Gaber indimenticato

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SILVIA PIO

Giorgio Gaber ha fatto parte della mia educazione, non tanto politica quanto sentimentale. Me lo fece conoscere il ragazzo con cui uscivo, mettendo senza sosta le sue opere nel mangiacassette dell’auto. Quando volle farmi capire che era finita, fece suonare Lona: «non lo vedi che mi ami troppo, che mi ami male». Non avevo ancora compiuto diciott’anni.

Poi andai agli spettacoli: “Libertà obbligatoria”, “Polli d’allevamento”, “Anni affollati”, “Il caso di Alessandro e Maria”, con Mariangela Melato (del quale conservo il libretto) e nel frattempo mi ascoltai tutte le opere precedenti.

Gli spettacoli lasciavano un’impressione strana. Lui sul palco – una forza della natura – spesso lanciava accuse violente alla classe sociale che gli stava proprio davanti, la borghesia bene e i radical chic. Non si capiva come mai fosse così apprezzato proprio da loro, mentre di studenti e operai ne vedevo pochi nei teatri di provincia. Ma, si sa, la provincia non fa testo.

Ricordo le sue comparse degli inizi alla TV in bianco e nero, ma erano soprattutto le musicassette che ascoltavo e riascoltavo. Ne avevo una vecchia, del Gaber anni Sessanta, poi “Il Giorgio e la Maria”, con Maria Monti, “Il Signor G”, “Dialogo tra un impegnato e un non so”, “Far finta di essere sani”, “Anche per oggi non si vola”…

Preferivo quelle che consideravo le canzoni più intimiste, anche se pensavo che il personale fosse politico e che Gaber fosse politicissimo (bisognerebbe però approfondire cosa si intende con queste espressioni). Lona, appunto, L’illogica allegria, Far finta di essere sani. Alcune frasi tornano in mente anche ora; oltre a non lo vedi che mi ami troppo, ad ogni elezione canto tra me e guardi ancora la matita così perfetta e temperata (Le elezioni); noi buttavamo tutto in aria (I reduci); Quando si è un po’ filosofi non si sogna mai a caso (Il sogno di Marx e il sogno di Gesù); La strada è l’unica salvezza (C’è solo la strada).

Negli anni Novanta smisi di ascoltare musica, quindi mi persi il resto.

“Libertà obbligatoria” è rimasta per me un’opera profetica. Nei tempi dove si rivendicava di essere totalmente liberi e ogni desiderio diventava un diritto, Gaber ebbe il coraggio di prendere una posizione controcorrente. Ecco il finale dello spettacolo:

«Ogni epoca ha le sue malattie, mio zio, ricorda sempre la Spagnola, travolgente drammatica violenta, adattissima agli umori umani del suo tempo. Si potrebbe studiare la storia dal linguaggio delle malattie. E poi la tisi, il mal sottile, che colpiva deliziosamente un’umanità romantica illanguidita, attaccata alle tende.
Si muore come si deve, l’epoca lo esige, l’importante, è opporsi alle malattie, l’importante è non invecchiare. Essere vecchi, significa non trovare più una parte eccitante fisica da interpretare, e cadere in quello stupido riposo in cui si aspetta la morte.
Non l’abbiamo mica rubato il gusto di vivere, ci spetta di diritto, ma forse non basta più difenderlo, con la pentola che bolle, con la libertà, col potere all’immaginazione.
È come se si sentisse il bisogno, di un rigore, a scanso di equivoci, da inventare ogni giorno, non un poliziotto, no, ma…un guardiano di me stesso, la libertà di non essere liberi.
E ora? Ai miei amici che gli racconto? Si ai renudi, ai gesùliberi, agli erbivoglio, a libertà uno due tre quattro, ma che gli racconto? Io, che sono sempre stato d’accordo che si può far tutto…»

Il  1° gennaio 2024 andrà in onda su Rai 3 il documentario scritto e diretto da Riccardo Milani, Io, noi e Gaber, dedicato all’artista nell’anniversario della sua scomparsa, avvenuta nel 2003, che ripercorre la vita e la carriera del musicista.

https://www.giorgiogaber.it/

L’immagine di copertina è un fotogramma del video che si riferisce alla maratona di filmati dell’anno scorso per i vent’anni dalla scomparsa.