Dalla prefazione di Franca Alaimo
La nuova collana La rosa del guardare per la casa editrice catanese “ilglomerulodisale” debutta con un libro sorprendente, segnato da una personalità impetuosa e irruente (qual è quella della sua autrice Lara Pagani) che, tuttavia, in nome della perfezione estetica, lavora con ostinato entusiasmo sulla lingua per liberarla da ogni esagerazione sentimentale o da picchi di soggettivismo, trovando nell’audacia di molti accostamenti lessicali, nella novità con la quale rielabora figure topiche (quale quella mitologica di Clizia) e nella ricerca di un ritmo personale, gli strumenti per restare sé stessa nell’obbedienza alle ragioni della poesia. Ne consegue spesso una sorta di alternanza fra disvelamento e nascondimento, che determina quell’ambiguità di senso, che invece di infastidire, incuriosisce con il suo potenziale di varietà interpretative offerte dalla novità degli incastri tra significanti e significati. I temi di questa poesia si intuiscono non con quella sensazione fuggevole di disvelamento di qualcosa, ma proprio con l’azione suggerita dall’etimo del verbo latino intueri del guardare dentro, in profondità, interrogando simboli e metafore. [...] Lara Pagani ha certamente un ampio bagaglio di letture (ama molto anche l’esercizio del tradurre come strumento di avvicinamento agli autori stranieri preferiti) e perciò è quasi scontato paragonarla ad altre autrici come la Plath, la Sexton, e soprattutto, la Cvetaeva, ma se certe somiglianze esistono (nessun poeta nasce da sé stesso), è anche vero che il suo forte temperamento, la sua tendenza all’eversione immaginativa, la allontanano da ogni rischio imitativo, isolandola nella sua luce come nelle sue oscurità in una sorta di spazio creativo tutto suo.
Dalla quarta di copertina firmata da Daìta Martinez
Il tempo della ferita è genesi di una raccolta assenza quasi urlata nel sussulto di una raffinata postura poetica che al dolore si offre laica devozione sbocciata sulle spalle della donna che nel nascosto di una visione contempla quel dirsi tu in un implicato sguardo di assoluzione e trapasso nell’interno di un vortice linguistico che mai perde il suo baricentro di parola per offrirsi corpo e creato di una accorta filigrana di viti sporgenti dal nido delle lacrime per nascere e farsi affluente d’amore che in ogni sfioro ne rifletta il segno teso a sovvertire ogni sua possibile comprensione. Lara Pagani ha il passo urgente del corpo che trema laddove arriva l’intenzione del viso rivolto alla prima foschia del mattino quando ancora le stelle cingono degli angeli la luce sulla terra sospesa nella congettura di una storia.
Da Le viti del pianto (ilglomerulodisale 2024)
Avevo piume, potevo volare.
Avevo un becco aguzzo, strabuzzavano
i passanti alla mia vista – tiravano
via i bambini con le mani perché
ero sporca, portavo malattia.
Non ero triste, mi sembrava giusto:
fossi stata al posto loro – dov’ero
prima – mi sarei fatta ribrezzo.
*
A letto era rivoltarmi – accaventiquattro
una scherma di lenzuola e sudore.
Avevo voluto la bici, sì? E allora dovevo
pedalare. Pedalavo i sette mari, scalciavo
coperte, scoperchiavo la rete a tenerci.
Di me si stufò presto: un pomeriggio
mi mise il guinzaglio, inforcò la vera bici
per quattro isolati – i film americani, hai
presente? – finché la lingua rase al suolo
l’asfalto, la mia. Ero sgraziata, spinosa –
inaccettabile. Così fu pronunciato rosa
l’abracadabra che speravo: un battito
di mani, mi sparirono piedi e gambe –
bene aperte non le aveva mai guardate,
gli faceva un poco schifo. Dopotutto
siamo fragili, amore: ce ne freghiamo
come i bambini che ci tagliano la strada,
le buone maniere sono roba da morti.
*
Ti sbocciano viole sulla schiena. Nulla
esiste che riesca a scalfirti, a strapparti
dall’ingorgo matto delle stagioni: nulla
tranne l’ametista che scorre dalla pianta
del tuo piede alla radice dei capelli. Solo
tu puoi recidere stelle, svernare chi sei –
sovvertire la corolla delle possibilità.
*
Le api si sono fatte rade come
capelli sulla testa di un malato.
Hanno sforbiciato le lucciole –
acceso alti i lampioni che se guardi
male sembrano lune, quanto ai prati
il cemento avanza come un carrarmato.
Non c’è motivo di sdegnarsi: l’ape
conserva la sua voglia di planare
di petalo in petalo, tu stamattina
sei uscita di buon’ora col tuo male.
Sul cemento allucinato d’agosto
sono planati i tuoi passi. A lampioni
eclissati ti ho sfogliato le palpebre –
l’iride tremula, viola come la notte
quando è impossibile da spegnere.
*
Hai rigovernato il tempo, ti è riuscito
l’incantesimo: sono stata grandissima,
piccola, media, mediocre, ennesima.
Perché non potessi più confondermi
mi hai dato un nuovo nome, messo
un nastro al collo che nessuno vede –
e tiri. Così sono diventata cosa tua –
docile, assoggettata al nero. Ti amo
è dir poco, forse il contrario del vero.
*
Persino le stelle hanno la capacità
innata di morire, amore mio. D’ora in poi
finché saremo insieme sulla terra
chiameremo ogni dolore delebile.
*
Lara Pagani è nata nel 1986 a Lugo (Ravenna), dove vive e lavora. È laureata in lingue e letterature straniere. Suoi inediti sono apparsi su alcune riviste online, tra cui Atelier, Poetarum Silva, Larosainpiu, Limina Mundi, Le parole di Fedro, Bottega Portosepolto e Di Sesta e di Settima Grandezza.
(A cura di Silvia Rosa)