Paolo Parrini, un uomo tra gli uomini

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GABRIELLA MONGARDI

Sembrano aforismi, nella loro brevità, le prime liriche della raccolta Un uomo tra gli uomini di Paolo Parrini (Ladolfi editore 2020)  – e come aforismi racchiudono un distillato di sapienza esistenziale:  : «Fortuna grande / odor di foglia, / aver vissuto, / vivere». Ma sono aforismi in cui si incontrano “gabbiani impazziti”, “quel vento del Tirreno”, “la mano di mia nonna” – e allora la prima sezione della raccolta si rivela per quello che è, un’introduzione o meglio un’ouverture in cui musicalmente il poeta, come il compositore, accenna i motivi che poi svilupperà nel corso dell’opera, cioè nelle successive due sezioni del libro, La luce che viene e Mentre il sole cadeva sui miei occhi.

Anche in queste altre sezioni Parrini predilige la misura breve, alla maniera di Ungaretti (non per niente il titolo della silloge richiama quello dell’opera omnia ungarettiana, Vita di un uomo), mentre le tematiche rimandano piuttosto al Montale degli Ossi di seppia, soprattutto per la presenza del mare: «Il mare / non arriva a questa casa. / Ha una voce di sale e di vento / libeccio. / È un sorso d’acqua / che brucia. / Un volto, volato via».
Il mare ha un volto e voci taglienti e solitudini; il mare è lo specchio dell’uomo al punto di farsi preghiera; il mare “restituisce la pace”.

Solo il mare ti restituisce la pace
delle parole
il respiro lento
dentro una eternità.
Non il verde forte
della foglia che freme
non la neve candida che sfianca.
Solo il mare
e l’azzurro e l’onda.
Ove mi perdo
senza perdermi mai.

La poesia ha la struttura di un’aria col “da capo”: la prima e la terza parte, di quattro versi ciascuna e aperte dall’anafora “Solo il mare”, ne celebrano il movimento ritmico e il colore; i tre versi centrali vi contrappongono i colori di altri elementi naturali (foglie e neve), che però non consentono al poeta di “perdersi senza perdersi” – quell’esperienza di naufragio dell’io e delle sue difese per aprirsi alla vita in maniera autentica e piena, grazie anche alla scrittura. È la vita nella sua essenzialità, nei suoi aspetti  elementari infatti, quella che Parrini canta – lo scorrere dei giorni, gli incontri, il desiderio, la luce, il vento, la natura, gli affetti – “l’avvincente e generico statuto umano”… Ma questo è possibile solo dopo che la mano del poeta ha aperto tremando “la porta sul vuoto” del nostro essere “frammenti che il tempo disperde” e consegna alla morte.

Così, insieme alla vita, Parrini canta necessariamente la morte come sua compagna inseparabile, come apprendimento che dura tutta la vita: «Mille volte e ancora morire / un poco ogni giorno morire. / Poi finalmente imparare».
Già nella prima sezione, che significativamente s’intitola E morendo ho vissuto, il poeta constata che «sulle colline della vita mia / dolcemente muore ogni sera» e ne ricava la legge che «qualcosa, sempre, muore», ma è nella seconda e nella terza sezione che questa “legge” trova per così dire attuazione: dapprima nei sorrisi “che si fanno d’ombra”, poi nella “migrazione nell’eterno”. La parola poetica affronta di petto, ma con estrema delicatezza, il momento cruciale («Fu un colpo secco / poi un bagliore ardente. / Così morivi / tu da sola»), sente la presenza dei morti nel brulicare dei fili d’erba accanto a un cimitero di campagna, nell’oscillare delle tende di casa o di un’altalena vuota.
La drammaticità del morire è trasfigurata in immagini commoventi («Quando ci coglie / la morte /siamo fiori e petali / che si sollevano. /Oltre il cielo / si annidano i richiami»), ma ciò non basta ad eliminare il dubbio, l’interrogazione amletica del vivo all’amico che è già “oltre la soglia” e finalmente conosce la verità ultima delle cose.

Ma una profonda verità ce la dona anche il poeta, in due splendidi, perentori settenari:
«Chi ama è oltre il tempo,
oltre la morte e il buio».