La scimmia matematica

scimmia

CLAUDIO ZANINI

“Nessuno entra qui se non è un geometra” Platone

Capitolo 1, Ardea

Steso sul letto guardo l’intreccio di macchie sul soffitto. Sono felice, poiché fra qualche giorno vedrò la duchessa, signora Ayala.
Siamo (sono) ad Ardea.
Ardea, lo voglio precisare, è una città dell’Occidente evoluto e civile. Nessuno deve pensare che ci si trovi ai confini del deserto, ai bordi di una carovaniera per cammelli, oppure in una città di palafitte sospese sopra una palude. L’Occidente (dove mai tramonta il sole) è la sua patria. Ardea non ha l’importanza fittizia delle immense metropoli, non conta decine di milioni di abitanti insonni, tuttavia ha un grattacielo spropositato e sghembo firmato da un architetto famoso e isterico come una rock star. Inoltre, è un paradiso fiscale come certe isole assai fuori mano. A parte questo dettaglio, non è neppure una città di periferia, sobborgo, insediamento marginale, perché l’Occidente è policentrico, come l’universo di Giordano Bruno, sebbene del tutto dissacrato. Ogni suo punto è centro perché in ogni suo punto l’Occidente esprime la sua essenza più intima.
Basta guardare nel profondo dello sguardo un qualunque cittadino dell’Occidente per scoprire che nel suo tenero ma allucinato smarrimento, aspirazioni, desideri, modelli di comportamento e vita sono i medesimi, hanno i medesimi nomi, colori, forme e firme. Allo stesso modo anche il centro della metropoli più grande è come un’accecante galassia che si disperde centrifuga in milioni di splendidi atomi occidentali, stelle cadenti, fuochi d’artificio, lapilli, ceneri dai margini ardenti ma già impalpabili. E si, perché il potere che domina questo mondo è invisibile, impersonale, addirittura virtuale. Liquido e fluido, corre lungo le maglie ed i nodi della grande rete, non è in nessun luogo ma è dappertutto. È Dio? Non ancora, ma è sulla buona strada per diventarlo.
Sono convenuto ad Ardea per partecipare al famoso Concorso Mondiale di Quadratura del Cerchio, ma la ragione non è soltanto questa. La vera ragione è un’altra, nasce da un oscuro presentimento che ora non voglio rivelare per puerile scaramanzia. Soltanto dopo il mio incontro con la duchessa narrerò la veritiera vicenda.

Come oggi, il giorno del mio arrivo ero steso sul letto di traverso, supino, con le braccia e le gambe allargate. Sopra di me il soffitto alto e immerso nella penombra. Un intrico di crepe ne istoriava l’intonaco. Guardando meglio mi accorsi che le fessure formavano un groviglio complesso, a prima vista indecifrabile, che, tuttavia, mi attraeva irresistibilmente. Mi levai in piedi. Per osservare meglio,presi la pila che portavo sempre con me, poiché nelle stanze d’albergo e nei corridoi nottetempo ci si orienta sempre malamente, e la puntai verso il soffitto. Misi una sedia sul letto, vi salii sopra, mi alzai in punta di piedi.
Il soffitto era ad un palmo del mio naso. L’insieme delle screpolature formava una sorta di topografia qua e là sbiadita, anche perché l’intonaco in molti punti si era sbriciolato. Con sorpresa riconobbi la mappa della città di Ardea la cui pianta originaria ha la forma stellare a sette punte cui corrispondono sette bastioni, ora diroccati e trasformati, quelli non ancora cumulo di macerie, in bar gelateria, distributore di benzina, piccolo supermercato, scalcinato sexy shop.
Ecco, quasi al centro della figura geometrica, il palazzo ducale circondato dalle antiche mura. Da, qui seguendo una sottile crepa, s’arriva all’incrocio con un’altra increspatura più sbiadita che s’allarga in una macchia regolare: la piazza su cui si affaccia l’edificio del teatro. Alle sue spalle e al suo fianco la fila dei casamenti dove si trova l’albergo Sirio con la stanza sul cui letto ero in equilibrio. Un piccolo foro quadrato da cui usciva una processione di formiche dovrebbe corrispondere all’esatta ubicazione della stanza sulla mappa.
Traballante sulla sedia in bilico, seguii le varie linee dell’intarsio inciso sul soffitto: le strade di Ardea riprodotte minuziosamente. Una crepa più larga indicava il letto del fiume che lambisce la città alle spalle del palazzo ducale. Un’altra, la linea ferroviaria che lo scavalca sopra un ponte. Un’altra ancora, rettilinea, il viale che dalla stazione raggiunge il palazzo del governo. Altre innumerevoli si irradiavano oltre il perimetro stellare della città, in tutte le direzioni, e poi sulle pareti in una cartografia appena percettibile all’occhio umano. Seguendo una di queste linee mi sporsi da un lato; delle microscopiche macchioline si rivelarono ad uno sguardo attento, una mandria di buoi in transumanza. Più in là, oltre un solco incurvato scoprii una flotta di vascelli, ormai quasi prossimi alla sparizione.
Cominciò a girarmi la testa, persi l’equilibrio rovesciandomi sul letto. Restai così ad osservare come ipnotizzato la ragnatela di fessure e screpolature che ora mi appariva confusa, una macchia informe.
Mi pareva d’aver sentito dire che l’albergo un tempo fosse stato un convento di clausura, dove venivano inquisiti i sospetti d’eresia. Ecco, forse quella mappa era stata incisa da qualche prigioniero o da qualche monaco uscito di senno, il quale, non potendo né volendo uscire, recluso per sempre nella clausura, aveva raffigurato sul soffitto il suo sogno d’evasione. Probabilmente partendo dal minuscolo foro, ora transito di formicole, cioè dalla sua stessa cella, il disegno si era via via esteso, dalla topografia di Ardea a quella del mondo circostante.
Me lo immaginai, il frate, inerpicato nelle ore notturne sopra un trespolo precario. Lo vidi con un punteruolo scalfire l’intonaco e il mattone, alla luce tremula di un lume, l’ombra enorme a ripetere l’infinita ossessione dei suoi gesti irrequieti. E poi, ansante sul giaciglio, gli occhi arrossati dalla polvere, fissare quel mondo espandersi, giorno dopo giorno, proliferare in una scala assurda e immaginifica lungo le pareti. Pareti a cui mi accostavo, scoprendo un rinnovato incrociarsi di linee, figurine, nomi, quasi l’inquieto fantasma del frate aggiornasse con inesausta lena, mentre io ero assente, l’immensa mappa. Ogni segno era inciso in una grafia infinitamente minuta, tanto che bastava allontanarsi d’un palmo appena, e tutto scompariva in uno sfondo compatto, una tinta ocra appena increspata da lievi ombre. Eppure, malgrado dal letto dove giacevo fosse praticamente invisibile, quella fitta tessitura esercitava su di me un’arcana attrazione.

Guardavo i miei piedi, nudi e leggermente divaricati, quasi al bordo del letto. Il destro è un normale piede maschile, non sgradevole. Il sinistro sarebbe specularmene uguale all’altro se non presentasse una leggera anomalia. Il dito mignolo è attaccato a quello vicino da una sottile cartilagine. Un piccolissimo difetto che non ha impedito in alcun modo, né tantomeno limitato, non soltanto la mia attività deambulatoria, ma qualsiasi altro agire che implicasse il piede mancino.
Questa anomalia non ha influito in maniera più assoluta nella pratica del gioco del calcio in cui ero particolarmente versato, sebbene negli spogliatoi dell’istituto dove ero ospite involontario venissi, sulle prime, preso in giro dai compagni più stupidi. Per qualche giorno mi affibbiarono il nomignolo di ranocchio, al quale io rispondevo rifacendo loro il verso “gra! gra!”. Visto che non me la prendevo e nel gioco primeggiavo, presto smisero.
Né, tantomeno, le mie dita congiunte furono d’impiccio nella disciplina sportiva dello sferoide elastico, uno sport poco praticato, causa di una grande disillusione e di una disgrazia, di cui parlerò più avanti.
Forse la piccola membrana avrebbe potuto avvantaggiarmi nel nuoto. Purtroppo non ebbi che rare occasione per sperimentare la sua efficacia, visto che non ero portato per le discipline natatorie.
Era un vezzo, invece, un giochino apprezzato nei miei rapporti con le donne. Ricordo che fin dalla più tenera infanzia sia mia madre adottiva, sia le varie fanciulle che si curavano di me, massimamente quella in seguito cacciata, sbaciucchiavano i miei ditini uniti e recitavano puerili filastrocche a loro dedicate.
Ero appena arrivato ad Ardea, al termine d’un lungo, faticoso viaggio per mare. Così, osservando i miei piedi, mi addormentai d’un sonno profondo.

Claudio Zanini, La scimmia matematica, Edizioni Bietti, Milano 2013

Nel romanzo si possono rintracciare quattro vicende che s’intrecciano, mescolano e influenzano a vicenda.
Nella prima si racconta l’itinerario che porta il giovane Arcadio nella città di Ardea per partecipare al Concorso Internazionale di Quadratura del Cerchio. E dove si rievocano episodi della sua sventurata infanzia, del suo servizio militare, del modo come sia venuto in possesso della dimostrazione elaborata da un suo lontano zio e di come, infine, egli trionfi sulle avversità che ostacolano il suo percorso sentimentale e formativo.
La seconda illustra il singolare Hotel Sirio dove il giovane alloggia. Un albergo dalle stanze bizzarre e diverse l’una dall’altra. C’è la stanza delle illusioni ottiche e quella dove rimangono tracce dei sogni degli ospiti, la stanza che ogni tanto sparisce e quella con una voce che corre lungo le pareti, la stanza abitata da una sfera e quella dell’attesa, e così via all’infinito: tante sono le camere dell’Hotel Sirio.
La terza segue lo svolgersi del concorso, nel bel Teatro di Ardea, con le sfortunate dimostrazioni dei più rinomati matematici e geometri del mondo, tra cui l’abate teologo Balthazar Tubinga e l’orango Tobia che appare come l’assistente di un losco figuro ma, in verità, è lui che sa quadrare il cerchio.
Una quarta storia narra le dolorose vicende della duchessa Ayala, vedova e severa governatrice della città di Ardea e di come uno spettacolino teatrale, vagamente shakespeariano, infine, sveli una realtà segreta.
Altri personaggi, non di secondo piano, popolano la storia. In primo luogo, il mercuriale Zagreo, che aiuta il giovane Arcadio a districarsi tra gli inattesi accadimenti di cui è costellato il suo soggiorno ad Ardea; l’affascinante Cloe che lo affianca, lo consiglia e lo ammaestra nell’arte amatoria; l’ambiguo finanziere Krumm, padrone della città. Non dimentichiamo i due maestri nell’arte dell’origami, i giapponesi Kami Sugai, amante del sumo, e la graziosa Yoshie Ozo, esperta in algoritmi e flussi dello yen.