Un capodanno

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MANUELA ZANOTTI

Era stato il capodanno dell’’87 o dell’88, quando passai l’unica notte in un rifugio in montagna. Si trattava del “mio rifugio” ossia del rifugio Zanotti… di mio, però, c’era solo il nome, perché intitolato ad un alpinista genovese, Ervedo Zanotti, ma nessun legame di parentela, solo semplice omonimia!
La mia vita sociale in quegli anni non era molto intensa, un po’ per la mia difficoltà a condividere interessi con i coetanei, un po’ perché studiando a Genova  e stando lì dalla domenica sera al venerdì pomeriggio, era difficile mantenere relazioni con i compagni di Mondovì, in quanto quasi tutti a studiare a Torino.
Nonostante questo, nell’ambiente parrocchiale ero restata legata ad un gruppo di giovani con cui condividevamo  anche un’esperienza di fede. E li conoscevo ormai da molti anni.
Il mio punto di riferimento era Emanuela, e quella notte di capodanno saremmo dovuti essere più di una ventina, ma alla fine, al rifugio, c’eravamo trovati solo in otto, colpa, credo, delle influenze stagionali e forse di defezioni più impreviste, dato il numero di provviste che c’eravamo portati dietro.
Con Emanuela c’era Eugenio, il suo ragazzo, Anna con il suo (di cui non ricordo il nome), Fabrizio, Francesco, che conoscevo da anni e Giovanni che invece avevo conosciuto solo poco tempo prima.
Con Eugenio, Emanuela  e Francesco, eravamo stati i primi a partire, gli altri ci avrebbero raggiunti dopo.
Ed eccoci con le pelli di foca a salire lungo la stradina di fondovalle, piuttosto lunga.  Eugenio  e Francesco con cinghie legate a vita si trascinavano anche una slitta dov’erano state caricate tutte le provviste per il cenone, previste per un numero ancora  abbastanza elevato di commensali.
Emanuela ed io era già tanto se ci portavamo su noi con il nostro zaino…
Ah, dimenticavo un quinto personaggio, che si era aggiunto alla piccola comitiva: un cagnolino bianco e nero, che credo si fosse investito del ruolo di guida alpina, essendo solito accompagnare gli escursionisti al rifugio per guadagnarsi un pasto, ed aveva trovato la compagnia giusta, forse annusando il contenuto dei bagagli sistemati sulla slitta.
Si incontravano infatti altri escursionisti con le pelli di foca, anche di Mondovì, tra cui Sergio, amico e spesso compagno di gita di mio padre. Sergio era diretto da un’altra parte, così le nostre strade si erano presto divise.
Però non prima che Sergio, con fare serio ci avesse detto “nevicherà, e state all’occhio che domattina se non scendete giù presto, rimarrete lassù!
Anche Eugenio, molto ponderato nel dare giudizi, non appena si era allontanato, gli aveva dato del menagramo!
Era una bella giornata di sole, splendida, in cielo neppure un’ombra di nuvola, anche se nel vallone era l’ombra a dominare, e il rio, che scendeva tra conifere e rocce appena ricoperte dai resti di un’avara nevicata, era completamente ghiacciato.
I nostri sci scricchiolavano sulla neve compatta, la slitta ci accompagnava con il suo fruscio stridente da pattinata sul ghiaccio, il cagnolino zampettava su e giù come se volesse insegnarci la strada.
Ricordo che, dopo molto marciare, il vallone  si era aperto verso un ventaglio di cime, rocce, guglie, e pendii abbastanza innevati da poter discendere al ritorno  con gli sci.
Avevo al mio palmares solo un paio di gite sci-alpinistiche, quindi ero meno che una principiante, ma le condizioni climatiche di quell’inverno, che sembrava quasi  primavera inoltrata, con la poca neve scesa, ormai assestata, permetteva un’esperienza sicura in quella stagione a chiunque fosse capace a cavarsela discretamente in pista. Ed io, in condizioni di neve normale,  ero in grado di scendere da qualunque pista.
Eugenio era invece  un appassionato di montagna.
Sta di fatto che  Emanuela ed io non avevamo neppure molto allenamento a marciare in salita con il peso di sci, zaino e scarponi, e poi la slitta era pesante anche per due ragazzi come Francesco ed Eugenio.
Dovemmo  così fare diverse soste per rifocillarci. Ricordo che c’eravamo fermati accanto a pietre già scaldate dal sole a bere del the caldo e mangiare qualcosa di energetico. A questa sosta, la più lunga, associo una strana sensazione certamente dovuta all’altitudine e alla fatica (ovviamente paragonata al mio modestissimo grado di preparazione). Le orecchie mi fischiavano e in questo fischiare mi sembrava persino di percepire eteree voci e suoni, quasi mi fossi trovata al posto delle orecchie delle antenne capaci di captare qualche onda radio…
Il paesaggio era però superbo, dominato da bastionate di montagne altissime e, in proporzione alle mie forze, simili ad irraggiungibili vette himalayane. Si scorgeva anche il tracciato di un’altissima ed ardita strada militare: conduceva a qualche colle che già avevo sentito nominare da mio padre.
Mi veniva allora in mente un brano che talvolta si cantava la domenica alla Messa che diceva pressapoco così: “…non temerò i dardi, non temerò le fiere, passerò i forti e le frontiere…”
Su quelle cime passava la frontiera, che era poi solo quella con la Francia, ma mi pareva di essere ai confini del mondo conosciuto; Eugenio e Francesco facevano il nome di altri rifugi, che suonavano come luoghi epici, quanto irraggiungibili!
E sopra tutto, il cielo, azzurro e luminoso, intatto, se non appena disegnato dei neri voli dei rapaci (…lassù, dove osano le aquile…) o dalla bianca scia di un aereo.
Ma quale neve? Certo che Sergio era peggio di Nostradamus!
Comunque, l’arrivare al più accessibile rifugio Zanotti, per me fu un’impresa abbastanza impegnativa che già aveva il sapore dell’avventura e vi arrivammo solo nel tardo pomeriggio, perciò anche il pranzo era stato fatto ‘in itinere’.
Non ricordo quando fummo raggiunti dagli altri amici, ma mi pare ormai  al rifugio, di cui noi avevamo le chiavi…e la guida a quattro zampe.
Resta ancora vivo il piacere di entrare tra quelle quattro mura in cui sembrava di essere tornati indietro nel tempo, a quando quei monti erano abitati, accendere la stufa  e sentirne il tepore che  piano piano avvolgeva ogni cosa.
A quei tempi, il rifugio era molto modesto, con il semplice riscaldamento della stufa a legna e la protezione delle spesse pareti un po’ annerite dal fumo e ritagliate appena da piccole finestrelle quadrate. Non ricordo se ci fosse anche una stufa a gas per poter cucinare, ma rammento le molte pentole piuttosto datate ma ben pulite, le stoviglie, di certo non di porcellana, ma semplici piatti e bicchieri spaiati e un po’ sbeccati. Idem per le posate. C’erano anche modeste riserve di the, caffè, zucchero, sale, olio, quel poco che serviva per cucinare, che qualcuno aveva lasciato in dono a chi sarebbe salito dopo di lui, oltre a  semplici attrezzi da cucina come apriscatole, cavatappi, colini, passatutto, mestoli vari, cucchiaioni, forchettoni, scolapasta, caffettiere…
Intanto il sole invernale aveva abbandonato via via la valle, lasciando il posto alle ombre fredde del crepuscolo. E intorno era sceso il silenzio. Gli altri escursionisti avevano ormai preso la via del ritorno.
Stanchi della lunga camminata, mentre il sole era andato a coricarsi dietro una di quelle cime inviolate come l’Everest, in una grossa pentola di alluminio in dotazione al rifugio, l’acqua già stava bollendo in attesa dei ravioli al plin che Eugenio e Francesco si erano camalati  fin lassù.
Come ho detto, c’eravamo ritrovati solo in otto con l’occorrente per un cenone da venticinque-trenta! Tra l’altro non esistevano ancora i cellulari, quindi che alcuni non sarebbero venuti lo sapevamo solo tramite il passaparola.  Così, di tanto in tanto, qualcuno  si affacciava sulla porta del rifugio a scrutare nella sera incombente che ormai si stava rapprendendo nel gelo, se  fosse ancora in arrivo qualche peregrina sagoma umana.
Intanto il nostro cagnolino gironzolava per la cucina dal pavimento in cemento punzonato usmando cosa bollisse in pentola.
In un pentolino un po’ ammaccato bolliva il sugo già preparato da qualche madre solerte e in un’altra pentola si stava scaldando il secondo, anche questo già preparato, forse un arrosto o qualcosa di simile.
C’era pane  in abbondanza e il nostro accompagnatore si stava già gustando un filone di rubatà e poi c’erano formaggi e salumi. C’era, se ben ricordo, anche della salsiccia e questo mi fa pensare anche alla polenta…
Alla fine, ci sedemmo in otto ad un rustico tavolo, sotto la luce di una lampada a gas, soli per chilometri e chilometri di valli e di montagne ormai illuminate dalla luna e dal lucore della neve: un’esperienza bellissima che però aveva un inconveniente…
Il rifugio aveva un servizio igienico molto, ma molto spartano, ossia un lavandino con una “turca”, ma era inagibile perché l’acqua, gelando, aveva spaccato le tubature, così per certe necessità eravamo dovuti andar fuori, al freddo e al gelo.
A parte questo, ricordo con piacere questa mia unica esperienza di notte al rifugio.
Al di là di un tramezzo in legno c’era il dormitorio, una stanzetta dall’impiantito in legno, occupata da una finestrella e da due pianali,  pure questi in legno,  sovrapposti, che ospitavano ciascuno otto o nove materassi con cuscini, e parecchie coperte militari.
Ovviamente c’eravamo coricati mezzi vestiti, posando solo i pantaloni da sci e le giacche a vento. Un po’ di tepore arrivava dalle braci ancora accese della stufa, il resto dal riscaldamento reciproco, stando “vicini vicini”.
Nel mio zaino avevo qualche indumento di ricambio, una federa e forse il necessaire per la toeletta e per l’igiene personale, che, viste le condizioni del primitivo servizio igienico erano solo state un se pur piccolo peso inutile da portarmi dietro.
Poi, non avendo con gli altri la confidenza di chi condivide la propria vita, per un certo residuo di cittadina riservatezza avevo scelto il giaciglio contro la parete, mentre a fianco avevo Emanuela, ed avevo fatto male, perché quello era il punto più freddo, avendo il calore della “stufa umana” solo da un lato.
Il risveglio era però stato allietato dal profumo del caffè che borbottava nella vecchia caffettiera, poi c’eravamo preparati, avevamo pulito e riordinato il rifugio, lasciando anche noi qualcosa che potesse conservarsi e tornare utile ai prossimi ospiti.
Sergio, pur tacciato per “menagramo”, aveva infatti avuto ragione perché parecchie nuvole cariche di neve, dalle cime più alte che segnavano il confine con la Francia,  si stavano affacciando nel vallone.  Così eravamo partiti, un po’ di fretta, con i più esperti che ci aiutavano a superare i tratti più difficili, sempre assieme al nostro fedele compagno e guida dalla coda a cavatappi.
Anche la discesa era stata lunga, almeno la ricordo tale, perché mi riaffiora il ricordo, ormai pomeridiano,  del lungo stradino che, se all’andata era stato meno faticoso perché quasi in piano, ora ci costringeva spingere con le racchette.
Ma mi sentivo felice!
Le nubi si erano fermate in alto e lì, nel basso del vallone, c’era un sole quasi primaverile  che, con il verde e il profumo aromatico delle conifere, mi dava una sensazione di  bella stagione e perché no, se pur vagamente, anche di mare. Quello era al di là dello spartiacque, verso la Liguria e la Costa Azzurra, lontane,  ma che quei profumi facevano presagire. Se lassù avevamo lasciato il pieno inverno, qui dominava nuovamente  la primavera e, accarezzate dal sole, le conifere stillavano gocce profumate di disgelo, il torrente gorgogliava come risvegliato e anche gli uccelli cinguettavano intorno ai loro nidi. La neve e il gelo erano restati lassù, dove si erano addensate le nuvole e noi godevamo di quella tregua, col piacere dello scampato pericolo.
Il cagnolino ci aveva seguiti fedele fino alle nostre auto. Si era guadagnato non solo la pagnotta ma pure il cenone di capodanno…e la slitta al ritorno era stata ancora piuttosto pesante!
Così ci ritrovammo due sere dopo a Pianvignale, a casa di Eugenio, per finire le provviste  che avevamo scarrozzato fino più di 2000 metri. Quella sera eravamo quasi una ventina. Dai pacchi e pacchetti erano usciti  anche squisiti cioccolatini artigianali decorati con vari tipi di frutta secca, ed altre prelibatezze.
Poi, godendo della calda comodità del tardo ventesimo secolo, facemmo le cinque del mattino giocando a Trivial, con il sottofondo  di  ‘The Alan Parson Project’

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(fotografie di Gabriella Mongardi)