Ziette, che passione!

Baule zia 1

foto di Bruna Bonino

GABRIELLA VERGARI.

« (…) Esistono delle zie di grande statura e altre di piccola.» sostiene Jack ne L’importanza di essere Onesto di O. Wilde, arrampicandosi sugli specchi alle inquisitorie domande dell’amico Algernon «Certamente ogni zia ha il diritto di scegliere se essere grande o piccola. Secondo te ogni zia dovrebbe essere esattamente come la tua! Ḕ assurdo» sbotta alla fine.

Non potremmo trovarci più d’accordo, soprattutto tenendo conto di come la letteratura abbia trattato e “scoperto” questo particolare categoria di parente, membro irreprensibile, quando non perfino arcigno e severo, di ogni rispettabile famiglia, ovvero cellula impazzita e spesso esilarante di ogni gruppo troppo paludato ed ingessato.

La mia, ad esempio – quella  per antonomasia – possedeva  un baule o forse una cassapanca.  Comunque fosse, doveva avere fondo e capienza smisurati: noi nipoti lo sapevamo e ce ne fidavamo da sempre, ovvero da quando avevamo  preso coscienza della nostra nipotanza e della sua ziettitudine, se così si può dire. Perciò nutrivamo la più piena e pacifica certezza che,  purché non si fosse giusto trattato di un elefante rosa a cinque zampe (e chissà forse perfino in quel caso), la zia ce l’avrebbe prima o poi procurato, scavando, rovistando, guardando o semplicemente aprendo quel suo magnifico quanto misterioso contenitore. Mai visto, perché l’imprescindibile condizione era che non le  chiedessimo né di mostrarcelo né di frugarvi dentro insieme. Assunto anche questo pacifico, al punto da non contemplare l’ipotesi di discuterlo (anche se non nego che a volte qualcuno di noi ne sia stato tentato). Oltre che rivelarsi gravissima e fuor di luogo, l’infrazione ci avrebbe infatti alienato quello stupefacente pozzo di San Patrizio, con la conseguenza di  privarci non solo di una grande comodità ma anche di un gran divertimento.

E poi avevamo un surrogato niente male, che era la sua borsa, qualunque essa fosse. E questo perché la zia era una vera artista e dentro ci teneva le cose più varie ed  impensate, dal cacciavite alla radiolina, dalle forcine alle pile, dalle cassette  al nastro da pacco, dai pennarelli agli occhiali da sole. Più o meno così, in quest’ordine, cioè senza ordine, alla rinfusa, per cui era estremamente improbabile trovare le cose nel loro posto convenzionale. Molto più frequente che i pennarelli stessero nel porta occhiali, le forcine tra le pile, e via di questo passo. Con la divertentissima conseguenza di valutare le misure del possibile che, nel caso della zia, rasentavano non di rado  l’imponderabile.

E non esagero, chiunque l’abbia conosciuta può confermarlo. Insomma, per dirla tutta, non era solo il baule (o cassapanca che fosse) ad essere pieno di sorprese, e nemmeno la borsa, ma la zia stessa. Quasi fosse baule o cassapanca di per sé. Ma piuttosto direi scatola cinese. La “aprivi” a più riprese ed in più modi e ci trovavi dentro qualcos’altro. O forse, chissà, tutti gli essere umani sono un po’ fatti in questo modo, solo che con la zia la faccenda assumeva un che di estremamente evidente. E ancora mi chiedo come facesse ad assommare la stupefacente capacità di combinare gli opposti, quasi fosse la cosa più facile e naturale del mondo, tanto da riuscire pure ad essere presente, anzi presentissima, perfino da assente. Un po’ Mary Poppins, un po’ zia Mame, l’indimenticabile protagonista di D. Patrick, tornata da qualche anno – la prima edizione del testo rimonta al 1955 – ai fasti delle cronache letterarie ed al gradimento dei lettori.

Nulla per fortuna a che vedere con un’altra, memorabile “zia” in cui mi sono da recente imbattuta grazie a Tanpinar ed al suo L’istituto per la regolazione degli orologi, datato 1954 ma riproposto qualche mese fa da Einaudi (2014), nella fluida traduzione italiana di F. Salomoni. Per la sua rappresentazione, satirica ed allegorica insieme, del contrasto sorto all’incontro del mondo turco tradizionale con l’ Occidente e  soprattutto con la modernità,  il romanzo meriterebbe una lunga trattazione a parte. Mi piace però restare al tema iniziale, soffermandomi sulla formidabile zia del protagonista (nonché voce narrante), Hayri Irdal, il quale, al capitolo 11, così ce ne narra le peripezie: «Il giorno dopo la convocazione al commissariato, morì mia zia. E proprio mentre stavano per seppellirla, dopo la preghiera del pomeriggio, resuscitò. Il duplice evento gettò la nostra famiglia nel caos più totale. E mio padre non riuscì più a riprendersi. (…) Alla fine, proprio mentre stavano calando nella fossa il feretro con il coperchio semiaperto, mia zia emerse all’improvviso dal sonno letargico che era stato confuso con la morte, spinse faticosamente da parte il coperchio, comprese subito la situazione grazie alla sua leggendaria presenza di spirito, e ordinò all’imam di Etyemez, l’unico degli astanti che conoscesse abbastanza bene: -Forza, mi porti subito a casa!- Stando a quello che raccontava Ibrahim Bey, visto che gran parte dei presenti alla sepoltura se l’era data a gambe, fu abbastanza difficile riportare il feretro da Merkezefendi fino a casa. E se non fossero riusciti a convincere quelli che non erano abbastanza terrorizzati da fuggire, sarebbe stato praticamente impossibile portare a termine l’impresa. La prima cosa che fece fu chiedere all’imam e a uno dei becchini il mantello lasciato accanto alla fossa e, dopo essersi ben coperta, diresse tutte le operazioni lì seduta, con il corpo metà dentro metà fuori da quella strana portantina. (…) Una volta arrivata in città, affamata, ordinò di comprare delle focacce nel primo negozio che avevano incontrato. Quello strano corteo funebre che tornava dall’altro mondo assaltando le pasticcerie aveva raccolto dietro di sé tutti i perdigiorno che incontrava sulla sua strada e alla fine metà della popolazione del quartiere e, quando ebbe raggiunto la casa in cui molto tempo prima mia zia era entrata come giovane sposa, si era ormai trasformato in un corteo trionfale».

Più  ziesco di così!