentato una pluriclasse. La mia maestra dalla terza alla quinta era già anziana. Piccolina, portava le trecce intorno alla testa e mi pareva avesse la dentiera da come spesso schiumava parlando. Ultima arrivata, i colleghi l’avevano confinata nella peggior aula: con le finestre a nord, poca luce, due colonne centrali, una grossa stufa di cotto con un pessimo tiraggio,  poca vista della lavagna da ogni parte. In fondo all’aula troneggiava il banco dell’asino dove un povero compagno sedeva perennemente svogliato e stufo.
La maestra teneva la disciplina in modo piuttosto rude. Con le colonne poste proprio al centro dell’aula, l’uso della bacchetta che usava in Sardegna, le era impedito. Riteneva più proficuo utilizzare patate, offerte dalle famiglie stesse, quasi sempre scansate da uno scatto fanciullesco.
Una volta nel cesto c’erano anche pomodori, probabilmente inviati per fraintendimento.
Quel giorno la classe era più agitata del solito e le patate terminate.
La maestra afferrò un pomodoro, fin troppo maturo, e lo lanciò all’indirizzo del banco dell’asino.
Ricordo tanto sugo rosso che colava dal capo, da poco rasato.

Ripenso a tutto questo mentre arranco sull’ultima salita. Ad un mondo che sembra uguale guardandolo di qui, ma non c’è più.
Il sole sta tramontando alle mie spalle dietro la corona delle Alpi e un riverbero rosato, caldo illumina la possente mole di S. Donato che si staglia contro l’abetaia del castello.
Un acuto profumo di pruni in fiore mi accoglie, mentre l’ultimo bombo della giornata si ritira ronzando.

(Foto di Fabio Saglio)


[1] Spazzaneve

[2] Un passaggio

[3] Semicupio, Il semicupio era un recipiente simile alla vasca da bagno, corta e munita di sedile interno, che permetteva di immergersi parzialmente restando seduti.

[4] Col vostro permesso, parlandone come se fosse vivo

[5] Il povero…