Un pomeriggio ben speso

Migranti - 7, 2007

Guido Villa, “…dentro le fosse di calce…”, 2007

FULVIA GIACOSA.

Vi proponiamo due mostre d’arte che si sono inaugurate entrambe venerdì 20 gennaio, una collettiva a Bene Vagienna ed una personale a Cuneo.

BENE VAGIENNA.
Il gruppo LEDA, dopo la prima esposizione a Cuneo “Leda e il cigno. Finzioni e visioni da un mito” lo scorso anno (vedi QUI), presenta opere di docenti del Liceo Artistico di Cuneo, questa volta accompagnate da quelle di alcuni studenti. La mostra, a Palazzo Lucerna di Rorà a Bene Vagienna, è visitabile fino al 23 aprile, con il seguente orario: il sabato dalle 15.00 alle 18.00; la domenica dalle 10.00 alle 12.00 e dalle 15.00 alle 18.00 (per informazioni, tel. 0172-654152).
Espongono: Tiziano Ettorre, Giuseppe Formisano, Grazia Gallo, Giorgio Giordano, Emanuele Greco, Daniele Guolo, Marco Odello, Cristina Saimandi, Anna Salomone, Patrizia Stralla; gli studenti presenti, dei corsi Figurativo e Grafico, sono: Alessia Dovero, Federica Sorba, Taci Sparti, Stefano Zavatteri, Gaia Zurlo.

Il titolo scelto dai curatori, Enrico Perotto ed Elisabetta Salzotti, è “Variazioni su un tema”. Se “variazioni” chiarisce la libera interpretazione ed il rispetto che si deve alle ricerche di ciascuno, il “tema” è invece stato individuato a posteriori, sulla base delle opere raccolte; il bel testo di presentazione di Elisabetta Salzotti offre come chiave di lettura complessiva il concetto di tempo (ricco è l’excursus filosofico ed artistico proposto), oltre ad essere tematica quanto mai attuale nell’oggi caratterizzato da un appiattimento su un presente dimentico di ieri e titubante sul domani.

Il palazzo che ospita la mostra è una dimora medievale ristrutturata tra XVII e XVIII secolo di cui conserva stucchi di artisti luganesi, una bella scala attribuita a Juvarra, oltre ad affreschi ottocenteschi riconducibili alla bottega di Pelagio Pelagi. Come si vede il legame, artistico oltre che politico, è con la casa Savoia. Recentemente recuperato con un intervento intelligente è sede del Museo Civico-Archeologico ed ora aperto a mostre d’arte contemporanea.

Per i tanti lavori dei docenti si rinvia al testo della Salzotti in catalogo; qui dedichiamo poche righe a quelli dei giovanissimi allievi, augurando loro che questa occasione sia foriera di future opportunità e sperando che i loro docenti non se l’abbiano a male e comprendano le motivazioni della scrivente nella sua veste – trentennale – di insegnante.

Ritrovo la serietà e la sensibilità di Alessia Dovero, che è stata mia allieva nei primi anni di liceo, nei suoi due acrilici su forex, con interventi a biro in uno e a grafite nell’altro. Il confronto tra le due immagini ci dice innanzi tutto quanto in pochi decenni sia cambiata l’impostazione del ritratto. “Bruna 20 settembre 2016” origina da una fotografia giovanile della nonna e ne conserva il taglio pittorico nel punto di vista leggermente abbassato così da stagliare il profilo sul fondo; la dominante rosa antico ci porta indietro a quelle stampe fotografiche che con gli anni mutavano di tono. “Frammenti 18 gennaio 2016” è invece un volto contemporaneo “immaginario” poiché frantumazione di una fotografia di moda (Beckham): la ricomposizione di un primo piano costituito da frammenti sfalsati su piani diversi ridona ad un volto piegato alle esigenze commerciali intensità e fragilità umane: una bellezza “spezzata” per poter tornare ad essere vera.

GIACOSA Benevagienna

Federica Sorba espone due fotografie a colori che riprendono dall’alto un piano su cui sta in un ordine affatto casuale una varietà di oggetti. “Alchimia di un fotografo” gioca sull’accostamento di cose comuni caratterizzate dal materiale: la durezza di pietre, metalli, monete, la leggerezza delle piume e la morbidezza della candela. La candela consumata ritorna in “Geometrie”, accanto a mucchietti di terre, sferette infilate a formare monili e una serie di forme geometriche tratte da simboli esoterici scelti qui per la complessa armonia compositiva più che per i significati simbolici.

federica sorba

La fotografia, in un bianco e nero ricco di forti contrasti, è il medium utilizzato da Sparti Taci. Essa ha la doppia funzione di indagare uno stato d’animo non momentaneo ma esistenziale (“Pieghe di vita”) e di nostalgico racconto della sua terra d’origine attraverso momenti lieti delle tradizioni popolari ancora assai vive in Albania (“Valle popullore”). La prima fotografia è un ingrandimento ravvicinato del profilo dell’occhio materno, impietoso nel mostrare le rughe del tempo ma carico di vicinanza empatica che solo l’amore di un figlio sa trasmettere: la tristezza che egli ha da sempre colto in quello sguardo è la somma di una storia dolorosa che si è disegnata negli anni sul volto, incancellabile. La seconda mescola i ricordi del paese di provenienza e, nella sfocatura che avvolge tutta la scena, si legge la consapevolezza della rapidità con cui la memoria si fa opaca, incerta.

sparti taci

Infine il lavoro di Stefano Zavatteri e Gaia Zurlo consiste in un reciproco ritratto: l’opera si compone di due busti in terracotta e due fotografie polaroid: il passaggio da queste ultime, freddi ed anonimi scatti, all’elaborazione in creta, che addolcisce i tratti con il modellato ed il materiale, nulla toglie all’idea che entrambi le tecniche mirano a fissare un istante nel trascorrere del tempo, anche se la durata delle prime, tascabili che durano quanto le tasche, è destinata ad essere ben più effimera.

Zavatteri-Zurlo

A conclusione di questi brevi appunti faccio uno strappo alla regola che mi ero imposta per dire due parole su Emanuele Greco, ormai in veste di docente, ma che personalmente continuo a ricordare come allievo. Il mondo delle sue sculture, per lo più di piccole dimensioni, è quello di una intimità quotidiana letta con sincera, toccante partecipazione. L’autore modella figure carezzandole con levità, quasi timoroso di venir scoperto mentre furtivamente le ruba al loro mondo, evitando innanzi tutto la messa in posa che le distanzierebbe dal puro esistere: sono figure pensose (“La fine del tempo della spensieratezza”, 2015), misteriosamente remote (à rebours fino all’Etruria antica de “Gli sposi”, 2016), eppure presenti e vibranti di vita nel mormorare muto di domestici segreti (“Maternità”, 2016).

Giacosa, Greco

CUNEO
All’interno del progetto “GrandArte” di cui abbiamo già parlato su questa rivista (QUI), si è aperta a Palazzo Samone la personale di Guido Villa dal titolo “Migranti, da una poesia di Derek Walcott” (visite fino al 12 febbraio, con orario: 17-19,30 il giovedì e venerdì, 15,30-19,30 il sabato e domenica. Ingresso gratuito). Guido Villa, formatosi all’accademia a Brera, è artista dalla ormai lunga ed articolata carriera, sempre attento alle problematiche sociali contemporanee spesso restituite in “cicli” grafico-pittorici. Nei lunghi soggiorni a Isiolo in Kenya, ha realizzato per la cattedrale un gigantesco affresco sull’esodo biblico, tema che il ciclo presentato ora a Palazzo Samone attualizza.

Il ciclo di opere in mostra trae spunto dal testo di Walkott, Premio Nobel per la Letteratura 1992, per parlarci dei disperati di oggi. Tuttavia, come giustamente ha sottolineato Roberto Baravalle all’inaugurazione, drammatici movimenti migratori sono ciclicamente ricorrenti; ci ha ricordato quelli legati alla grande depressione americana degli anni Trenta, richiamando “Furore” di Steinbeck (1939) e contestualizzando i versi del poeta. Sovvengono d’istinto gli scatti dei fotografi Dorothea Lange o Walker Evans su spostamenti epocali e tragici verso ovest della massa di americani ridotti alla fame, su vagoni merci, carri, muli o cavalli, ma spesso semplicemente a piedi, mezzi poveri che nei versi di Walcott ricorrono più volte. Per restare nell’ambito fotografico odierno viene spontanea una domanda: quanti si sono già dimenticati dei corpicini del siriano Aylan sulle coste greche e del birmano Mohammed Shohayet in quella terra dove orecchie da Nobel paiono sorde alle persecuzioni della sua etnia?  Siamo talmente distanziati dai fatti reali, resi ineffettuali da una loro smisurata esposizione “mediale” incapace di fissarsi, che occorre cercare altrove immagini che si imprimano in modo imperituro nella nostra mente. Questo altrove è là, nella parola scritta e nell’immagine artistica.

Le opere di Villa esposte in palazzo Samone entrano in casa nostra, che lo vogliamo o no, scardinando l’indifferenza o, peggio, l’ostilità. Nelle sale troviamo un nutrito numero di bozzetti (matite, chine, acquerelli) e grandi pannelli in tecnica mista: in questi predomina il monocromo, tante volte usato in arte quando il soggetto rende il colore inopportuno, indicibile (si pensi alle incisioni di Beckmann e Dix). Linee indagatrici, quasi scavi, attraversano il supporto in moti dinamici che echeggiano certo Depero, si affastellano nell’horror vacui dell’elaborato, proprio come le masse umane stipate in spazi claustrofobici: manca il respiro, regna l’affanno. I volumi si comprimono innaturalmente nei vortici compositivi che anticipano il destino delle figure d’essere presto ombre di se stesse. Nessun particolare “ritratto” (eppure l’artista è stato un grande ritrattista quando lavorava per Garzanti) perché è nell’anonimato che conosciamo i migranti, cui è negata anche la magra consolazione d’essere considerati individui, con un nome ed una storia. Una valanga di dolore avvolge tutto, comprese le poche cose che accompagnano questi esseri, residui di una vita obbligatoriamente gettata alle spalle (una macchina da cucire, una sedia a dondolo, oggetto simbolo dell’America rurale).

Quasi sempre sottili interruzioni verticali – esili linee bianche, in qualche caso filetti lignei – scandiscono a trittico il pannello con la funzione di mettere in evidenza una parte del racconto. Eppure non si può non pensare ai polittici della tradizione d’arte sacra: ne ho fatto cenno all’autore e abbiamo pensato a quel trittico di Grünewald (l’Altare d’Issenheim conservato al Musée Unterlinden di Colmar, in Alsazia), forse il più alto esempio di “strazio” di tutti i tempi, là dove il dolore del Cristo in croce è il dolore secolare dell’umanità quando l’umano viene dileggiato, martirizzato, annientato.

retable d'Issenheim

D’altronde il tema della Crocefissione è presente nella produzione di Guido Villa, con riferimenti a fatti drammatici della nostra epoca incapace di pietas, arida come una terra che si trasforma in deserto se non torna ad essere irrigata da un po’ di umanesimo. Le arti tutte possono essere i nostri ultimi giardinieri. Sta a noi ricordare che un giardino è tale quando è fatto di diversità.