Autosufficienza o affidamento?

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CLAUDIO SOTTOCORNOLA

“Io prendo rifugio nel Buddha, io prendo rifugio nel dharma, io prendo rifugio nel sangha”, è la formula che il fedele buddista pronuncia quotidianamente per indicare rispettivamente il suo affidamento all’Illuminato, alla Dottrina, alla Comunità dei Saggi.

“Cuore Divino di Gesù, io ti offro per mezzo del Cuore Immacolato di Maria, madre della Chiesa, in unione al Sacrificio Eucaristico, le preghiere, le azioni, le gioie e le sofferenze di questo giorno in riparazione dei peccati e per la salvezza di tutti gli uomini, nella grazia dello Spirito Santo, a gloria del Divin Padre. Amen”, è l’Offerta della giornata al Sacro Cuore di Gesù, che ancora taluni fedeli cristiani recitano nel desiderio di restare uniti all’essenza stessa del Cristo attraverso le azioni e le opere quotidiane.

L’affidamento a Dio, non nella sua numinosa e inconoscibile trascendenza, ma attraverso una mediazione familiare e benevola, è atteggiamento comune all’esperienza religiosa, di un sacro cioè che si fa prossimo e in qualche modo tangibile alla condizione umana, alle sue fragilità e incertezze, rendendo così possibile al singolo confidare nella protezione e benevolenza di Ciò che potrebbe  terrorizzare per la sua ineffabile potenza e che invece, come un buon padre, o più genericamente come chi ama, cura e tutela, garantisce e promuove.

Una celebre lirica di un grande autore novecentesco esprime però un’intuizione folgorante sulla condizione dell’umanità contemporanea, tendenzialmente lontana da tale affidamento, attraverso la propria esperienza di sradicato dalla guerra, che rimpiange una fede lontana: “Quel contadino/ si affida alla medaglia/ di Sant’Antonio/ e va leggero//Ma ben sola e ben nuda/senza miraggio/ porto la mia anima” (Giuseppe Ungaretti, Peso, Mariano, 29 giugno 1916, in L’allegria, 1919). E tale condizione umana, dichiarata dal poeta, come si vede, è di disorientamento in un mondo che, pervaso di razionalità funzionale e tecnologica, migrando rapidamente dagli esperimenti totalitari del “secolo breve”, con le sue guerre, al transumanesimo strisciante dei nostri giorni, coi suoi ambivalenti miraggi, ha perso forza di gravità e direzionalità, assumendo potenzialità deflagranti e insieme prive di significato. O almeno di significato salvifico, che invece il contadino evocato nella poesia, in qualche modo, possedeva solidamente.

Col post-postmoderno abbiamo perso insomma la capacità di affidarci, diffidando scetticamente di ogni potenziale mediazione verso l’Altro, anche se poi quotidianamente ci affidiamo all’onda incerta e fluida dei sentimenti che variano, delle ambizioni che premono, delle merci che invadono, promettendo – queste sì – emancipazione e salvezza. La trascendenza si immanentizza in una volontà di potenza autoreferenziale e cieca, che vaga ormai in un vuoto ontologico attraversato solo da merci e pulsioni in libertà.

La sofferta maggiore età, conseguita dall’uomo contemporaneo attraverso un sindonico percorso di ricerca, nichilismo e dubbio metodico, ci ha condotto ad una situazione ibrida, dove vorremmo la verità, e pure non riusciamo più ad accettarla o conseguirla come qualche tempo fa, attraverso il ricorso ad una autorità certa e scontata, mentre esigiamo un’integrità di metodo che non ci corrompa con facili sconti o promesse, ma ci seduca piuttosto con la qualità alta ed esigente della proposta, della visione, di un sogno da perseguire.

Ecco perché tutte le grandi narrazioni sono crollate, ad eccezione di quella che postula lo splendore necessario del mercato attraverso la pubblicità che lo canonizza e magnifica. E si va integralmente sostituendo, per esempio, a quell’’arte che per secoli ha regalato all’Occidente il suo immaginario spirituale, ed ora è ridotta coi suoi algidi esercizi a feticcio per galleristi e opinionisti di tendenza, mentre impera nelle masse un immaginario plasmato mediaticamente dalla alienante reiterazione di spot che celebrano incessantemente il valore salvifico e catartico delle merci, e trasformano arte, vita, persino spiritualità, in merce.

Sideralmente lontana la medaglietta salvifica della poesia di Ungaretti, ma più in generale qualsiasi residua capacità di affidamento a una trascendenza, che le religioni, nel loro tentativo di promuovere l’esperienza spirituale negli esseri umani, hanno portato avanti per secoli, anzi millenni. Ed oggi, particolarmente per il cristianesimo, la crisi è generalizzata, non tanto come dato sociologico, ma come asse gnoseologico dirimente, e dunque difficilmente superabile, se non riguadagnando un paradigma epistemologico aperto e non precluso, ma che non potrà semplicemente coincidere con un ritorno al passato, e dovrà invece assumere le domande, le incertezze, lo smarrimento presente come occasione di maturazione e sviluppo. Siamo ancora capaci, entro tale contesto, di disporci ad accogliere rivelazioni di senso, all’ascolto dell’essere (Heidegger e Severino insegnano…), ad assumere la nostra situazionalità, e dunque l’interazione con l’altro, o vogliamo solo volere noi stessi, a prescindere, come insegna il narcisismo ontologico dominante?

Certamente, se sapremo aprirci un varco fra le merci, potremo scoprire nuovi modi di ascoltare e venerare l’essere, ma non sarebbe un buon approccio partire dalla tabula rasa delle conoscenze, dalla distruzione del patrimonio spirituale ricevuto, e dunque il perdurante indifferentismo gnoseologico e culturale, oltre che esistenziale, verso il canone delle grandi tradizioni religiose dell’umanità e, per quel che ci riguarda più da vicino, l’abbandono della simbologia e dell’immaginario che il cristianesimo ha donato alla nostra civiltà, di cui le nuove generazioni ignorano ormai contenuti e significati profondi, non può che confluire nella grande barbarie consumistica che è sotto gli occhi di tutti e impoverisce le nostre società e, soprattutto, i nostri giovani, spesso abitati da un immaginario venale ed effimero, certo non all’altezza, per esempio, di quello dei loro padri, che erano sì limitati dall’ideologia, ma attraversati almeno dal sogno e dall’utopia, dunque dalla visione di un altro mondo possibile e, in ciò, non alieni da una certa inconscia nostalgia per una qualche, sia pur indefinita, trascendenza.

Ma come approcciare oggi, in questo contesto liquido e venale, in questo indifferenziato e tragico vuoto postmoderno, dove l’unica logica a guidare è quella economica, lo straordinario, complesso mondo di quelle che ormai percepiamo come le molteplici rivelazioni, che ambiscono a un nuovo riconoscimento epocale ma che, purtroppo, ancora e troppo spesso premettono un esclusivismo gnoseologico che non facilita certo l’incontro, e anzi  alimenta la posizione scettica che intende mantenersi da esse ugualmente distante, proprio col pretesto che esse sarebbero inaffidabili e contraddittorie? Già Agostino però, austero Padre della Chiesa, parlava emblematicamente di una religione che è da sempre, mentre, in età contemporanea, il famoso teologo e presbitero Raimon Panikkar dichiarava provocatoriamente di rifiutarsi di appartenere a una setta che esiste da duemila anni, volendo con ciò sottolineare che il cristianesimo (e con esso la Chiesa) non nasce dal nulla, quasi come corpo estraneo, ma si inserisce in un lungo percorso di ricerca spirituale che coinvolge miliardi di esseri umani nel tempo e migliaia di religioni, rispetto a cui costituisce in qualche modo un compimento e un nuovo inizio. Dunque, cercando di rigorizzare il linguaggio, potremmo tentare di affrontare la questione distinguendo fra religione, esperienza universale e ampiamente condivisa, e fede o dottrina religiosa, espressa in molteplici variazioni di credo, culto, morale, ecc., esattamente come si parla di filosofia in quanto esperienza condivisa da chi la pratica, e di sistemi filosofici con contenuti assai diversi. Come nessuna persona sensata intende negare il valore della filosofia per la molteplicità dei sistemi che essa ha generato e che, anzi, arricchiscono la nostra esperienza della verità, così nessuno dovrebbe, a rigore, scoraggiarsi o irridere alla molteplicità delle dottrine esistenti, se esse vengono viste come un contributo alla virtuale esperienza dell’unico Dio, la cui ineffabile trascendenza giustificherebbe pienamente il fatto che a Lui ci si possa riferire in molteplici modi, proprio come alla verità possono contribuire diversi sistemi di pensiero.

Assodato il valore della molteplicità come arricchente l’esperienza umana del sacro, perché rivelativa della creatività dello Spirito, resta pur vero che, stanti i limiti della condizione umana, finita e collocata nel tempo e nello spazio, dunque contraddistinta da una determinata cultura e condizione storico-esistenziale, l’atteggiamento di chi vaga fra scuole e tradizioni spirituali alla ricerca di epidermiche novità e stimolanti sollecitazioni rischia di rivelarsi insoddisfacente, esattamente come per quanti, volendo imparare più lingue, non procedano mai oltre il livello elementare della loro conoscenza. Appare invece ordinariamente come un segnale di prudenza gnoseologica e di saggezza esistenziale approfondire in modo adeguato la lingua, la tradizione, il contesto che la vita ci ha assegnato, solo a partire dal quale possiamo sperare di cogliere un senso che ci riguardi radicalmente e coinvolga l’intera nostra esperienza.

Ma approfondire non vuol dire eludere, ignorare, evitare gli snodi faticosi e impegnativi della maturazione che, soprattutto in ambito spirituale, non ammette la possibilità di barare se non a prezzo della nostra autenticità e integrità profonde, della nostra stessa credibilità agli occhi di noi stessi.

Dunque procediamo ad una sia pur minima ricognizione del contesto in cui oggi di fatto si colloca la nostra esperienza spirituale, al fine di verificarne condizionamenti, opportunità e prospettive eventualmente nuove, che possano generare esigenze gnoseologiche, cognitive, ma anche etiche, relativamente alle modalità di assunzione della nozione di sacro che ci accompagna da almeno due millenni.

Le nostre attuali conoscenze astrofisiche, per esempio, ci permettono di stabilire che 13,7 miliardi di anni fa avrebbe avuto luogo il big bang che segna la nascita dell’Universo o, piuttosto, l’inizio della sua espansione tramite la nascita dello spaziotempo. Se ci vogliamo poi concentrare sulla nostra piccola terra, essa si formò 9,2 miliardi di anni dopo il Big Bang, e quindi la sua età corrisponde a 4,5 miliardi di anni, circa un terzo dell’età dell’universo. Quattro milioni di anni fa sul pianeta compaiono i nostri antenati diretti, gli australopitechi, mentre 500.000 anni fa fanno la loro comparsa i Neanderthal e, 200.000 anni or sono, finalmente appare la nostra specie, o Homo sapiens, che inizia ad espandersi in Africa.

Ora, se pensiamo che ancora il grande fisico e filosofo Blaise Pascal, nel ’600, aveva a disposizione una esegesi biblica che gli datava l’esistenza di Adamo ed Eva a qualche migliaio di anni prima di Cristo, e che all’epoca non era peraltro ancora apparsa all’orizzonte una qualunque metodologia storico-critica nello studio del testo sacro, oggi pienamente avallata dallo stesso magistero ecclesiastico, ci rendiamo conto di come i nostri tempi esigano ora più che mai la maturazione di una spiritualità che della complessità acquisita – peraltro non solo scientifica, ma anche speculativa – tenga conto, considerandola non un fastidioso impedimento, ma piuttosto una preziosa opportunità per consentire l’uscita da uno stato di minorità che caratterizza purtroppo ancor oggi tanti fedeli, ma anche osservatori, la cui formazione religiosa si ferma ad un livello elementare, mentre i ministri eludono un’ermeneutica teologica adeguata alle esigenze di una maggiore età spirituale, ormai inevitabile.

Esiste una processualità storica che è il luogo fenomenologico dell’accadere della verità, e dunque anche della manifestazione dello Spirito, che non può essere elusa se non a prezzo di un tradimento e di una fuga, e la cui meta sembra straordinariamente evocata dalla scena finale di un film metafisico e struggente come “2001 Odissea nello spazio” (1968) di Stanley Kubrick, dove un feto cosmico, una sorta di Bambino delle Stelle, fluttua liberamente nello spazio, probabile indizio che l’astronauta protagonista del film sia approdato a una forma di vita e di consapevolezza superiore, intuibile come destino dell’evoluzione universale. Si è parlato di Nietzsche o di un film hegeliano, ma certamente qui siamo di fronte anche a una reinterpretazione del tema della nascita, assimilabile, per certi versi, all’ambito della natività cristiana, ove quel Bambino delle Stelle potrebbe evocare una sorta di Cristo cosmico come meta della storia universale, in cui sembrerebbero convergere le singole esistenze uscendo dallo spazio-tempo e approdando al senso complessivo del tutto, finalmente assunto in una forma di totale assimilazione e beatitudine.

Ed è tale processualità, di cui facciamo quotidianamente esperienza, che ci impone l’ascolto e l’accoglienza delle sue potenzialità rivelative, anche se non ci esonera ed anzi esige il paziente discernimento razionale e l’affinamento delle nostre capacità interpretative, per renderci sempre più capaci e degni di manifestazione e testimonianza della verità che in essa si dà, ma che deve essere riconosciuta per dispiegare in pienezza tutta la propria efficacia.

La filosofia della religione, in questo senso, potrebbe costituire una condizione privilegiata di approfondimento delle modalità con cui tale verità può darsi, e andrebbe frequentata con più familiarità di quanto non accada oggi anche fra addetti ai lavori, teologi e filosofi in genere.

Il primo a intuire l’enorme potenzialità del rapporto fra razionalità ed esperienza religiosa fu Tommaso d’Aquino che, assistendo nel XIII secolo a uno scontro aspro e frontale fra la cultura pre-cristiana di Aristotele (di cui erano appena state scoperte molte opere), con la sua radicale razionalità, e la cultura cristiana di derivazione agostiniana, che si era affermata nel Medioevo, avallò il pensiero dello Stagirita e dunque l’approccio in qualche modo laico alla conoscenza, mostrandone tuttavia la congruità e la compatibilità con i contenuti della rivelazione cristiana, inaugurando un proficuo metodo di collaborazione tra ragione naturale e fede religiosa, che sarebbe divenuto, entro la Chiesa cattolica, un modello epistemologico paradigmatico, rifiorito nella Neoscolastica novecentesca e additato dallo stesso Giovanni Paolo II come riferimento ideale per l’insuperabile equilibrio in esso realizzato fra istanze della ragione e istanze della fede.

Naturalmente, la riflessione di Tommaso, uomo del Medioevo anche se del suo periodo più aureo, prende in considerazione lo specifico della rivelazione cristiana, ma è sintomatico che, in parallelo, nel mondo arabo ed ebraico si fossero sviluppate analoghe riflessioni sul rapporto tra fede e ragione, generando specularmente una Filosofia Scolastica entro l’islam ed una entro l’ebraismo, a testimonianza che l’esigenza di consapevolezza razionale relativamente ai contenuti dell’esperienza religiosa era diffusa e interconfessionale

Diverse sono le condizioni per il soggettivismo moderno che, nato con Cartesio, trova il suo acme nel criticismo kantiano e nell’idealismo tedesco, per esempio di Fichte che ne è l’iniziatore. In essi la domanda sulla possibilità e sulle condizioni della rivelazione – e, per conseguenza, della fede – si pone a partire da una soggettività la cui principale preoccupazione è di trovare dentro di sé le condizioni di credibilità di tale eventuale rivelazione, essendo divenuto pressoché impossibile trascendere l’ordine di tale soggettività o coscienza, trascendentale o assoluta che sia, la quale può legittimamente sperare di validare una comunicazione, sia pure divina, solo rintracciando appunto in sé le condizioni di validità di tale comunicazione, ovvero la sua corrispondenza alle esigenze dell’imperativo morale (per Kant) e della razionalità pratica (per Fichte).

Comunque entrambi, Kant e Fichte, a cavallo fra Sette e Ottocento avevano poste solide basi per una riflessione critica ed insieme empatica del fenomeno religioso. Perché, a fronte della sua universalità ma, anche, della specificità che esso assume nelle singole esperienze spirituali, ed in particolare, per esempio, nell’ambito storico della rivelazione cristiana, essi si sono posti, in tempi nei quali occorreva coraggio per farlo, il problema della attendibilità e opportunità di una eventuale rivelazione divina, insomma si sono interrogati sullo statuto epistemologico di una categoria che suscita, di solito, più che altro reazioni viscerali e affettive, pro o contro, a seconda che si appartenga alla categoria degli scettici o dei credenti.

Kant, in “La religione entro i limiti della semplice ragione” (1792-3)  , si chiede –  a partire dalla propria concezione etica, che affermava il postulato dell’esistenza di Dio, insieme a quello della libertà e dell’esistenza dell’anima, come  essenziale all’agire morale (garantirebbe la necessaria perfetta proporzione fra virtù e felicità nell’aldilà) – se la religione razionale che l’uomo coglie grazie alle esigenze dell’agire morale, possa ad un certo punto incontrarsi e coesistere, o integrarsi, con una rivelazione storica come, di fatto, è quella cristiana. E la risposta è affermativa, laddove egli sostiene che tale rivelazione può storicamente facilitare ed estendere ciò che potrebbe essere altrimenti più difficilmente o lentamente acquisito mediante sola ragione, anche se è questa, alla fine, a dover riconoscere come vero, ossia congruente alla ragione stessa, i suoi contenuti.

Anche Fichte sembra concordare con tale assunto, come sottolinea uno studio di Federico Ferraguto: “La… funzione [della rivelazione] è quella di spingere alla religione quando gli strumenti della sola ragione non risultano essere sufficienti. E questo spiega anche la trattazione dei criteri che permettono di stabilire la legittimità di una rivelazione, di cui Fichte si occupa nella seconda parte del Saggio e secondo i quali la rivelazione […] può essere effettivamente divina se il principio che essa rappresenta concorda con quello della ragione pratica e lo manifesta secondo massime morali derivate da quest’ultima” (Natura e rivelazione, il concetto di fine nel saggio di una critica di ogni rivelazione di J.G. Fichte. Una rilettura fichtiana di Kant, pp.23-24, in Estudos kantianos, 2016).

Riassumendo, vi è una razionalità originaria e vi è una processualità storica, il cui accadere apre modalità di accesso alla verità, che vanno tuttavia sempre strutturalmente vagliate da tale razionalità originaria, tanto che nessun processo storico singolare acquisisce il suo senso compiuto e attuale se non risulta attraversato dalla consapevolezza, e dunque dalla libertà a cui dispone tale razionalità. Anche un assenso di fede, in ultimo, non può che poggiare su un’evidenza che non contraddice, ma se mai completa ed estende quanto presagito dalla ragione.

Ancora una volta, ciò che una rivelazione propone la ragione riconosce come autentico e mediante tale sigillo, che ha una assoluta priorità ontologica sul dato storico, si afferma un’esperienza salvifica, che può far leva solo sul riconoscimento dell’universale nel particolare, e non ha da fermarsi alla semplice e fanatica affermazione del particolare per il particolare. In certo qual modo, occorre sempre superare la singolarità del dato per addivenire, anche nella Scrittura, alla razionalità=universalità di essa.

E questo, è sotteso, vale per ogni rivelazione e per ogni scrittura, per cui andiamo a chiederci se, posto tale metodo come ordinario, non si avrebbe di fatto una più illuminante possibilità ermeneutica nell’accostare i testi sacri di religioni diverse dalla propria, ma anche i testi dei filosofi, le opere visive e musicali, persino le più varie condizioni esistenziali e la stessa biodiversità… E se, posto tale metodo, non se ne avrebbe un’esperienza di fioritura e dialogo delle differenze, di danza della molteplicità, di giustizia e caritas, di compassione e libertà. E ci si chiede se, poste tali premesse, non si potrebbe finalmente distinguere, in pace ed equilibrio gnoseologico, fra religione, come universale disposizione a celebrare il fondamento del tutto, e dottrine come articolazione linguistico-categoriale di tale disposizione. Di più, ci si chiede se non vada, in ultimo, riconosciuta priorità assoluta alla declinazione personale di tale esigenza, alle infinite variazioni che essa assume in ogni vita, sotto forma di spiritualità specifica, concreta e quotidiana.

E dunque, soprattutto, ci si chiede se tale riconoscimento ermeneutico non vada tributato in primis proprio all’intrinseco valore religioso di ogni vita, che dunque, a prescindere dallo specifico riferimento a dottrine religiose, o anche ad una virtuale religione razionale, affermerebbe tale valore, per esempio, attraverso la disciplina dell’arte, della musica, della poesia, della filosofia, delle scienze, delle tecniche o, più in generale, dell’esistenza stessa… Infatti, non sembra rinviare a volte in una forma più integra e pura all’idea del sacro una vita integralmente dedicata al valore della bellezza nell’arte, della verità nella filosofia, del bene in politica, o della dedizione negli affetti, piuttosto che una pedissequa affermazione di fede e adesione religiosa a un credo, che rimanesse confinata all’ambito di un conformismo ipocrita, o semplicemente puerile?

A tal proposito, vorrei citare una splendida dichiarazione agli artisti formulata il 7 maggio 1964 da Paolo VI: “Vi abbiamo fatto tribolare perché vi abbiamo imposto come canone prima l’imitazione, a voi che siete creatori, sempre vivaci, zampillanti di mille idee e di mille novità. Noi abbiamo questo stile, bisogna adeguarvisi; noi abbiamo questa tradizione, e bisogna esservi fedeli; noi abbiamo questi maestri, e bisogna seguirli; noi abbiamo questi canoni, e non v’è via d’uscita. Vi abbiamo talvolta messo una cappa di piombo addosso, possiamo dirlo; perdonateci!”.  Sono certo che si potrebbero applicare oggi le profetiche parole di rammarico che il grande pontefice riferiva al rapporto tra religione istituzionale e arte anche al rapporto fra religione istituzionale e immense potenzialità della vita concreta nelle persone, così spesso disattese da molti professionisti della fede.

In “Sacro contemporaneo. Dialoghi sull’arte”, splendida antologia di incontri con artisti ed esperti d’arte realizzata da Michela Beatrice Ferri per le Edizioni Ancora (2016), da cui ho tratto la citazione di sopra, trovo anche questa bella riflessione di don Giuliano Zanchi, Direttore del Museo Bernareggi e del Museo e Tesoro della Cattedrale di Bergamo, a proposito dell’artista contemporaneo Claudio Parmiggiani, che si occupa di assenza, attesa, memoria, e condensa la propria poetica nell’emblematico scritto “Una fede in niente ma totale” (Le Lettere, 2010): “Quello di Parmiggiani è un modo di concepire l’arte che tocca esperienze elementari dell’essere umano, laddove l’uomo è messo di fronte al proprio insolubile enigma, dove quindi il sentimento di tutto quello che è sacro si ravviva quasi impetuosamente. In questo senso è un’arte che tocca il sacro. Non è però l’arte sacra che hanno in mente i cultori del figurativismo religioso. Si tratta proprio di un piano completamente diverso. Per parte mia devo dire che c’è molta più intensità e molta più verità religiosa nell’arte di Parmiggiani che in tanto didascalismo dottrinale della tanto amata arte sacra di matrice tridentina”.

Ed io potrei aggiungere la medesima cosa, a proposito dei luoghi letterari del nichilismo contemporaneo o del rock storico più eversivo, rispetto allo scenario edulcorato e rassicurante di molta iconografia religiosa contemporanea.

È allora evidente che, se ogni vita è rivelazione, familiarizzare con i diversi ambiti culturali che le abitano è procedere a una ermeneutica che dilaterà immensamente i nostri orizzonti spirituali e, anche se la limitatezza spazio-temporale ci impone, ma io direi, suggerisce, di circoscrivere la nostra indagine e di assumere con fedeltà un proprio linguaggio, la virtuale intima disponibilità ad accogliere la totalità nella sua cangiante molteplicità finirà con l’arricchire immensamente il nostro cosmo semantico all’insegna di dialogo, relazione, scambio e approccio polifonico dalle immense ricadute.

Vi sono vite in cui prevalgono valori biologici, altre in cui si perseguono quelli economici, per alcuni la dimensione psicologica ed il suo benessere sono centrali, per altri i valori estetici guidano un’esistenza alla ricerca della bellezza, per esempio nell’arte, per altri ancora prevale il senso di giustizia e l’azione politica diviene il modo per affermarla, in qualcuno il senso del bene produce atti di servizio e volontariato gratuito nei confronti del prossimo, altri poi sono orientati a perseguire valori spirituali legati al rapporto con Dio e alla propria unione con lui. Non siamo obbligati a parlare di equivalenza dei valori, ma di coesistenza e integrazione, e dobbiamo comprendere che se le circostanze della vita conducono a priorità diverse, in ogni vita è tuttavia presente il desiderio di trascendere se stessa e, sia che ciò accada con un figlio, con un’attività pratica, con la creatività artistica, la speculazione filosofica, la dedizione o la lotta per una qualche giusta causa, ebbene il sacro è lì che abita questa tensione, questo orientamento al di là di noi stessi, questo sacrificio della nostra vita sull’altare di quanto ci trascende e la trascende, e che, per chi vuole, si può chiamare col nome di Dio. “Dimmi che Dio hai e ti dirò chi sei”, chiosava Goethe a proposito del senso religioso, affermando provocatoriamente che l’Assoluto ci abita da sempre, anche quando non lo riconosciamo come tale.

Certo, esistono molti stimoli, input, suggestioni ed esperienze che di tale Assoluto parlano, esplicitamente o implicitamente, ed è congruente al nostro vivere su questa terra interrogarci e guardarci attorno, riflettere e studiare, ma anche, come voleva Confucio, partecipare ai riti e alle relazioni sociali di amicizia e cooperazione. Se ci piace imparare le lingue, sarà almeno ugualmente interessante studiare il tracciato delle grandi esperienze spirituali (in cui la Parola a vario titolo si deposita) che hanno accompagnato l’umanità nella sua ricerca di senso e di valore. Di più, sarà illuminante approfondire il tracciato che la nostra esperienza spirituale (con la sua Parola specifica) ci ha consegnato, per coglierne il senso destinale e vocazionale unico e irripetibile.

(da Claudio Sottocornola, Così vicino, così lontano, Velar 2023, pp. 77-99, sintesi)