Lidia Rolfi e Germaine Tillion: l’incrocio di due destini

ruga-1

YVONNE FRACASSETTI

Lidia Rolfi e Germaine Tillion, due superstiti dal campo di concentramento di Ravensbrück, due testimoni che hanno onorato il dovere di memoria lasciandoci, tra l’altro, due documenti fondamentali: Le donne di Ravensbrück, di Lidia Rolfi (1976), Ravensbrück di G. Tillion 1988 (3° ed).
Perché abbiamo voluto abbinare questi due destini? L’idea è venuta ad una giovane “spigolatrice”, Valentina Sandrone, che ci ha convinti dell’importanza di internazionalizzare la memoria, di andare oltre la commemorazione locale, per sottolineare appunto la dimensione internazionale della tragedia nazista, il delirio del razzismo senza frontiere: fare scomparire chiunque non appartenga alla razza ariana, chiunque non la pensi come il regime, chiunque sia diverso. Unire questi due destini vuole dire non ragionare più in termini di realtà  locali ma di realtà UMANA. Quando torna a casa, la realtà monregalese sta stretta  a Lidia Rolfi; quando torna a Parigi, Germaine Tillion diventa la rappresentante internazionale del male che hanno attraversato: ambedue hanno visto la sofferenza umana, senza distinzione di nazionalità, razze o religione. In Se questo è un uomo scriverà Primo Levi: L’UMANITA’ è in questione. Lidia e Germaine: due destini diversi e terribilmente simili. Diversi dal punto di vista del percorso biografico, ma assolutamente simili nella sostanza, nei contenuti della lotta, nella lezione che trasmettono per vivere il presente e il futuro.

A Ravensbrück, Lidia e Germaine non si incontrano, anche se i periodi coincidono:
- Lidia arriva nell’aprile 1944 e Germaine 6 mesi dopo nell’ottobre 1944
- Germaine è liberata il 23 aprile 45 dalla Croce Rossa svedese, Lidia dai Russi 3 giorni dopo.
Teniamo presente che a Ravensbrück sono transitate 132000 donne e che le nostre due superstiti ne hanno visto morire 30000 con  l’atroce accelerazione delle esecuzioni nell’ultimo periodo,  quando la camera a gas funzionava giorno e notte per lasciare meno tracce possibili.
C’è poi la questione della nazionalità: Lidia è molto isolata, non conosce le lingue, si chiude in se stessa. È italiana e paga lo scotto di appartenere ad un paese fascista, alleato di Hitler. Germaine non è molto informata sulla situazione dell’Italia, molte non sanno della svolta dell’8 settembre ’43. Si conosceranno dopo, nelle associazioni e  istituzioni internazionali per la battaglia della memoria. Aldo, il figlio di Lidia, ricorda Germaine Tillion a casa loro, a Mondovì.
Ma ciò che legherà Lidia al gruppo delle francesi, sarà il loro comune status di detenute politiche, di donne della resistenza (testi Lidia Rolfi nn.1-2). D’ora in poi, per Lidia, cambia tutto.
Perché ho parlato di destini diversi , dal punto di vista biografico?
Quando Lidia arriva a Ravensbrück è una maestrina di montagna diciottenne, non conosce le lingue, mai uscita dal suo Piemonte, appena uscita dalla sua educazione fascista di Piccola Italiana, per scegliere, lontana da casa dopo la sua prima nomina a Casteldelfino,  la strada della Resistenza: diventa staffetta della XV brigata Garibaldi “Saluzzo”. Viene arrestata sei mesi dopo.
Germaine Tillion, quando arriva a Ravensbrück, ha 37 anni, di mestiere fa l’etnologa e ha già alle spalle un’esperienza molto ampia. Etnologa, per lei, non è soltanto una professione, è  un modo di essere, di rapportarsi all’Altro, una filosofia di vita.
Proveniva da una delle esperienze più ricche e stimolanti del suo tempo: la scuola di etnologia di Parigi e il Musée de l’Homme. Questa scienza nascente che riunì gli intellettuali d’avanguardia del dopoguerra francese (per citarne alcuni: Claude Lévi-Strauss, Jacques Soustelle, Michel Leiris, Anatole Lewitsky, Boris Vildé), fu la culla in cui crebbe e si formò la giovane Germaine. Vi imparò il suo mestiere – studiare e capire il funzionamento di una società. Fece suo, senza ma e senza se, il principio radicale che rimase alla base del suo operare: tutte le culture e tutte le razze sono uguali: non è un sentimento, è un principio scientifico, è un postulato. All’istituto di etnologia le hanno insegnato a lavorare: raccogliere documenti, intervistare, porre le domande giuste, osservare, classificare, assemblare le informazioni, connettere i dati per capire il funzionamento della società studiata. È quello che la giovane etnologa farà, senza tregua e con puntigliosa caparbietà in ogni ambiente, e lo fa con una qualità che non appartiene a tutti gli scienziati : l’umiltà e la compassione. In un suo libro intitolato Il était une fois l’ethnographie (C’era una volta l’etnografia), G. Tillion ci spiega che, in verità, l’umiltà non è una virtù opzionale per l’etnografo, è essenziale in quanto si tratta di un’analisi fatta da un uomo su un altro uomo e  funziona soltanto a doppio senso, ascoltiamola:
 “L’ethnologie tient au niveau de l’inter-connaissance des peuples une place parallèle  à celle que joue le dialogue au niveau des individus : un aller et retour incessant de la pensée, incessamment rectifié. Dans le dialogue comme dans l’ethnologie, on est deux … Le dialogue s’engage, la navette commence son va-et-vient, et à chaque aller et retour quelque chose se modifie, non pas d’un côté, mais des deux côtés. … Car les règles d’observation qu’on applique aux voisins peuvent, avec profit, être employées pour soi-même. Mais il avait d’abord fallu penser à se regarder »
Cioè, il lavoro dell’etnologo è un lavoro  in cui chi indaga si rimette in questione e, interrogando l’altro,  interroga se stesso. Esattamente come lo psicoterapeuta che va in auto-analisi prima di entrare nella psiche dell’Altro. Germaine diceva sempre ai suoi studenti di etnografia: “L’aspetto più interessante del vostro lavoro, è ciò che scoprirete di voi stessi”. In lei, la com-passione (soffrire con) non è tanto una qualità personale, è  il  prolungamento logico della consapevolezza di appartenere ad una  umanità unica, ad una condizione umana universale.
Questo metodo di lavoro e questo amore per l’umanità, G. Tillion se li porta ovunque . Ovunque indaga, studia, guarda, calcola, scrive: lo  fece prima  in prigione, poi sul treno che la portò in Germania, al campo appena arrivata, prendendo appunti su minuscoli ritagli di carta; appena liberata, in Svezia tra le compagne superstiti, sul treno di ritorno in Francia, dopo la liberazione interrogando testimoni e consultando archivi. Riesce a costituire una documentazione storica monumentale e preziosissima,  un’incessante lavoro di tessitura per ricostruire il mostruoso disegno di sterminio nazista, per conoscere, comprendere e spiegare la peggior tragedia del XX secolo. Ma il suo primo terreno di lavoro, prima di  Ravensbrück,  è stato l’Algeria, le tribù berbere dell’Aurès, (a 14 ore da cavallo dall’ultimo villaggio segnato sulla carta) dove l’Istituto di etnologia la manda in missione dal 1937 al 1940 per studiare le strutture delle tribù Chaouia .
Nel giugno 1940, quando torna in Francia, trova Parigi occupata dalle truppe tedesche, il 17 giugno  la voce del Maréchal Pétain alla radio, che chiede l’armistizio, la sconvolge. Bisogna fare qualcosa! Si precipita al Musée de l’Homme e lì nasce il primo nucleo della resistenza francese. Corre poi dal suo vecchio professore, Marcel Mauss. Lo trova  che sta cucendo una stella gialla sulla sua giacca. Conosce molto bene la Germania. Le dice: «Sa cosa significa questo, Germaine? Significa EXTERMINATION! Cosa possiamo fare?».
Organizzano rapidamente la resistenza all’occupazione. Germaine si occupa di fare evadere i prigionieri, nasconderli (anche a casa sua), nutrirli, fornire loro documenti falsi… la famiglia Tillion cambia nome, i loro documenti vanno ai Levi, una famiglia amica di origine  ebrea.
Nel febbraio 42, il gruppo del Musée de l’homme è tradito, scoperto, 10 di loro (7 uomini e 3 donne sono arrestati, gli uomini fucilati, le donne deportate). Germaine diventa la principale responsabile della rete, con il grado di comandante. Il 13 agosto 42 è anche lei tradita, da un prete, l’abbé Alesh, stipendiato dalla Gestapo. Rimane in prigione a Parigi, poi a Fresne e, nell’ottobre 1943 viene deportata a Ravensbrück  dove è registrata, come Lidia, nella categoria NN (Nacht und Nebel) – Notte e Nebbia , cioè categoria destinata a scomparire senza lasciare tracce (come la maggior parte dei detenuti politici, i più pericolosi, perché pensano).
Intanto, cosa ha fatto in prigione? L’etnologa! Ha preso nota di tutto, chi arriva, come, provenienza, destinazione, interrogatori, chi sono i guardiani, tutto. Ha organizzato l’informazione: riceveva nella borsa della biancheria le notizie di radio Londra ricopiate su stoffa da un’amica e poi gridate dagli abbaini da una voce potente per informare tutti. Sul muro della prigione ha lasciato un disegno per il ministero della pubblica istruzione: come migliorare la formazione dei giovani per fare di loro cittadini consapevoli.
A Ravensbrück, prima tappa, come tutti, come la descrive Lidia, la quarantena. Nel suo block,  sta con le detenute cecoslovacche  che arrivano da Auschwitz e le spiegano come funziona il sistema concentrazionario e di sterminio. Non è un campo di sterminio immediato, ma un campo di lavoro fino allo sterminio. Secondo il piano di Himmler le detenute sono lì per lavorare (molte fabbriche sono state impiantate appena fuori dal campo, come la Siemens dove lavorava Lidia),  a costo minimo cioè senza  nutrimento o quasi fino ad esaurimento (durata media della vita 9 mesi) e vengono sostituite appena ritenute inutili, troppo deboli, durante le terribili selezioni, poi scompaiono,  portate a morire. Germaine si ammala subito, di difterite. In infermeria la nasconde Hilda, un’infermiera cecoslovacca, comunista. Appena fuori, Germaine riprende a fare l’etnologa. Ha preso nota di tutto quanto le hanno spiegato le compagne. Si fa dare, per quanto possibile, dalle prigioniere addette agli uffici, tutte le informazioni disponibili: numero delle persone, arrivi, produzione, costi, ricavi; incrocia i dati e 4 mesi dopo ha ricostruito lo schema del funzionamento del campo. È in grado di spiegare alle sue compagne come e perché muoiono, come e quanto  lo sfruttamento infame delle loro povere vite serve alla Germania di Hitler. Tutte hanno capito l’importanza della sua presenza:  organizzano una conferenza clandestina, in cui Germaine spiega queste cose, perché sapere vuol dire difendersi e, a Ravensbrück, vuol dire tentare di sopravvivere.
“Démonter mentalement, comprendre une mécanique, même qui vous écrase, envisager lucidement, et dans tous ses détails, une situation, même désespérée, c’est une puissante source de sang froid, de sérénité et de force d’âme. … ce que je n’oublierai jamais, ce fut la joie des camarades qui m’écoutèrent ce jour-là … comprendre ce qui vous écrase, c’est en quelque sorte le dominer »
Il sapere è uno scudo, comprendere aiuta a resistere. La resistenza è prima di tutto una resistenza per la vita e per la dignità. Una gara di solidarietà. Una lotta contro l’umiliazione, una lotta contro la disumanizzazione. In questo, il gruppo delle francesi è esemplare. Nessuno meglio di Lidia ce lo ha descritto (testi Lidia Rolfi n.3). Sapere vuol dire sopravvivere.
Salvare la dignità di ogni persona umana è stata l’azione di Germaine Tillion al campo di Ravensbrück , con ogni mezzo: cantando, recitando, raccontando storie. Questo è stato il suo lavoro. Germaine non ha mai lavorato, le compagne l’hanno sempre nascosta consapevoli del suo ruolo. Quando è stata scoperta, l’hanno mandata a scaricare le merci, lì le compagne l’hanno nascosta in uno scatolone dove ha scritto un’operetta, Verfugbar all’ inferno (sul modello di Orfeo agli inferi di Offenbach), una parodia dei tedeschi  e delle loro miserie, che cantavano ridendo quando tornavano al block. Ma intanto Germaine continuava il suo lavoro di etnologa, preparava il materiale per la memoria, per la testimonianza. Continua a prendere appunti su tutto, a nascondere i suoi minuscoli bigliettini nei posti più impensati.  Riesce a sottrarre, con la complicità di detenute che lavorano negli uffici, documenti importanti, elenchi degli arrivi, dei morti, ordini di esecuzioni, ecc . Con uno di questi elenchi riuscirà , al processo di Amburgo, ad incastrare  e far condannare Suhren , il comandante di Ravensbrück… Salva il salvabile prima che i tedeschi , sentendo la fine prossima,  diano alle fiamme tutti gli archivi per  lasciare meno tracce possibili. Addirittura, riesce a salvare il  rullino fotografico delle giovani polacche, i cosiddetti “lapins”, le cavie  sottoposte a  esperimenti scientifici atroci. Sono riuscite a rubare una macchina fotografica nei laboratori, a fotografare le ferite aperte sulle loro gambe e dove sono stati inseriti germi di tetano, stafilococchi… Questo prezioso  rullino viene affidato a Germaine che lo porterà con se, nascosto in una scatola di latte in polvere, durante l’evacuazione.
Arriva il giorno della liberazione, il 23 aprile 1945. Himmler accetta di trattare con la Croce Rossa svedese, sperando in un‘uscita diversa da quella di Hitler rinchiuso nel suo bunker. Il conte Bernadotte, cugino del re di Svezia accetta a condizione di portare fuori 300 francesi tra cui Germaine Tillion. Germaine organizza l’uscita distribuendo a ciascuna i documenti che serviranno per fare sapere al mondo cosa è successo a Ravensbrück, e tiene con sé il famoso rullino dei lapins, delle cavie. Sul treno che le porta in Svezia e al centro di Goteborg, dove le 300 donne liberate  vengono accolte e rimangono 3 mesi in convalescenza, Germaine continua a fare il suo lavoro di etnologa:   interroga metodicamente ognuna e riesce a ricostruire l’elenco completo dei treni partiti dalla Francia, con il nome di tutte le donne.
J’ai donc interrogé chacune d’elle et je l’ai fait méthodiquement, c’est-à-dire que j’ai demandé à toutes leur nom bien sûr, leur numéro de camp, à quelle date elles étaient arrivées au camp, si elles avaient été envoyées en commando, à quelle date, par quel train e t avec qui, si elles avaient vu mourir quelqu’un, quel était le nom des mortes, comment elles étaient mortes … Quand je suis rentrée en France en juillet 1945, j’avais donc sur moi la liste complète des trains partis de France »
Doveva salvare la memoria di tante donne assassinate, fra cui sua madre arrestata e arrivata anche lei a Ravensbrück dove  è stata gasata  20 giorni prima della liberazione perché ormai troppo debole per lavorare.
Lidia sarà liberata 3 giorni dopo, il 26 aprile, dai Russi, (non c’era Croce Rossa per le italiane), e il ritorno avvenne in condizioni  molto più dure, con un percorso  che, talvolta, riproduceva le miserie del campo.
Persino il rientro nei rispettivi ambienti di origine, è stato molto diverso per le nostre due superstiti.
A Parigi Germaine, che già porta con se una notevole mole di documentazione, si butta nella ricerca, a caccia di altre testimonianze per completare la ricostruzione  della tragedia. Già nel 1946 esce la prima edizione di  Ravensbrück.  Ne seguiranno altre due, nel 1973 e nel 1988, ogni volta ampliate. Il primo Ravensbrück è più vicino ad un’analisi economica, per spiegare la funzione di sfruttamento e di sterminio razionale applicata nel campo. Il secondo allarga lo sguardo alle altre situazioni di sfruttamento e oppressione nel mondo, i gulag, l’Algeria dove Germaine tornerà. L’ultimo è il più critico e personale, nutrito di tutte le riflessioni che il tempo , la distanza e uno sguardo comparatista sul mondo hanno portato.
Germaine è immediatamente chiamata a fornire informazioni a livello di governo, lavora alla costruzione di un archivio internazionale sulle deportazioni per il CNR francese,  incontra le più alte cariche dello Stato, ritrova chi rimane del gruppo di intellettuali impegnati al Musée de l’Homme, si reca negli USA dove molti archivi erano stati portati via dagli americani, è chiamata a rappresentare le varie associazioni di detenute, a testimoniare ai processi, ed è lì che incontra Lidia, probabilmente al CIRC (Commission internationale contre les regimes concentrationnaires).
Insomma 10 anni interamente dedicati alla ricerca della documentazione, al dovere di memoria e all’allargamento della sua battaglia per la dignità della persona umana.

Per Lidia Rolfi , il rientro è molto più difficile. Lidia torna a Mondovì e deve affrontare la diffidenza della sua gente, di una mentalità ristretta, del dubbio, delle domande malevoli: se non ti fossi immischiata non sarebbe successo, come mai tu sei tornata e altre no? Primo Levi diceva di lei: “La mia amica Lidia ha due colpe: essere donna e essersi occupata di politica”. C’è voluto il lavoro di ricerca di Michele Calandri, il direttore dell’Istituto storico della resistenza, che ha trovato la documentazione attestante l’arresto di Lidia a Sampeyre come partigiana, per guadagnare maggiore credibilità. E così, i primi anni,  Lidia ha sofferto molto, si è chiusa in se stessa. Solo nel 1958, con la prima mostra sulla deportazione a Torino,  si lega d’amicizia con P. Levi,  decide di non tacere più e di dare il suo contributo al dovere di memoria. Con il 1968, la contestazione giovanile e l’apertura delle scuole verso l’esterno, le assemblee, ecc, l’incontro con i giovani diventa una palestra di comunicazione e di scambio; poi viene la partecipazione alle associazioni locali, alle associazioni internazionali, il giornalismo locale (Sentinella delle Alpi, Dialogo di Fossano, Il Quartiere – anni 70 con C. Romita- ), la passione civile e l’impegno politico non si fermano più.
Divenne la maestra socialista, ma mai inquadrata negli schemi del partito, con la casa sempre aperta dove si dibatteva di tutto, una finestra aperta sul mondo per la difesa della libertà ovunque veniva oppressa. Finalmente nel 1976, insieme a Anna Bruzzone, pubblica il suo Le donne di Ravensbrück. Il percorso della memoria è quindi stato molto più lungo per Lidia ma non meno significativo e i loro due destini hanno continuato ad incrociarsi, sul piano dell’azione, sul piano di una forza morale straordinaria, sul piano dei valori e delle battaglie per vivere il presente e preparare il futuro.

Mentre Lidia si dedica all’educazione delle giovani generazioni e alla diffusione dei valori democratici,  Germaine Tillion, dopo 10 anni di ricerche e testimonianze, nel 1955, viene chiamata dal ministro dell’interno francese (François Mitterand) che le affida un’altra missione: tornare in Algeria dove da un anno è iniziata la guerra di liberazione dal colonialismo francese e indagare sulle ricadute delle operazioni militari sulla  popolazione civile.
Germaine parte, indaga, visita le prigioni, i campi, le periferie, le zone rurali che conosceva già. È sconvolta, perché scopre che la società algerina è a pezzi, in fase di marginalizzazione e disumanizzazione. Non voglio ovviamente dilungarmi su questo – sarebbe un’altra conferenza – ma ve lo racconto brevemente perché siamo esattamente nel prolungamento della lezione di Ravensbrück: mai più tacere davanti alla disumanizzazione di un popolo.
In Algeria Germaine trova l’84% di analfabeti, oltre 100 bidonville attorno ad Algeri, le ingiustizie inerenti ad una società coloniale, l’uso della tortura, una popolazione che precipita nella Clochardisation. E lì, la sua lucidità storica si fa terribilmente acuta:
La traite des esclaves a été le plus grand crime du XVIII siècle, le colonialisme celui du XIX siècle. Mais le crime de notre temps sera la clochardisation des trois quarts de l’espèce humaine, qui est actuellement en cours sur toute la surface de la terre ».
Sì, terribile lucidità, perché 50 anni dopo queste parole, il problema è scoppiato e non lo sappiamo gestire.
Il governo francese non tollera a lungo le conclusioni di Germaine Tillion, la sua denuncia di ingiustizie e disumanizzazione disturba, nel 1957 è richiamata in patria. Che risposta ha dato ai problemi algerini nei 3 anni di missione? Come aiutare questi diseredati? Dando loro un’armatura per difendersi dalla marginalizzazione, dall’ignoranza che li isola, una formazione per accedere ad un lavoro che ridia loro la dignità. La cultura rimane la migliore armatura contro lo sfruttamento perché rende consapevoli. Crea i Centri sociali , una formidabile rete di solidarietà e formazione in cui istruttori francesi e algerini  alfabetizzano i più deboli, accolgono gli emarginati, li preparano ad integrarsi con dignità in una società moderna, le donne soprattutto a controllare le nascite, ecc …
Germaine aveva previsto la creazione di 8000 centri, ne avvierà 1200 circa e poi l’ostilità soprattutto delle forze coloniali francesi la costringerà ad abbandonare.
Le restano da vivere 50 anni , visto che muore a 101 anni, nel 2008. Questi 50 anni li dedicherà ovunque, a livello mondiale, alla difesa della dignità umana, con questa regola: “riconoscere in ogni uomo – o restituirgli – la sua dignità di uomo”.
Quali sono stati i principi delle sue battaglie? Elenchiamone almeno 3:
1) Il vero e il giusto, valori primordiali;
2 la vita, valore supremo;
3) i diritti della persona umana.
Qualche esempio. Nel 1950 ad un processo, una blockova tedesca è accusata di aver decapitato una detenuta. Non è vero, Germaine e Geneviève De Gaulle (nipote di De Gaulle, anche lei a Ravensbrück) lo sanno, vanno a  testimoniare a suo favore. È stato duro, ma con la verità non si transige. Nel 1951 fa parte di una giuria che indaga sui crimini di Stalin. A Ravensbrück la sua amica Buber-Neuman, comunista tedesca, deportata da Stalin poi da Hitler,  l’aveva informata dello sterminio dei goulag, Germaine non esita, va a testimoniare. Hilda, l’amica cecoslovacca diventata deputata comunista a Praga, è scandalizzata. Ma qualche anno dopo , quando i Russi entrano a Praga, si suicida. Nel 2000, mette ancora il governo francese in imbarazzo: firma l’appello per il riconoscimento e la condanna della tortura da parte dell’esercito francese durante la guerra d’Algeria: è un dovere di memoria. Il suo lavoro di etnologa e l’esperienza di Ravensbrück le hanno fatto prendere le distanze dal suo patriottismo francese, dal suo sciovinismo naif, come diceva lei:  “Non posso non pensare che le Patrie, i partiti, le cause sacre non sono eterni. Ciò che è eterno (o quasi) è la povera carne sofferente dell’umanità.”

Esiste la giustizia, ma non esiste la vendetta. Germaine non è di quelli che vogliono far scontare i crimini, ma piuttosto riscattarli. A Ravensbrück, è stata salvata prima da una cecoslovacca, poi da una detenuta resistente tedesca. Allora, non esistono razze buone o razze feroci:
“Qu’il existe des ‘races’ féroces ou des ‘races’ perverses m’a toujours paru absurde, même en 1945 – quand je dis ‘racÈ j’entends des cultures voisines – mais il est vrai que certaines sociétés admettent certaines férocités et, entre 1939 et 1945, j’ai cédé comme beaucoup à la tentation de formuler des différences, des mises à part : « ils » ont fait ceci, « nous » ne le ferions pas … Aujourd’hui je n’en pense plus un mot, et je suis convaincue au contraire qu’il n’existe pas un peuple qui soit  à l’abri d’un désastre moral collectif »
“Nessun popolo è al riparo da un disastro morale collettivo”: Germaine prende pure le distanze dal grande complesso di superiorità della cultura europea depositaria dei valori universali, ma protagonista della peggior tragedia del XX sec. Esiste soltanto la vita da salvare, sempre e ovunque, qualsiasi vita. Negli anni  58-60, quando la violenza impazzisce in Algeria e  si spegne la speranza di una tregua, in piena battaglia di Algeri, lei incontra Yacef Saadi , il capo del FLN e insieme riescono a salvare decine di vite, lui bloccando gli attentati contro i civili, lei frenando le esecuzioni e  fermando la ghigliottina. Quando non ci riusciva lei, chiamava il suo amico Albert Camus, appena diventato premio Nobel, per arrestare lo scempio: che fossero vite algerine o francesi non importava. Riuscì ad ottenere da De Gaulle, quando assunse la presidenza della repubblica, la grazia per 180 condannati a morte (fra cui Yacef Saadi).
Nulla viene prima dell’umano per Germaine Tillion. Il suo lavoro di etnologa e la sua esperienza di detenuta a Ravensbrück le hanno inculcato, oltre alla lucidità, l’amore per l’umanità. La temevano nelle alte sfere, nessuno fermava queste donnina di appena 1,50 che faceva arretrare i peggiori arroganti. Ma non era molto conosciuta dal grande pubblico né molto presente sui media, come mai? «Je n’avais pas beaucoup d’ambition personnelle. Mais j’ai de l’ambition pour l’humanité. Je voudrais qu’elle survive, qu’elle ne s’extermine pas elle-même. Et je crois aussi qu’il y a de bons côtés chez les êtres humains et que ces bons côtés peuvent devenir dominants … par l’information et l’instruction de tous, et cela commence par les femmes, car elles sont la base de la société . C’est pourquoi les sociétés qui écrasent les femmes, qui bloquent leur avenir, se condamnent elles-mêmes à la clochardisation»

Dal profondo della sua provincia, Lidia Rolfi è giunta alle stesse conclusioni.
Anche per lei, l’istruzione, la formazione delle giovani generazioni sono il terreno d’elezione per imparare dalla storia a vivere il presente e il futuro. Sentiamo cosa rispondeva, nel 1993, intervistata da Piergiorgia Oderda (testi Lidia Rolfi n.4)
Penso che possiamo concludere su queste parole. Parole che legano il passato e il futuro;  parole che, 25 anni dopo, ci turbano, perché pongono interrogativi ai quali non abbiamo ancora risposto, nonostante Ravensbrück.

(testo della conferenza tenuta il 25 gennaio 2019 a Fossano, per la Giornata della Memoria)

(cliccare sul tag LIDIA ROLFI per leggere gli altri articoli che Margutte le ha dedicato. L’immagine di copertina è tratta dell’archivio di Margutte.)