A confronto col paradigma gender

Sandro Botticelli, La nascita di Venere (particolare), da Wikimedia Commons

Sandro Botticelli, La nascita di Venere (particolare), da Wikimedia Commons

CLAUDIO SOTTOCORNOLA

Introduzione: Cristianesimo e paradigma gender, un incontro possibile?
Il 31 ottobre 2023 è stato rilasciato dalla Congregazione per la dottrina della fede e controfirmato da Papa Francesco un testo – che ha suscitato grande scalpore – che risponde a sei domande inviate da mons. José Negri, vescovo di Santo Amaro in Brasile, lo scorso 14 luglio. Nel documento si spiega che una persona trans, sia sottoposta a trattamento ormonale che ad intervento chirurgico di riattribuzione del sesso, può ricevere il battesimo “alle medesime condizioni degli altri fedeli”. Inoltre, il Vaticano può ammettere un credente di orientamento omoaffettivo o transgender anche al compito di padrino o madrina di battesimo, così come può essere testimone di un matrimonio in quanto non esiste legge del diritto canonico che lo vieti. Tali posizioni, pur con svariati distinguo e ampia discrezionalità concessa al ministro che valuti tali opportunità, appaiono del tutto innovative entro un contesto ecclesiale che si è mosso a lungo in direzioni spesso assai distanti da quelle qui ribadite. Si riscontra tuttavia anche in questo caso quella che peraltro è una costante di Papa Francesco, ovvero una preminente preoccupazione pastorale, che a sua volta coinvolge uno sguardo sociologicamente e antropologicamente focalizzato, mentre vengono tralasciate o lasciate sullo sfondo, come del resto è ovvio che sia in un documento di tal genere, considerazioni più strutturali, di natura ontologica e teologica. Il riferimento al paradigma gender è inoltre percepito in tale contesto ecclesiale, forse per alcune sue espressioni estreme e radicali, in modo critico e non analitico – come si evince anche dalla recentissima Dichiarazione Dignitas Infinita circa la dignità umana, del Dicastero per la dottrina della fede –, senza distinguere ciò che pertiene agli studi di natura scientifica in tale ambito, che dovremmo ritenere attendibili, dalle teorizzazioni assai diversificate che li accompagnano, su cui si può evidentemente discutere e dibattere.

Chi scrive, interessato a riflettere – da filosofo – su quanto emerge dall’attualità proprio nei suoi riflessi di ordine fondativo, vuole in questa occasione proporre invece un articolo su tali non secondari aspetti fondativi, a sua volta sintesi di un proprio saggio più ampio, realizzato lo scorso giugno per una rivista di ispirazione religiosa con cui collabora, che lo ha però ritenuto, forse a ragione, “troppo complesso” per ospitarlo sulle proprie pagine, e che dunque si vuole offrire qui all’attenzione dei potenziali lettori. A chi intendesse approfondire la tematica, si rinvia al volume del teologo e filosofo Damiano Migliorini, esperto accreditato in tematiche legate al pensiero di genere, “Gender, filosofie, teologie. La complessità, contro ogni ideologia” (Mimesis, 2018), che ha ispirato la riflessione proposta in molti punti con dati, osservazioni e argomentazioni di particolare pertinenza proprio in riferimento a quel paradigma gender, che è spesso oggetto di accesa discussione ma anche di scarsa conoscenza specifica. Fermo restando che questioni complesse esigono risposte aperte, che tengano insieme prudenza, creatività e competenza nel tentativo di approssimarsi a una verità che, in quanto tale, sempre ci trascende e non finisce mai di sorprenderci.

A confronto col paradigma gender
Gli studi di genere o gender studies costituiscono un bagaglio di ricerche e approfondimenti, sviluppatisi in gran parte in ambito anglosassone, che coinvolgono psicologia, antropologia, sociologia, sessuologia e altre scienze umane, nel tentativo di dar conto del modo e delle forme in cui si sviluppa la formazione dell’identità di genere negli individui, distinguendola dalla identità sessuale che, in base al corredo genetico, biologico e anatomico, costituisce una persona come maschio, femmina o intersessuale.

Se infatti nella maggior parte delle persone sesso biologico, identità e ruolo di genere sembrano corrispondere, nel qual caso si ha un’identità cisgender, ad esempio un individuo di sesso maschile, che si identifica intimamente come uomo (identità di genere) e viene percepito dalla società come tale per  i suoi comportamenti (ruolo di genere), vi sono casi in cui questo non avviene, e al sesso biologico si associa un’identità e conseguente ruolo di genere diverso, nel qual caso parleremo di un individuo transgender. In particolare, le identità non binarie (dette anche genderqueer o non-binary) non si identificano poi con un genere specifico – maschile o femminile –, indifferenti sia a una transizione sessuale sia alla modifica della propria espressione di genere secondo lo schema binario. Con il riferimento all’orientamento sessuale invece si indica la direzione affettiva di un soggetto – ovvero le persone da cui si sente attratto –, che si può configurare come eterosessuale, omosessuale, bisessuale. Va poi ribadito che, anche solo nella designazione del sesso biologico, sia sul piano genetico e ormonale sia per quanto concerne l’aspetto degli organi genitali esterni ed interni, la biologia umana non si limita alle due categorie monolitiche di maschio e femmina, potendosi rilevare, per esempio, oltre alle coppie di cromosomi più comuni (XY o XX), altre combinazioni di cromosomi, mentre le configurazioni degli organi genitali esterni ed interni possono variare in modo atipico, come pure la quantità di ormoni presenti nel corpo, avallando tutto ciò una varianza di cui spesso non teniamo conto quando ragioniamo in termini dualisticamente vincolanti.

Ancora per tutto il ’900 la posizione culturale prevalente a livello planetario è stata tuttavia di tipo binario, prevedendo come uniche opzioni l’individuo maschile e femminile cisgender, paradigma di riferimento di orientamenti, attitudini e comportamenti individuali, da omologare il più possibile ad una delle due opzioni, secondo il sesso biologico di appartenenza, nello stigma e nella patologizzazione di ogni condizione difforme. La nascita e la diffusione del paradigma gender ha però consentito, soprattutto negli ultimi decenni, di approcciare la complessità di identità di genere e di orientamenti sessuali non ascrivibili al modello dualistico tradizionale, in modo più inclusivo e flessibile, arrivando a concepire le categorie del maschile e del femminile come i due estremi di un continuum, una specie di retta su cui poi ciascuno si va a posizionare nella propria irripetibile singolarità.

È però evidente che una parte dell’opinione pubblica tende ancora a percepire tale mutamento di paradigma come minaccioso, da un lato in quanto ribalta tradizionali modi di pensare e di sentire ponendo questioni rilevanti, anche di natura etica, all’attenzione del dibattito pubblico, dall’altro perché entro lo stesso dibattito emerge una polarizzazione e radicalizzazione dei motivi pro e contro che certamente non giovano alla serenità del confronto.

Così, a partire dagli anni ’90, soprattutto in ambito cattolico, si è diffusa una rilettura degli studi di genere, relativi in realtà all’ambito scientifico, secondo la quale sarebbe in atto una sorta di congiura volta a misconoscere la differenza sessuale e a cancellare le diversità fra uomo e donna. E a tal proposito è stato coniato il termine di teoria del gender, che ha finito con l’assumere quindi una connotazione critica e talora complottista, a designare proprio quegli studi di genere che, in realtà, tendono ad evidenziare la ricchezza e la complessità della condizione sessuata umana, e se mai aumentano l’attenzione alle differenze, piuttosto che cancellarle. Si tratta alla fine di un approccio che, concentrandosi un po’ anche strumentalmente su alcune tesi estreme entro il dibattito LGBTQ+ (acronimo che fa riferimento a quanti non si sentono pienamente rappresentati dalla definizione di donna o uomo eterosessuale), che non pertengono alla sostanza di tali studi, non tiene conto del carattere appunto esclusivamente scientifico che essi intendono assumere, e pertanto non li distingue da quelle teorizzazioni, peraltro molto diversificate e variegate, che legittimamente attraversano la riflessione teoretica in proposito, e non coincidono necessariamente coi fondamenti di tali studi, esattamente come la rivoluzione scientifica seicentesca, che oggi nessuno si sentirebbe di contestare, si accompagnò a sistemi filosofici anche antitetici, come il razionalismo e l’empirismo, che contribuirono ad analizzarla, ma non si identificò con essi.

Quanto alla diatriba relativa al carattere naturale o patologico delle identità e degli orientamenti sessuali e di genere che si discostano dal modello cisgender eterosessuale e binario, occorre chiarire che se tradizioni religiose e sistemi etici diversi possono ispirare modalità comportamentali riferibili alle diverse condizioni umane, solo alla scienza spetta di definire se una determinata manifestazione psicofisica sia patologica o sana e che, di conseguenza, etica e religione dovranno tenerne conto anche nella propria sfera prescrittiva.

Damiano Migliorini, teologo, filosofo, esperto in tematiche legate al pensiero di genere con pubblicazioni internazionali, in “Gender, filosofie, teologie. La complessità, contro ogni ideologia” (Mimesis, 2018), a proposito del rifiuto a riconoscere la differenza sessuale, afferma: “Questo ragionamento sembra piuttosto la confessione dell’inconfessabile: vediamo le differenze solo laddove sono evidenti (maschio-femmina), ma non sappiamo scorgerle laddove sono più sottili (femmina-femmina). In qualche modo confessiamo la nostra inclinazione a ridurre l’altro a noi stessi: come maschio non so riconoscere nell’altro maschio un vero irriducibile Altro; in quanto maschio come me, ho il diritto di ridurlo a me. È la confessione della nostra pretesa totalitaria sul Volto dell’altro, il nostro Medesimo. Abbiamo ridotto la persona ai suoi tratti somatici, senza riconoscerne la peculiarità ontologica, trasformando una somiglianza (che due maschi siano anatomicamente più simili tra loro rispetto a un maschio e una femmina è un dato di senso comune) in identità, tralasciando la maggiore dissomiglianza” (p.130).

Ritenere poi la differenziazione sessuale come quella che assume la dignità maggiore dipenderebbe proprio dalle premesse contestate in quanto, secondo l’autore, considerando ogni persona come una haecceitas (ovvero animata da un principio determinante che fa sì che essa sia se stessa e non un’altra), se ne ha che “la differenza con più alta dignità è quella tra ogni persona (unica e irripetibile) rispetto a ogni altra persona” (p.151). E dunque: “[…] il dimorfismo non può diventare un sistema simbolico che istituzionalizzi presunte ‘essenze’ tramite cui disciplinare la varietà delle esperienze umane che, a partire dal corpo sessuato, si riscontrano nella realtà […]. Pur riconoscendo un valore all’esserci come maschi e femmine, alla riproduzione e all’eterosessualità, nulla ci vieta di valorizzare altre forme d’amore che non sono in linea con la maggioranza” (p.153).

La dicotomia fra natura e cultura, che viene così spesso alla ribalta nel dibattito sul gender, è tuttavia per Migliorini una opposizione illusoria, in quanto, intendendo per cultura “non solo quella cosciente, sociale, razionale, bensì l’insieme di tutte le relazioni che il corpo biologico si trova a vivere fin da quando incomincia il suo percorso nell’esistenza”, si ha che “natura e cultura […] si danno immediatamente come compresenti”, aggiungendosi gradualmente alle relazioni biochimiche quelle ambientali, sensoriali, affettive, sociali e culturali specifiche a plasmare l’identità personale (p.187), per cui “… la natura è dunque un campo molto ampio di potenzialità che si individuano in nature individuali tramite processi relazionali” (p. 188).

A rendere ragione della complessità del processo, Migliorini assume dall’approccio essenzialista l’esistenza di anime o forme sostanziali incarnate a costituire un corpo desiderante, dall’approccio costruttivista il principio di interazione di tale corpo con l’ambiente, e tutto ciò consente di pensare “che l’anima-forma, essendo in parte evolutiva come il corpo-desiderio e determinata parzialmente dalla sua esperienza relazionale, sia compatibile con identità sessuali differenti” (p.194).

Ciò che infatti conta è la riuscita del “programma di sviluppo” inscritto nell’anima: “Alla fine della costruzione dell’identità sessuale si ha una persona (omo, etero, trans…) matura, cioè capace di gestire relazioni, vita lavorativa, affetti, con un’identità nella quale la persona si rispecchia in modo stabile. Quando ciò avviene, quando cioè l’anima può esplicitare le sue funzionalità più alte – relazionali, d’amore, intelligenza e creatività – il processo di evoluzione e concrescita dell’anima nel corpo è avvenuto in modo positivo” (p.207).

Considerare dunque esclusivamente la morfologia di un soggetto ignorandone la biografia costituisce – a livello etico – una sorprendente attitudine materialistica, che appare incongruente a una visione spirituale come ambisce ad essere quella religiosa, e cristiana in particolare, che dell’anima dovrebbe essere innamorata, e non della meccanica di un corpo che di essa venga privato per replicare un prototipo astratto, basato sulla semplificazione di una complessità antropologica la cui bellezza sta proprio nella straordinaria ricchezza e varietà che essa riesce misteriosamente ad esprimere nell’orizzonte spirituale di una imperscrutabile libertà che – situata nello spazio e nel tempo – coinvolge anima e corpo nell’avventura del desiderio, che è sempre un desiderio di compimento e di trascendenza.