Ho visto terre oltre il confine

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LAURA CORRADUCCI

C’è un proverbio africano che recita così: nella vita incontrerai tre tipi di persone, quelle che ti cambieranno la vita, quelle che ti rovineranno la vita e quelle che….saranno la tua Vita.

Lo scorso luglio ho vissuto un’esperienza di missione grazie alla generosità dei Frati Cappuccini delle Marche, la regione in cui sono nata e abito, in Benin, piccolo paese dell’Africa subsahariana fra il Togo e la Nigeria, dove i missionari, in ventisette anni, hanno costruito da sud a nord del paese, tre conventi con relativi progetti di missione: dagli orfanotrofi, agli ospedali, alla direzione di “atelier” (laboratori di sartoria, falegnameria eccetera) e ancora, diversi programmi di formazione e inserimento per giovani, bambini e famiglie africane.

Restare in Africa per un periodo di tempo non troppo lungo, come è capitato a me, rischia di farti rimanere sospeso in una dimensione “altra”, i pensieri, il modo di guardare che hai sempre, inconsapevolmente o no, portato dentro, sembrano arretrare e lasciare posto ad un qualcosa che sai sta per arrivare e sarà potente ma che, ancora, si muove nell’incertezza, la vita è altrove diceva, non a caso, Rimbaud.

E’ l’inevitabile frizione di due culture lontane, all’apparenza incompenetrabili, assettate anche se in maniera differente, della stessa acqua, un rovesciamento di sguardo che, se in un primo momento risulta innaturale, finisce per entrarti dentro come qualcosa di ineluttabile, nonostante il tuo io, subdolamente, continui a fare di tutto per virare, per nasconderti.

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Nello stesso identico modo in cui si tratta il proprio corpo, coprendolo e ungendolo di repellenti con la speranza di sfuggire alle zanzare e alla loro dannata malaria, per ritrovarsi poi, in una mattinata di fine luglio, a lasciarlo totalmente scoperto, steso su una strada di un villaggio, affidandolo a Dio, al fato, alla vita, alla terra battuta al ritmo di bonghi e piedi nudi, o semplicemente, alla meraviglia del cielo della notte: un drappo incandescente bruciato da stelle in fiamme.

Tutti gli intensi colori dell’Africa si mescolano e nascono da un’unica polvere rossa, fine e argillosa che, ogni giorno, si alza dalle strade beninesi costeggianti i villaggi lungo i campi, per ispessirsi e divenire grigiastra, insieme ai gas delle infinite auto e moto che, furiosamente, attraversano le vie principali di Cotonou, capitale economica del Benin.

Proprio su queste strade le donne, segnate nel volto e nel corpo, da una regalità assoluta, camminano e portano sulla testa insieme al ferro delle pentole, la consapevolezza di una femminilità primordiale e inalterata, mostrando una leggerezza ed un’eleganza come mai mi era capitato di vedere prima.

Se mi si chiedesse quale fermo immagine userei per regalare uno schizzo di realtà beninese, fra i tanti, splendidi, sceglierei le mani di Frankie e con lui quelle di tutti i bambini disabili che ho visitato in un centro di accoglienza francescana, (struttura non adatta alle esigenze dei piccoli ospiti, i francescani, all’oggi, stanno infatti cercando un posto migliore). I bambini disabili nati nei villaggi vengono, spesso, barbaramente uccisi perché considerati incarnazione di spiriti malvagi, Frankie è uno di loro, un folletto furbo e attento, salvato dall’ignoranza delle tradizioni. Ha 15 anni, è affetto da sindrome di Down, uno sguardo obliquo e profondo, ti sorride se guardi altrove e ha un insaziabile desiderio di conoscere con le dita, di toccare corpi, scoppia a ridere all’improvviso, ride insieme alle sue mani, in quel modo ammaliante che hanno gli africani di far vibrare i corpi e la voce.

Negli occhi di questi figli “speciali”, negli occhi deboli e semichiusi di Frankie, si spalanca una madre Africa fragilissima ma fiera, un’Africa che ha un’incontenibile fame di esistere, non aspetta, non ascolta le mille giustificabili paure, ma apre la bocca e morde. Frankie nel riso della sua ciotola di legno stretta a forza sulle gambe, assaporava tutta la bellezza del suo essere unico, la percepiva ed io con lui.

Le decine, centinaia di visi che ti accolgono, ti stringono lo sguardo mentre percorri le strade, le vie, i sentieri che conducono ai villaggi, divengono nella memoria gli occhi, il naso, le labbra di un solo volto che si dilata, un’unica voce, forte, come le stoffe degli abiti, una voce che si accende in un canto, il canto tribale delle notti, per placarsi in un respiro silenzioso davanti alla luna, a Dio.

Un Dio gioioso che non ha paura di uscire dalle teche per accarezzare la pelle e danzare con le donne, un Dio che come Mosè, batte colpi di bastone sulla roccia della nostra autoreferenzialità per scuoterne gli automatismi e ritrovare un’acqua nuova, autentica.

Sarebbe banale e illusorio ignorare i problemi enormi di una terra segnata da una ferocissima povertà e, paradossalmente, da una gioia disincantata, le emozioni devono, giustamente, lasciare spazio e tempo a riflessioni ponderate, le esigenze, in particolar modo formative, di crescita e autonomia dell’Africa, sono urgenti e primarie.

Eppure, eppure nel caos che avvolge le città beninesi e in cui spesso, durante i lunghi e faticosi spostamenti, perdevo i pensieri e abbandonavo gli occhi in quelli sorridenti di chi scorgevo al di là del vetro, proprio in quello stesso turbinio di disordine e vita, ho visto sollevarsi il meraviglioso pensiero di Nietzsche “occorre avere molto caos dentro di sé per generare una stella che danza….“.

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ho costruito un bel battello all’amore*
ho raccolto legna dentro la foresta
non ho smesso di disegnarti il viso
nella polvere che saliva sulle gambe
la sete del sole ti piagava le labbra
io l’ho raccolta in vasi sulla testa
il vento l’ho spinto via per non farti cadere
e sulle strade ho sparso petali di fiori rossi
perché tu non esitassi a comprendere la via
il corpo l’ho profumato nell’oceano
vicino alla palma lascerò il mio vestito
ho costruito un bel battello all’amore
il mare sulla spiaggia ci attende da sempre
da questa terra salperemo con la luna.

* il verso è di un canto africano ascoltato in Benin da una corale di giovani a Cotonou.

Le foto sono di Federico Flamini, operatore televisivo e fotografo.

Laura Corraducci ha pubblicato le sue poesie qui.

lauracorra@hotmail.com

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