Letteratura e musica in Thomas Mann

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GABRIELLA MONGARDI.

Thomas Mann è lo scrittore più legato alla musica che ci sia al mondo: senza la musica, senza il suo complesso e profondissimo rapporto con la musica, Mann non sarebbe lo scrittore che è, o meglio: non esisterebbe proprio, come scrittore – questo sostiene il prof. Hans-Joachim Hinrichsen, dell’Università di Zurigo, commentando una conversazione di Mann alla radio bavarese del 1954.

In effetti il grande scrittore tedesco, nato a Lubecca nel 1875, premio Nobel per la Letteratura nel 1929, che da giovane suonava il violino con un certo talento e improvvisava al piano, di musica parla in tantissime opere, evocandone la forza attrattiva (malsana? morbosa?): a partire dal suo primo romanzo, I Buddenbrook. Decadenza di una famiglia (1901) e dai tanti racconti quali Il pagliaccio (1898), Tristano (1903), Sangue  Welsungo (1905-1922), per arrivare ai due romanzi filosofici, La montagna magica (1924) e Doctor Faustus (1947), in cui discute della sua essenza. Come ha scritto sul Supplemento domenicale del “Sole24Ore” (15 novembre 2015, p.45) il critico musicale Quirino Principe, «l’autore ama la musica disperatamente, in ogni suo scritto mostra di sprofondare in essa, di esserne intriso, eppure l’accusa, la denuncia, mette in guardia contro la musica (e in tal modo la rende mille volte più seducente)».

Ma Mann fece spazio alla musica non solo nella sua narrativa: da grande esperto wagneriano qual era, nel febbraio del 1933, in occasione del cinquantenario della morte del compositore, tenne una conferenza all’Università di Monaco su Dolore e grandezza di Richard Wagner, in cui criticò i rapporti tra il Nazismo e l’arte tedesca, l’ ‘appropriazione indebita’ della musica di Wagner da parte dei nazisti, che ne facevano un loro precursore riducendolo a cantore della purezza razziale e dell’antisemitismo. Mann, riferendosi al Lohengrin e ai Maestri cantori di Norimberga, che contengono apostrofi nazionalistiche, ebbe il coraggio di proclamare: «Questo vuol dire falsificarle e abusarne, vuol dire contaminarne la purezza romantica».

Quella fu la sua ultima apparizione pubblica in Germania: la conferenza infatti infastidì non poco i nazisti presenti in sala, proprio nei giorni dell’ascesa di Hitler al potere, e Mann si trasferì immediatamente all’estero, stabilendosi prima a Küsnacht, presso Zurigo, poi negli Stati Uniti, a Pacific Palisades, vicino a Los Angeles, dove già abitava una nutrita comunità di esuli tedeschi. Tornò definitivamente in Europa solo nel 1952, ma non si stabilì più in Germania, nonostante fosse stato proposto come primo Presidente della Repubblica Federale; tre anni dopo, a ottant’anni, morì in Svizzera. Un anno prima di morire, parlando alla radio bavarese dei suoi concerti preferiti, illustrò lui stesso il suo rapporto con la musica, definendolo semplicemente “un rapporto d’amore”. Un discorso su “Mann e la musica”, quindi, dovrebbe tener conto anche del Mann saggista… e diventa decisamente troppo vasto rispetto alle mie forze e rispetto ai limiti di tempo assegnati agli interventi di questo convegno.

Perciò ho deciso di concentrarmi su una sola opera di Thomas Mann, studiandola nella prospettiva della musica, ma non con l’intento di illustrare la “filosofia della musica” di Mann, o l’ampiezza della sua cultura musicale: non esaminerò il suo rapporto con la musica di Wagner, o la presenza della musica come tema della sua narrativa. Non sono una musicista, né una filosofa: sono una letterata, e per questo ho deciso di soffermarmi sul particolare rapporto che si instaura, nell’opera di Mann, tra musica e letteratura – un rapporto che è di affinità ma anche di emulazione, quasi di rivalità, di competizione. L’autore stesso ci dà indicazioni al riguardo nel suo romanzo del 1924, La montagna magica.

La montagna magica è ambientato in un sanatorio svizzero di alta montagna, dove arriva un giorno dalla pianura il giovane Hans Castorp, a far visita a un suo cugino che è lì malato – e non se ne andrà più… se non sette anni e mille pagine dopo. Il romanzo narra al rallentatore la vita nel sanatorio, le interazioni personali tra un malato e l’altro e tra i malati e i medici e con questo espediente parla di tutto: di vita, di morte, di malattia, di medicina, di tempo, di follia, di amore, di scienza, di umanesimo, di arte, di sogni, di religione, di corpo, di spirito, di montagna, di neve, di cinismo, di noia, di rassegnazione, di accettazione, di malinconia, di ribellione, di sangue, di dolcezza – e appunto di musica… La musica è uno dei temi di fondo, che in alcuni capitoli emerge e svetta diventando l’argomento dei dialoghi tra i personaggi o delle riflessioni del narratore. Nella scena del concerto sulla terrazza del sanatorio, nel cap. 4, uno degli ospiti, Settembrini, raffinato conoscitore di quell’arte, definisce tuttavia la musica «elemento dubbio, irresponsabile, indifferente», e ne illustra le ragioni, da umanista troppo «italiano, classico e letterato» qual è. Verso la fine del romanzo (c. 7) il protagonista, Hans Castorp, ignorantissimo di musica, è folgorato da un Lied di Schubert, Der Lindenbaum (n.5 da Winterreise), da lui ascoltato grazie a un nuovo prodigio della tecnica, i dischi rotanti su fonografo. Nell’epilogo, in un’orrenda e buia scena di guerra, un povero fante, che il narratore riconosce da lontano come Hans Castorp, corre incontro alla morte, cantando Der Lindenbaum. «Canta – scrive Mann  – come si canta a fior di labbra, senza saperlo, gli occhi eccitati fissi nel vuoto» e cantando sparisce alla vista. (A me vengono in mente i versi di Dante, Pd III: e cantando vanio / come per acqua cupa cosa grave, o la conclusione di Una questione privata di Fenoglio)

Ma leggiamo insieme le considerazioni che il narratore fa all’inizio di quel capitolo: «La narrazione assomiglia alla musica, in quanto riempie il tempo […]. Il tempo è l’elemento della narrazione come è l’elemento della vita, indissolubilmente collegato con essa come con i corpi nello spazio. È anche l’elemento della musica, che misura e articola il tempo e lo rende piacevole e prezioso insieme: apparentata in ciò con la narrazione, che allo stesso modo della musica […] si presenta soltanto come un susseguirsi di eventi e che, se volesse tentare di essere presente tutta intera in ogni istante, per apparire avrebbe bisogno del tempo.
Tutto ciò è di palmare evidenza. È altrettanto chiaro però che qui si delinea una differenza. L’elemento tempo nella musica è uno solo: un ritaglio di tempo terreno, nel quale essa si diffonde per nobilitarlo e ineffabilmente innalzarlo. La narrazione, invece, ha due tempi: per primo il proprio, quello musicale-reale, che condiziona il suo corso, il suo apparire; in secondo luogo quello del suo contenuto, che è prospettico e precisamente in misura così diversa che il tempo immaginario della narrazione può quasi, anzi può effettivamente, coincidere con quello musicale, ma può anche allontanarsene immensamente». Inoltre – continua Mann – a differenza della musica, la narrazione ‘tratta’ il tempo, nei due sensi della parola: ne parla e lo manipola.

Stante questo rapporto tra letteratura e musica, non c’è da stupirsi se Mann considera la costruzione, la composizione delle sue opere letterarie come quella delle opere musicali, ed è su questo aspetto che intendo soffermarmi, prendendo in esame – o meglio, interrogando – La morte a Venezia: perché leggere significa porre a un testo delle domande – e rimanere in ascolto delle sue risposte.

Ho scelto La morte a Venezia (1912) perché grazie al film di Visconti del 1971 è forse il testo di Mann più noto in Italia, e anche per le sue ridotte dimensioni, che lo rendono particolarmente adatto alle ‘dimensioni’ di questo intervento: ma come ci hanno insegnato i poeti alessandrini e poi i neoteroi e Orazio, la brevità di un’opera consente un più accurato lavoro di cesello, quindi una maggiore perfezione formale. Per questo motivo ho condotto la mia analisi sul testo originale tedesco, nell’edizione bilingue curata per Marsilio (Venezia, 2009) dalla germanista Elisabeth Galvan, perché nessuna traduzione, per quanto buona, può essere fedele all’originale, a questo livello di elaborazione artistica…

In apparenza la musica come tema in La morte a Venezia è assente: il protagonista, Gustav von Aschenbach, è uno scrittore, il ragazzo di cui è innamorato, Tadzio, non è studente di musica; l’unica parentela musicale è il nonno materno del protagonista, un direttore d’orchestra boemo. Ma com’è risaputo, sotto Gustav von Aschenbach si nasconde Gustav Mahler. Scrive Mann in una lettera a Wolfgang Born: «Quando concepii il mio racconto, all’inizio dell’estate del 1911 (dopo un viaggio a Venezia), ebbi presente la notizia della morte di Gustav Mahler, che avevo potuto conoscere precedentemente a Monaco e la cui personalità struggentemente interiore aveva prodotto su di me un’impressione profondissima». E in più, a Venezia Richard Wagner aveva composto il Tristano e vi era morto,  trent’anni prima; in più, a Venezia D’Annunzio aveva ambientato il suo romanzo Il fuoco, di cui Mann con questa sua opera vuole fare la parodia – ma andremmo fuori tema…

Proprio questa sovrapposizione, questa coincidenza tra musicista e scrittore è il più eloquente e sintetico discorso che Mann potesse fare sui rapporti tra letteratura e musica: la musica è il modello a cui deve tendere la letteratura; l’opera letteraria – il racconto, ma ancor più il romanzo – deve essere l’equivalente di un’opera musicale, un intrecciarsi di melodie e voci, un concerto dei più svariati strumenti, che lo scrittore compone e dirige. La musica, come la narrativa, è un gioco con il tempo ma, a differenza dell’arte della parola, è asemantica, alogica: non ha nessun ‘messaggio’ da veicolare, se non quello del ritmo e dell’armonia. Costruire un’opera narrativa sul modello di quella musicale significa perciò ricercare e istituire nuovi nessi tra le parti del testo, non più naturalistici e consequenziali, ma appunto musicali e ritmici; significa lasciarsi guidare, nella composizione, non tanto dalla logica di una trama cogente quanto dall’analogia di accostamenti per affinità o per contrasto e dal suono, dal ritmo del testo stesso – delle sue frasi, dei suoi paragrafi.

Esaminiamo quindi La morte a Venezia in questa prospettiva ‘musicale’, tenendo presente quello che Mann scrive nel Saggio autobiografico a proposito della sua opera: «In La morte a Venezia non vi è nulla di inventato. […] Tutto era vero e bastava metterlo a posto perché rivelasse, in modo stupefacente, la facoltà interpretativa della composizione».

Come tutti sanno, se non altro per l’intermediazione del film di Visconti, il romanzo breve di Thomas Mann, ambientato nel 1911, narra gli ultimi mesi della vita di un famoso scrittore tedesco, che decide di passare l’estate a Venezia, al Lido, per la precisione all’Hotel des Bains. Lì, tra gli ospiti dell’hotel, nota un adolescente di divina bellezza, Tadzio, e se ne innamora. Per amore di Tadzio rimane a Venezia anche quando è certo dell’epidemia di colera che le autorità cercano di tenere nascosta, e muore sulla sua sdraio in riva al mare, guardando il ragazzo che entra in acqua. Come vi dicevo, non è la trama, non è il piano della storia quello che prenderò in esame, ma la struttura del romanzo o, per dirla con Genette, il piano del racconto, ovvero appunto quello della composizione, per usare il termine, più musicale, dello stesso Mann.

Il romanzo (lo chiamo così perché sono affezionata alla distinzione tra racconto come tranche de vie e romanzo come totalità; e qui si narra, per quanto brevemente, la totalità della vita del protagonista), il romanzo – dicevo – è composto da cinque capitoli: cinque come gli atti della tragedia greca. L’analogia non è certo casuale. Mann aveva ben presente l’opera di Nietzsche La nascita della tragedia dallo spirito della musica – del resto Nietzsche era uno dei suoi maestri, insieme con Wagner e Schopenhauer. Secondo Nietzsche, com’è noto, nella tragedia greca antica erano compresenti l’elemento apollineo (la razionalità, la compostezza formale, la misura) e l’elemento dionisiaco (che è ebbrezza, estasi, follia) – come nello spirito della musica, in cui apollineo e dionisiaco si fondono. Il mio obiettivo è evidenziare in che modo questi due elementi si fondono, e in che senso si possa quindi rintracciare  lo “spirito della musica” in La morte a Venezia.

I primi due brevi capitoli, ambientati a Monaco di Baviera, hanno funzione introduttiva: il primo narra come maturi nel protagonista la decisione di partire per… i mari del Sud, cioè l’Adriatico; il secondo traccia, in flashback, la biografia intellettuale dello scrittore. Corrispondono all’esposizione e all’esordio, ma in ordine inverso. Nel terzo capitolo, lungo il doppio degli altri due messi insieme, accade tutto: il duplice arrivo (prima nell’isola sbagliata e poi a Venezia), l’incontro con Tadzio, la decisione di partire e la mancata partenza: si tratta delle “peripezie”. Il quarto, che narra le giornate tutte uguali di Aschenbach al Lido e i suoi ripetuti incontri casuali con Tadzio, sembra essere un semplice raccordo preparatorio all’ultimo capitolo ma, iterativo e sospeso com’è, è quello più intimamente musicale; tecnicamente ha funzione ritardante. Il quinto, lungo quasi quanto il terzo, sviluppa in maniera grandiosa, fino alle estreme conseguenze, il tema del parallelismo tra malattia e passione: corrisponde all’epilogo e contiene la katastrophé.

Si è anche parlato di ironia, perché – si è detto – “l’autore Thomas Mann rappresenta in un testo concepito apollinicamente e scritto classicisticamente il fallimento di un modo di vivere e di scrivere apollineo”[1]. Se per ironia si intende la “distanza artistica” dell’autore rispetto alla materia, quella ovviamente c’è: ma, come vedremo, lo stile di Thomas Mann non è così apollineo come sembra e anche il suo personaggio, Aschenbach, non è così apollineo come sembra; perciò non è detto che la sua morte significhi il suo fallimento – potrebbe anzi esserne la piena realizzazione, su un altro piano, in un’altra dimensione: quella dionisiaca – o meglio quella della fusione di apollineo e dionisiaco, cioè quella della musica.

Come Mann stesso segnala, la più vistosa imitazione della musica da parte della sua scrittura è data dall’utilizzo della tecnica musicale dei leitmotiv, per dare coesione al testo, ma non solo.
I leitmotiv in musica sono singoli accordi o cellule melodiche di diversa ampiezza, che vengono ripetute nei passaggi-chiave della composizione; ed è stato Wagner a farne un uso sistematico e a sfruttare al massimo le potenzialità espressive di questo procedimento. Mann, impregnato di musica com’era, wagneriano com’era, non poteva che  fare altrettanto. Per un autore che compone parole e non note, i leitmotiv sono singole parole-chiave che si rincorrono nel testo (Rausch, Seuche, Verschleffung, Schönheit, Eros) o nuclei tematici estesi come: Venezia, il mare, il Classicismo, l’Arte, la Malattia, la Decadenza, i messaggeri di morte. È chiaro che sul piano meramente testuale, logico, la ripetizione eccessiva, quasi ossessiva di uno stesso elemento non ha senso, è una ridondanza che nuoce alla progressione della narrazione: acquista invece senso sul piano musicale, artistico, perché grazie alla tecnica leitmotivistica i dati realistici (paesaggi, ambienti, figure…) slittano nel simbolico, diventano correlativi oggettivi, cioè si arricchiscono di una significazione ulteriore e il testo, strutturalmente, approda a una dimensione di ipnotica musicalità.

Esaminiamo alcuni dei leitmotiv, dei temi più significativi, cominciando dai due indicati nel titolo stesso: la morte e Venezia.
Il tema della morte è annunciato già nella prima pagina dell’opera, quando il protagonista, uscito per una passeggiata, attende alla fermata del Cimitero Nord di Monaco di Baviera il tram che dovrebbe riportarlo a casa: e nella pagina si accumulano croci, pietre tombali e monumenti funebri che Aschenbach nota. Ma soprattutto si concretizza nella figura di un uomo dall’aspetto inconsueto, uno straniero, che Aschenbach improvvisamente scorge e sarà il primo dei “messaggeri dell’Ade” che scandiscono il racconto. Questa figura non ha nessun ruolo narrativamente rilevante nello svolgimento della storia: riceve la sua importanza solo grazie al procedimento dei leitmotiv, solo in connessione con l’apparizione ricorrente di altre strane figure, che impressionano il protagonista, anche solo momentaneamente, per la loro fisicità deformata, ripugnante e vengono tutte descritte nel loro aspetto fisico con una accurata attenzione ai dettagli[2]. Rientra in questa serie il bigliettaio “con barba caprina” che nel terzo capitolo vende allo scrittore il biglietto per Venezia e provoca in lui un sentimento di insicurezza in relazione alla destinazione prescelta. Un’altra figura appartenente a questa linea è il “falso giovane” che Aschenbach, con suo grande disgusto, incontra sulla nave per l’Italia, sempre nel terzo capitolo: con lui si introduce anche il motivo del travestimento, che si ripeterà alla fine del romanzo nella figura stessa di Aschenbach, nella sua metamorfosi in un “falso giovane”. Anche il gondoliere di aspetto sgradevole, addirittura brutale, che accompagna Aschenbach al Lido attraverso la laguna di Venezia, assume la funzione di un messaggero dell’Ade, e la gondola viene esplicitamente paragonata a una bara. L’ultima apparizione di questo motivo avviene nell’ultimo capitolo, con il musicista di strada che dal punto di vista fisico assomiglia spaventosamente alla prima figura, quella dello straniero: le due figure coincidono nella loro descrizione perfino nelle scelte lessicali. Così si chiude il cerchio dell’estraniazione di Aschenbach dal mondo per opera di questi messaggeri dell’Ade, che costituiscono un leitmotiv che attraversa l’intera opera e annuncia l’avvento del dionisiaco.
Ovviamente, con il musicista di strada si affaccia anche il motivo della musica, che in realtà sul piano tematico non è così assente come sembra a una prima, frettolosa e superficiale lettura. Un altro tema emerge nelle dettagliate descrizioni fisiche di queste figure, quello dell’inadeguatezza della lingua – su cui ritorneremo.

Il trionfo del dionisiaco viene simboleggiato anche attraverso Venezia, attraverso la resa di Aschenbach a Venezia, l’altro leitmotiv indicato nel titolo.
Venezia – Venezia città lagunare, escluso il Lido – più che un leitmotiv è un fascio, una costellazione di motivi: da quello dello splendore orientale dei suoi palazzi e chiese – in primis San Marco e il Palazzo Ducale –  a quello del labirinto delle sue calli e dei suoi canali; da quello della decadenza, della putrefazione che si manifesta negli odori disgustosi provenienti dalla laguna, a quello della malattia e del silenzio, della proibizione di parlarne; ed è una Venezia concreta, realissima eppure trasfigurata attraverso la proiezione dei sentimenti del protagonista su di essa: una Venezia che, grazie alla tecnica dei leitmotiv,  diventa lo specchio del caos interiore di Aschenbach. Venezia viene citata per la prima volta nel testo all’inizio del cap. 3, quando compare nei pensieri del viaggiatore come qualcosa di incomparabile, regno di una fiabesca alterità. All’arrivo di Aschenbach davanti a S. Marco lo sguardo ammirato coglie la Bellezza, il positivo di quell’abbagliante composizione di edifici fantastici, e ancora l’aggettivazione ne sottolinea l’aspetto fiabesco, quindi straniante, con epiteti come “stupefacente, fantastico, meraviglioso, favoloso, inverosimile”. La prima passeggiata di Aschenbach in Venezia è invece segnata dal negativo: l’afa opprimente, il tanfo, la calca; e sfocia nella decisione di ripartire al più presto – ma poco dopo ecco Venezia vista dal Canal Grande in tutta la sua grazia principesca. Il tema di Venezia, assente nel cap. 4, dilaga con la sua musica nel cap. 5. Dico “con la sua musica” perché, se si vuole trovare una ‘colonna sonora’ a La morte a Venezia – e una dimostrazione che la musica è comunque presente, anche alla superficie del testo – questa è data dai rumori di Venezia: le grida dei gondolieri e dei mercanti, i colpi dei remi, lo sciabordio dell’acqua contro le fondamenta dei palazzi e delle case – e dal rumore del mare, al Lido. Però in questo capitolo Venezia-città, per così dire, cambia ruolo: in un certo senso passa in secondo piano, diventando semplicemente lo sfondo dell’inseguimento di Tadzio da parte di Aschenbach, ma contemporaneamente ne diventa oscuramente la complice, l’alleata, proprio perché essa pure custodisce, nasconde in sé un indicibile segreto – il colera, correlativo oggettivo della passione proibita. Così ne nasce una descrizione straordinaria e musicale come questa,  un ‘andante con moto’: «Quest’era Venezia, la Bella lusingatrice e sospetta — questa città, metà fiaba, metà trappola per i forestieri, nella cui aria putrida l’arte ebbe in passato un esuberante rigoglio, e che ispirò ai musicisti melodie che cullano e addormentano voluttuosamente. Sembrava all’avventuroso viandante che i suoi occhi bevessero quella medesima sontuosità, che i suoi orecchi fossero accarezzati da quelle stesse melodie; si ricordava anche che la città era ammalata e lo teneva nascosto per sete di guadagno, e senza più freni spiava la gondola che gli ondeggiava davanti».

Venezia Lido, invece, non è che il motivo del mare – l’ultimo dei leitmotiv che esamineremo. Quello del mare è un filo rosso che attraversa tutta la narrazione, con un chiaro valore simbolico. Già sulla nave che lo porta a Venezia il protagonista avverte gli effetti dell’ “immensa, deserta superficie del mare”, che il narratore riferisce passando alla prima persona plurale autoriale: «Nello spazio vuoto, inarticolato manca alla nostra mente anche la misura del tempo e naufraghiamo nell’infinito». L’uso della prima persona plurale, rendendo questa considerazione valida per tutti, rafforza l’intenzione testuale di porre il motivo del mare come emblema del dionisiaco in assoluto. Nell’opera, il tema del mare viene riproposto estesamente (nel cap. 3, nel cap. 4 e alla fine del cap. 5) e allora entra nel testo la musica del mare, si ha come un cambio di tonalità, un accordo diverso, più sereno e appagato, più autentico. Di fronte al mare «il torpore incatenava lo spirito, mentre i sensi godevano l’immensa, assordante conversazione del mare calmo»: così si entra in un’altra dimensione, quella dionisiaca della creatività. Infatti il mare viene messo esplicitamente in rapporto con il fare artistico: «Amava il mare per ragioni profonde: per il bisogno di riposo dell’artista, che dopo il suo duro lavoro desidera sottrarsi all’esigente molteplicità dei fenomeni nascondendosi in seno al Semplice, all’Immenso; per una tendenza all’inarticolato, allo smisurato, all’eterno, al nulla – una tendenza proibita, antitetica al suo compito d’artista e proprio perciò seducente». Ma questo rapporto non è di opposizione, come si potrebbe pensare, come il protagonista stesso pensa, prigioniero com’è di una concezione ‘borghese’ dell’arte, dal momento che proprio in riva al mare, con la musica della voce di Tadzio nelle orecchie, Aschenbach scrive «quella pagina e mezza di prosa raffinata, che tra poco i più ammireranno per chiarezza, nobiltà e oscillante tensione sentimentale»: un momento di quell’assoluto equilibrio tra apollineo e dionisiaco che caratterizza la musica, e che solo i grandi artisti realizzano. Perché l’arte, tutta l’arte, per Mann è «un groviglio istintivo di disciplina e sfrenatezza», di apollineo e dionisiaco, come la musica. Ritorneremo su questo aspetto più avanti.

Veniamo adesso a considerare il ritmo e la lingua del testo. È stato notato che il tedesco della prosa di Mann assume talora il ritmo di versi classici: quello epico dell’esametro nell’apollinea descrizione di Tadzio nel cap.3, o quello del ditirambo, il canto cultuale di Dioniso, nel sogno che Aschenbach sogna poco prima di morire. Ma io vorrei sottolineare un altro aspetto ritmico del testo.
Come nella metrica classica, quantitativa, il ritmo è dato dall’alternanza di sillabe lunghe e brevi, così nella prosa il ritmo narrativo è dato dalla diversa lunghezza dei capitoli e dei paragrafi, dall’alternanza di breve e lungo – che determina la distribuzione delle pause, l’alternanza tra testo scritto e spazio vuoto, tra parola e silenzio. Mann è davvero un maestro nell’articolare i capitoli in paragrafi ora lunghi ora brevi (più brevi i paragrafi narrativi, più lunghi quelli riflessivi) che conferiscono vivacità o gravità alla pagina per ragioni ritmiche prima che tematiche.
Esemplare in questo senso il cap. 4, i cui paragrafi, cioè i blocchi di testo compresi tra due ‘a capo’, si allungano progressivamente. Questo vuol dire che la lettura si fa più impegnativa, più lenta, meno varia se vogliamo: anziché passare rapidamente da un paragrafo all’altro, al lettore viene richiesto di soffermarsi, di indugiare. Del resto, nel cap. 4 viene in primo piano il discorso metaletterario, intrecciato a quello amoroso, ed è inevitabile rallentare, per domandarsi se sia il discorso estetico-classicista ad essere utilizzato come filtro, come velo per rendere accettabile, dicibile, nell’Europa primonovecentesca, l’omoerotismo o, viceversa, se l’amore omosessuale sia solo un pretesto per parlare di Arte Bellezza Scrittura Musica.
Hermann Kurzke, docente di letteratura tedesca a Magonza e specialista di Mann, presenta così La morte a Venezia nel suo saggio Thomas Mann. Epoche – Werk – Wirkung (München, 1985): «Mentre in primo piano un artista senescente si innamora di un ragazzo carino e muore di colera, la tecnica dei leitmotiv apre lo sguardo su tutt’altro evento, oggetto del racconto: la vittoria del Caos sull’Ordine, dell’informe sulla dignità, dell’attrazione per la morte sullo spirito borghese, di Dioniso su Apollo». La mia interpretazione è leggermente diversa, come vedremo, ma in ogni caso non si esce dall’ambito del Dolce Stil Novo, che ha insegnato l’onnipotenza ‘letteraria’ d’Amore, cioè ha utilizzato il discorso amoroso come metafora di tutto, come codice per parlare di tutto, e ha riconosciuto la “dolcezza”, cioè la musicalità verbale, come dimensione imprescindibile del fare artistico.

Anche la concatenazione dei paragrafi all’interno dei capitoli è sorprendente: si farebbe un torto a Mann e alla leggerezza, alla levitas dell’artista, se vi cercassimo un filo logico, uno sviluppo argomentativo che li colleghi. Non ci troviamo di fronte a un testo incoerente, sia chiaro – ma ci troviamo di fronte a un testo narrativo-musicale, d’invenzione e non saggistico. Come saggista Mann è implacabile nella consequenzialità, nella dialettica; come narratore è un tipo nuovo di narratore: apparentemente ancora ottocentesco, realistico, in realtà profondamente novecentesco, cioè ‘decadente’. E questo non solo per le tematiche affrontate (estetismo, omosessualità, decadenza), non solo per il contenuto, ma soprattutto per la forma, per questa nuovissima contaminazione di letteratura e musica, per cui la coerenza profonda del testo si realizza attraverso quell’intreccio di motivi in senso musicale, cioè di leitmotiv, di cui s’è già trattato, e grazie al ritmo, alla metrica del testo.
Esemplare è l’inizio del cap.5, in cui si narra l’inseguimento affannoso di Tadzio da parte di Aschenbach per le calli e i canali di Venezia: il suo ritmo è riprodotto nel ritmo concitato, a sbalzi, del testo, dato dall’alternarsi di paragrafi brevi e lunghi, di notazioni sonore di vario tipo (i colpi dell’acqua, i richiami dei gondolieri e dei mercanti) che compongono “melodie che cullano e addormentano voluttuosamente” e quel girovagare del personaggio per Venezia sulle tracce del Bello diventa metafora – o meglio, correlativo oggettivo – della ricerca artistica, del doloroso, faticoso, spesso inconcludente processo della creazione, per cui sono necessari contemporaneamente il massimo di sforzo, di disciplina, di concentrazione da un lato e il massimo di abbandono, di sfrenatezza, oserei dire di perdizione dall’altro: perché anche il demone dell’Arte, come quello dell’Eros, «si diletta di calpestare sotto i piedi l’umana ragione e dignità».
Il tema ritorna verso la fine del capitolo, ritorna il motivo dell’inseguimento del Bello nel labirinto della città malata, ma questa volta l’accento batte sullo smarrimento, sul disorientamento totale. Alla fine il protagonista, sfinito, si ritrova nella piazzetta deserta dove settimane prima aveva concepito il suo fallito piano di fuga da Venezia, e si abbandona sui gradini del pozzo. È la penultima sequenza del cap. 5 (l’ultima è quella della morte di Aschenbach sulla spiaggia del Lido), una pagina straordinaria, perché l’autore rappresenta la sua concezione dell’artista ‘suonando insieme’ le  sue corde più profonde. Sono parole-chiave (Schönheit, Eros, Form, Abgrund, Erkenntniss, Unbefangenheit), sì, ma si potrebbero chiamare ‘rintocchi’, ‘accordi’ tanto la logica che le collega non è la logica diurna, razionale, ma quella notturna del sogno: così sentiamo risuonare da una parte la tensione della volontà che parla di rinuncia all’abisso, alle tenebre, allo spirito zingaresco, di missione educativa dell’artista ecc. (l’apollineo) e dall’altra il disagio di chi si sente un buffone, un ingannatore perché la Conoscenza e la Bellezza che venera hanno a che fare con l’Abisso, la Forma con l’Ebbrezza del Desiderio (il dionisiaco), e riconosce: «Noi poeti siamo come donne, dominati dalla passione e dall’amore».  

Secondo me, l’omosessualità del protagonista – al di là degli spunti autobiografici – non è che un emblema di questo “essere come una donna”, un’immagine potentissima per raffigurare la particolare complessità della natura dell’artista: essere uomo e donna contemporaneamente significa assumere su di sé tutte le dicotomie, le contraddizioni del reale – e non necessariamente per conciliarle, ma solo per patirle… significa essere Tutto, conoscere Tutto… Lo stesso valore metaforico viene ad assumere il motivo del travestimento e la femminilizzazione dei due personaggi principali: sia Aschenbach che Tadzio sono androgini, nel senso del mito platonico certo, ma fors’anche in senso neoplatonico e gnostico e nietzscheano, raffigurano cioè la coesistenza di apollineo e dionisiaco nello spirito della musica.
Thomas Mann fa così convergere nel personaggio di Aschenbach due temi fondamentali della sua produzione artistica: da un lato la compostezza e la ricerca dell’ordine borghese e dall’altro la tensione spirituale dell’arte e dell’amore a rompere gli schemi e a contraddire la logica del successo materiale, esteriore, in nome di una ricerca di pienezza, di autenticità interiore. Questa antitesi, insolubile per Mann (come si vede anche nei suoi romanzi maggiori), culmina nel tema della malattia come analogon della passione e dell’arte, in quanto violazione dell’ordine quotidiano. Nel lungo paragrafo in cui Mann narra il dilagare del contagio e le conseguenze che esso ha sulla vita a Venezia (il più lungo del romanzo, se non sbaglio) è evidente infatti la letterarietà, il rifarsi ai modelli di Tucidide, Lucrezio, Boccaccio, Manzoni, ma nello stesso tempo in Mann c’è l’assenso alla malattia, il dire di sì alla morte come essenza dell’arte e della musica – e il cercare inconsciamente la morte, come fa il protagonista con il suo rifiuto irrazionale di abbandonare Venezia, è un ripetere l’esclamazione faustiana: “Fermati attimo, sei così bello!”

Questa tensione, questa aporia si trasmette alla lingua, riflettendosi nella contraddizione tra sintassi e semantica. Il tedesco di Mann è imponente e maestoso, e ovviamente questo aspetto va completamente perduto nella traduzione italiana, ma presenta delle incrinature, delle faglie sotterranee. Mi spiego: la sintassi di Mann è ciceroniana a dir poco, architettonica, ipotattica al limite del contorto; la lingua tedesca dispiega al massimo il potenziale attrattivo dei casi, degli articoli, degli ‘ingabbiamenti’, dell’allineamento a sinistra – è una sintassi ottocentesca, vittoriana, che impone ancora alle parole l’ordine borghese; la semantica – cioè le immagini, i temi e la loro successione e connessione – è invece quanto mai blanda, fluttuante, anarchica, ‘decadente’: in una parola, novecentesca. Il rigore è sintattico, non logico; è linguistico, non mentale – ovverosia è un rigore musicale/impressionistico alla Débussy, mi verrebbe da dire.
È difficile se non impossibile ‘dare un titolo’ (cioè un sottotitolo) ai paragrafi: un titolo implica la presenza di un tema di fondo, unificatore, e invece specie nei paragrafi più lunghi si fluttua, si slitta, si oscilla da un tema all’altro, da un’immagine all’altra –  così come nella musica romantica e postromantica gli accordi, i passaggi di tonalità si succedono non più secondo le leggi codificate dell’armonia, ma liberamente, assecondando gli stati d’animo, le oscillazioni umorali dell’artista.
Per questo Mann non aveva altra strada che quella di imitare, nella sua opera letteraria, la musica, modellandola su di essa, perché il regime di “ossimoro permanente” in cui abita l’artista novecentesco non è dicibile in un discorso che obbedisca alla logica aristotelica, che rispetti il principio di non-contraddizione. Contemporaneamente la musica è oggetto di rappresentazione: nell’ultimo capitolo l’episodio dei cantori di strada, occasione di un incontro ravvicinato tra amante e amato, è anche occasione per un esercizio di critica musicale sulla canzone mai udita, e per un discorso sugli effetti che la musica produce su chi è sconvolto dalla passione. Ma la musica italiana dei suonatori di strada è per così dire una musica addomesticata: ben altro è il discorso profondo che il romanzo fa su di essa, indirettamente, attraverso la sua composizione e la sua ‘emblematica’.

Della musica qui si parla per emblemi: il mare e Tadzio, spesso strettamente intrecciati. La figura di Tadzio si mostra spesso ad Aschenbach sullo sfondo del mare e l’osservazione del ragazzo si confonde con l’osservazione dell’acqua. E nell’ultima pagina Tadzio, “il pallido e caro psicagogo”, quando si volta e sorride sta camminando verso il mare.
Il mare ha ritmo e voce ed esercita sull’uomo un’attrazione profonda, come la musica; e Tadzio  è l’incarnazione stessa della musica: la sua voce è musica; è bello, seducente, inafferrabile come la musica, e come lei è al di fuori del linguaggio. Nel testo, il suo fascino è potenziato dall’incomprensibilità della sua lingua, che allo scrittore suona morbida e sfocata („weich“ und „verschwommen“): la lingua straniera nella sua incomprensibile musicalità accompagna l’attrazione fisica che Tadzio esercita sullo scrittore.
Allo stesso modo, l’assenza di linguaggio caratterizza la malattia in Venezia: il segreto dell’amore e il segreto della città sfociano nell’assoluta impossibilità del linguaggio, nella sua morte. Così l’intero romanzo si può leggere come un processo di perdita del linguaggio, che avanza parallelamente al graduale venire in primo piano di sensazioni, esperienze e fenomeni fisici che la lingua non è in grado di esprimere esaustivamente: e scomparsa della lingua significa trionfo della musica. «La sua bellezza era inesprimibile e, come già altre volte, Aschenbach sentì con dolore che la parola può solo celebrare la bellezza, ma non riprodurla Anche qui si può vedere una forma di ironia: l’ironia di usare la lingua – e che lingua! – per denunciarne l’insufficienza, e la sua resa alla musica. Anche in questo caso, l’ironia è strumento della distanza artistica e spia del complesso rapporto di Mann con la musica: un rapporto fatto di passione reticente e di fascinazione colpevole.

In conclusione, lungi dall’essere assente o marginale, la musica è ben presente anche in questo romanzo; anche da La morte a Venezia emerge come tema di fondo l’amore conflittuale di Mann per la musica, di cui parlavo all’inizio. Già qui la musica, come avverrà alla fine di La montagna magica, s’identifica con il ritorno al Caos, con l’affascinante Nulla.
Certo questa lettura, che vede in Tadzio l’emblema della musica e nell’omosessualità un simbolo della natura d’artista, si potrebbe definire un’interpretazione allegorica, se non arbitraria: ma la polisemia è lo specifico dell’opera d’arte, lo spazio aperto alla ‘creatività seconda’ dell’interprete. Thomas Mann aveva detto, a proposito di Wagner: «L’arte è verità, la verità sull’artista» – ma la più profonda, la più intima verità di un artista è il suo essere artista, cioè compositore, cioè musicista: di questo lui parla esplicitamente o implicitamente, in tutte le sue opere. E tanto più, quanto più sono riuscite.
In La morte a Venezia fitti sono i rimandi intertestuali espliciti a due dialoghi platonici: il Fedro, sulla Bellezza, e il Simposio, sull’Amore; tuttavia Mann dimostra di aver ben presente, in realtà, un altro dialogo, il Fedone (60ε), che riferisce come Socrate, in attesa della cicuta, raccontasse a Cebete di avere nella sua vita più volte sognato, in varie forme, un sogno che gli diceva “Sòkrates, mousikén poièi, fa’ musica”. Lo scrittore Thomas Mann, l’artista della parola, ubbidiente, non ha fatto altro che “fare musica”: la musica è il limite a cui tende tutta la sua scrittura, perché la mousiké téchne è l’arte per eccellenza, l’arte delle Muse.


[1] S. Kiefer, Thomas Mann: „Der Tod in Venedig“. Aspekte der Interpretation, Universität des Saarlandes, 2006

[2] A. Kottow, Das Scheitern der Körper/Geist – Dichotomie in Thomas Manns „Der Tod in Venedig“, in Der kranke Mann. Medizin und Geschlecht in der Literatur um 1900, Campus Verlag, Berlin 2006, p.251