Dell’ordine del mondo

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GABRIELLA VERGARI

Più o meno a metà del frizzante e rutilante Nel giardino delle scrittrici nude, l’insolita protagonista di P. Pallavicini, Sara Brivio, scrittrice sessantenne, divenuta all’improvviso ereditiera di una straordinaria fortuna grazie al proprio escrementizio padre, contempla tra le altre l’ipotesi di rilevare la Libreria del Morto in Casa, libreria indipendente dal 1964, centro di Milano, sede in caseggiato storico, scaffali di antico legno tarlato da pavimento a soffitto, giusto per dar seguito al senso d’onnipotenza, natole dalla ricchezza.
Ultimamente mi assalgono questi pensieri, quando per caso entro in un negozio dove non mi trattano in modo adeguato […] compro l’attività, licenzio tutti questi maleducati, chiudo, rivendo i muri a un investitore cinese.
Una parabola ben nota, che in quattro battute condensa l’ingloriosa sorte di buona parte dei negozi italiani indipendenti, quasi sempre destinati a finire inghiottiti, e soppiantati, dai piccoli o grandi esercizi commerciali del celeste impero.
Ma con in più l’implicito, sottilissimo messaggio della scanzonata volontà di profanazione di una libreria storica, ridotta al rango di un mero contenitore merceologico, come tanti altri.
Dal momento però che, per quanto risentita della scortesia della libraia – capace di guardarti in base alle richieste con sommo disprezzo, o peggio ancora con infinita pietà –, la potenziale acquirente si trova in realtà ad essere una grande appassionata di lettere e scrittura, la sua ipotesi vendicativa si trasforma subito in qualcos’altro: Però aspetta: e se davvero comprassi la libreria, buttassi fuori questa proterva bouquiniste gauche-caviarissima, ottenebrata da decenni di letture così colte e noiose da averle praticamente essiccato il cervello, ma poi invece di chiuderla ci entrassi io e vendessi solo i libri che mi piacciono? Nuovi, usati, da collezione.
Un sogno.
Quale lettore forte non l’ha mai coltivato?
E Sara Brivio non fa eccezione, cominciando a immaginare la sua libreria ideale che, ça va sans dire, da luogo fisico, in un attimo si trasforma in luogo mentale e culturale, grazie al quale Pallavicini si toglie pure qualche (grosso) sassolino dalla scarpa.
In quello scaffale, tutto ad esempio Arbasino, in quell’altro Tama Janowitz. Lì, Angela Carter e  là, Somerset Maughan, ma niente Pasolini: Anzi meglio uno scaffale dedicato a Pier Paolo Pasolini però completamente vuoto, impolverato, magari con in mezzo un bel cartoncino con scritto sopra “spiacenti, nisba Pasolini”.
De gustibus, si dirà.
E l’inesauribile montagna di denaro, di cui Sara Brivio può disporre, riesce a rendere, i suoi, ancora più eccentrici ed extravaganti, (appunto personali), inducendoli ad elevarsi (è proprio la parola) al di sopra, e al di là, dei diktat dell’attuale industria culturale – non solo nostrana – e ad emanciparsi dalle leggi di mercato o dai vari altri parametri oggi imperanti che, se tanto più diffusamente e tristemente ribadiscono il litterae non dant panem, ancor più diffusamente e tristemente rivelano la trivialità fino alla quale ci si possa spingere, quando si vuole che le litterae lo diano.
Aspetto di cui anche Antonio Manzini, più diffusamente noto come il creatore di Rocco Schiavone, ha offerto un gustoso quanto paradossale spaccato nel suo recente Ogni riferimento è puramente casuale.
Certo, qualche scelta della nostra singolare ereditiera può riuscire sconcertante: Quegli stramarci del realismo magico invece non li terrei neanche con una pistola puntata alla tempia, ma per loro non farei nemmeno il giochetto dello scaffale vuoto, se un cliente mi chiedesse Cortázar, Marquez, Sepulveda lo caccerei a pedate.
Stessa sorte per altri mostri sacri come Bukowski o Foster Wallace.
Per non dire dei russi (proprio così, con la minuscola): cribbio mi hanno ucciso di noia i russi, mi hanno polverizzato le scatole […] Dostoevskij, Gogol’, Tolstoj, a me invece hanno sempre fatto scendere la morte del cuore e per carità, lo so che sono dei giganti della letteratura, sono solo ricca sfondata, non idiota, i russi sono dei grandissimi ma io li detesto, e più ancora detesto quelli come Giorgio che “ah io i classici, io i russi! Lì c’era già tutto. Lì era l’ottocento e già il romanzo moderno aveva dato il meglio. Leggo quelli e quando ho finito semmai li rileggo”. Ma andate a quel paese e leggetevi invece qualcosa di contemporaneo, cretini, e nella mia libreria comunque ’sti maledetti catorci non li venderei mai, va bene?
Beh, insomma, dipende.
Per quanto non ampiamente condivisibili, queste considerazioni hanno comunque, a mio parere, il pregio di voler prender posizione, senza ristagnare nella melma del politically correct  a tutti i costi, né stazionare tra gli angelici cori del consenso belante.
Ma soprattutto ribadiscono una intrigante verità, nota, pur se non sempre chiara, a tutti coloro che abbiano di volta in volta inteso organizzare una propria libreria fisica o una biblioteca del cuore.
È davvero come dare ordine al mondo e in questo senso J. Cabré l’ha splendidamente reso nel suo Io Confesso, un romanzo potentissimo e stupefacente che avrebbe certo meritato migliori fortune in Italia: […] tornò a Roma con l’intenzione di mettere un po’ in ordine perché ormai da troppo tempo viveva inciampando negli scatoloni dei libri venuti dalla Germania che non aveva ancora aperto, accese la luce e la luce fu. Chiamò Bernart per farsi aiutare a pianificare quest’ordine ideale, come se Bernart fosse Platone e lui Pericle, e l’appartamento dell’Eixample la tumultuosa città di Atene. E così i due uomini saggi […] separarono le acque di sotto da quelle di sopra e fu fatto il firmamento con le sue nuvole, separato dalle acque del mare. Nella stanza dei suoi genitori, che adesso era sua, misero la poesia e i libri di musica, e fece ritirare le acque di sotto in modo che ci fosse qualche zona asciutta, e alla zona asciutta mise nome Terra, e chiamò Oceani le acque. Nella sua stanza da bambino […] ci misero i libri di storia, dalla nascita della memoria fino ai nostri giorni. E anche di geografia, e la terra cominciava ad avere alberi e semi che germogliavano e diventavano erbe e fiori…
Il passo è talmente bello che andrebbe riproposto per intero, ma è anche molto lungo, così che preferisco qui citarne solo la parte conclusiva: E il Signore contemplò la sua opera e pensò che aveva fatto un ottimo lavoro, perché aveva l’universo a casa […] E disse ai libri crescete e moltiplicatevi e diffondetevi per tutta la casa.
Quale dichiarazione d’amore potrebbe suonare più ardente e passionale di questa, e insieme più vicina e comune al sentire di ogni autentico lettore del mondo?
E quale attività più gratificante dell’avere l’universo a portata di mano, malgrado il caldo torrido e i continui allarmi ambientali ci ricordino di continuo che l’universo, quello reale, potrebbe all’improvviso sfaldarsi?
Non sono sempre stati i libri che amiamo, e forse anche quelli che detestiamo, a darci la sicurezza che il mondo possa ad ogni modo restare lì, conoscibile e sondabile, ad ogni apertura di copertina o lettura di pagina?
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