La trascendenza ermeneutica come prospettiva spirituale

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CLAUDIO SOTTOCORNOLA

Mi appresto ad iniziare questa riflessione in giorni resi incandescenti per il mondo islamico dal gesto provocatorio e profondamente irrispettoso (così l’ha definito il primo ministro svedese Ulf Kristersson) di un estremista di destra, Rasmus Paludan, che ha bruciato una copia del Corano in un sit-in davanti all’ambasciata turca di Stoccolma, provocando la reazione sdegnata del governo turco (con il conseguente annullamento della visita del ministro della Difesa svedese Pal Jonson ad Ankara, prevista per il 27 gennaio, ideata per stemperare la posizione della Turchia che si era opposta all’entrata della Svezia nella Nato) e di tutti i governi dei Paesi Arabi, dalla Giordania al Pakistan, dal Kuwait agli Emirati Arabi Uniti, dall’Arabia Saudita all’Iran, ma soprattutto innescando un’ondata di manifestazioni di massa nel mondo musulmano, evidentemente esasperato dall’azione del facinoroso estremista e da altre simili.

Ammetto tuttavia che, ogni volta che assisto a manifestazioni dimostrative o di massa ove i simboli religiosi sono utilizzati politicamente, come strumento di appartenenza identitaria e rivendicativa, spesso in contrapposizione ad altre appartenenze identitarie, e tutto questo ha luogo, in qualche misura, nel nome di Dio e della sua verità, stride in me fortemente la percezione che, invece, ciò che si va affermando è il carattere assoluto della propria appartenenza identitaria, fondamentalmente la divinizzazione di tale appartenenza, ovvero l’assolutizzazione del proprio gruppo, che diviene distopicamente modello di riferimento totalitario, virtualmente orientato all’assimilazione del diverso e dell’altro da sé in un riduzionismo cannibalesco. In pratica si ha l’equazione Dio=Io collettivo di appartenenza che Lo possiede. Tutto questo non accade ovviamente solo in ambito islamico e islamofobo ma, per esempio, anche in quell’integralismo cristiano che, cattolico o evangelico che sia, rivendica posizioni sociali o giuridiche (ad esempio, pro vita, pro family o pro nazione) bardato strumentalmente di tutto l’armamentario dei propri simboli religiosi, Bibbia, icone cristiche e mariane, nel contesto di azioni e manifestazioni con chiare finalità politiche spesso a vocazione esclusivista, ove cioè l’altro è una minaccia da eliminare, un errore da emendare o un inferiore da assimilare. Le reiterate benedizioni del patriarca Kirill di Mosca alla feroce guerra putiniana, nel nome di una sorta di magica ed estetizzante purezza nazionale russo-ortodossa che si imponga e assimili l’errante Ucraina filoccidentale, sono una ulteriore dimostrazione di un utilizzo strumentale del sacro, di cui ci si appropria come di un territorio su cui issare alla fine la propria misera bandierina identitaria. Intanto, la terra che ha germinato storicamente i monoteismi ebraico, cristiano e islamico, che dovrebbero abramiticamente riconoscersi come fratelli (ricordate l’emblematica parabola “Nathan il saggio” dell’illuminista Lessing?) vive ormai da tempo immemorabile quel conflitto sanguinoso fra lo stato di Israele e il popolo palestinese che domina le cronache e l’immaginario di un’intera generazione, senza minimamente accennare a scemare. Non è però che in altre parti del mondo le cose vadano meglio: la condizione della minoranza musulmana Rohingya nel Myanmar (ex Birmania), entro un conflitto atavico che perdura da decenni, è assai grave, caratterizzata da violenze, vessazioni e intimidazioni (numerosi i morti e feriti) da parte della maggioranza buddista della popolazione e del governo che la sostiene, mentre situazioni analoghe hanno luogo in Sri Lanka e Tailandia, dimostrando che anche una spiritualità originariamente non-violenta e pacifista, come quella buddista, può venire declinata in modo identitario e aggressivo, rappresentandosi come verità contro menzogna, in una semplificazione dagli effetti devastanti. D’altra parte, in ambito islamico, gli effetti delle teocrazie afgana e iraniana sono sotto gli occhi di tutti e non c’è bisogno di spiegare la situazione relativa ai diritti umani fondamentali in tali Paesi, mentre i crimini compiuti dal terrorismo internazionale si commentano da sé.

Non possiamo poi ignorare la recrudescenza delle persecuzioni contro i cristiani in varie parti del mondo. Secondo l’analisi della “World Watch List” 2023, curato dall’organizzazione Porte Aperte/Open Doors per il periodo primo ottobre 2021 – 30 settembre 2022, sono oltre 360 milioni i cristiani che sperimentano un livello alto di persecuzione e discriminazione a causa della loro fede. I Paesi più pericolosi risultano Corea del Nord, Somalia, Yemen, Eritrea, Libia, Nigeria, Pakistan, Iran, Afghanistan, Sudan, India, Siria, Arabia Saudita. Caso particolare è quello dell’India, con un governo democratico ma sempre più influenzato dal nazionalismo induista, per il quale cittadinanza indiana e religione indù tendono a coincidere, incoraggiando violenze e discriminazioni verso i cristiani e le altre minoranze. Stante al rapporto suddetto, durante il periodo segnalato, nel mondo sono stati 5.621 i cristiani uccisi per la loro fede religiosa, con la Nigeria e l’Africa subsahariana in genere epicentro di massacri sistematici, 2.110 sono state le chiese attaccate o chiuse, 4.542 i cristiani arrestati senza processo e incarcerati, 5.259 i rapiti.

Vien proprio spontaneo riandare, a proposito di intolleranza religiosa, discriminazione per la fede e, in genere, integralismo fanatico e settario, al celebre detto evangelico “Chi è senza peccato scagli la prima pietra!” (Gv 8,7), in quanto sembra che alberghi, sia pure talvolta in modo subliminale e occulto, in tutte le grandi tradizioni religiose dell’umanità la tendenza o il rischio a trasformarsi in strumenti identitari, generando appartenenze arroganti e aggressive, quando non pericolosamente criminali. Del resto, è un’amara constatazione che la riscoperta del religioso nel XXI secolo ha luogo proprio nel segno del risorgere degli integralismi più intolleranti, diffusi a macchia di leopardo sull’intero pianeta, fisicamente o psicologicamente violenti, a seconda di aree geografiche e situazioni socio-politiche.

Ci domandiamo dunque, dopo questa dolorosa premessa, non solo se sia possibile un altro approccio, fortunatamente testimoniato da molte e diverse esperienze anche contemporanee, ma quali siano le possibili premesse, implicazioni e sviluppi a tale diverso approccio correlati. Perché forse non basta più un generico appello alla prassi del dialogo e dell’incontro, ma piuttosto occorre strutturare una diversa consapevolezza del fatto religioso, non più ascrivibile ad una sorta di realismo teologico che presuma di garantire l’accesso integrale e magari esclusivo alla essenza divina (con conseguenti rigurgiti di intolleranza), ma un cauto nominalismo apofatico che, sulla scia dell’antica definizione plotiniana, di Dio attesti se mai “quello che Egli non è” (Enneadi, V, 3). Non si tratta tanto e solo di assumere quella via negationis, praticata nei secoli dalla cosiddetta teologia negativa, esaltante l’inconoscibilità della natura divina, ma piuttosto di comprendere che anche la teologia positiva, con la sua via affirmationis, può al massimo evocare Dio, e generare una esperienza del sacro basata sì sulla presenza, ma misteriosa e discreta, dunque alla fine fondata sul segno, sulla traccia, sull’orma e, infine, sul desiderio che segue e insegue, che anela, presagisce, rimane nella sua apertura ontica disponibile a una qualche rivelazione. E nel vario procedere della parola, alla fine, accoglie il silenzio come suprema Parola. 

L’apofatismo (dal greco, apophasis, lontano dal dire) è infatti un approccio teologico secondo cui la comprensione della natura di Dio non può essere espressa a parole, e pertanto ogni tentativo di rapportarsi a Lui nel modo più adeguato comporta in tale prospettiva il silenzio, la contemplazione, l’adorazione. Sia che si ritenga Dio inaccessibile alla ragione umana (come in gran parte della teologia negativa), sia che, seguendo le orme della teologia affermativa, si affermi il catafatismo (dal greco, katàphasis, che significa affermazione), ovvero che a Dio si possa pensare per inferenza, a partire dal Creato e dalle perfezioni presenti in esso che, elevate all’ennesima potenza e sfrondate di ogni limitazione, sarebbero a Lui riferibili, non si può che ragionevolmente arrivare alla conclusione che, anche in quest’ultimo caso, Dio rimane alla fine essenzialmente inaccessibile, considerato che le perfezioni individuate a partire dalla natura sarebbero in Lui in modo propriamente divino, cioè radicalmente diverso ed altro da come sono nelle cose. Lo aveva capito San Tommaso d’Aquino che faceva seguire alla via affermativa quella negativa, negando appunto che in Dio le perfezioni delle creature fossero presenti allo stesso modo che in esse, e pervenendo alla sintesi della via eminentiae, secondo la quale, per l’analogia dell’essere, le perfezioni delle creature sono sì in Dio, ma in un modo specificamente divino, che sfugge alla comprensione umana.

Questa premessa ci aiuta a smorzare i bollenti ardori di quanti fanno del divino una proprietà privata, un database con una password esclusiva a proprio uso e consumo, un self-service efficiente e tutto compreso. E apre a una condizione di umiltà che, nel relativizzare ogni pretesa di possesso esclusivo della verità, questa volta si dispone ad accogliere la trascendenza divina, che tutte le religioni del mondo non riescono probabilmente che a scalfire, ma possono evocare, manifestare, annunciare… Così, mentre lo spirito umano ha elaborato le più sofisticate indagini fra scienza, arte, filosofia, nel tentativo di dar voce alla propria domanda di senso e di felicità, le varie esperienze religiose hanno provato ad esprimere e rappresentare tale ricerca attraverso testi sacri, riti, atteggiamenti pratici. E questi non possono che avere un unico grande scopo, quello di condurre l’umanità alla adorazione. O, se preferite, alla celebrazione. Ma anche, al ringraziamento. Designando la vita come il luogo gnoseologico della nozione o esperienza di Dio, ragion per cui possiamo oggi realisticamente parlare di analfabetismo religioso, non tanto perché la gente non va più a Messa, ma piuttosto perché non adora, non celebra, non ringrazia più. Preferisce acquistare, consumare, e maledire, ripiegata sul proprio ombelico, nella nuova religione dei consumi, come accade in gran parte del mondo occidentale. Oppure aggregarsi e tifare calcisticamente la propria appartenenza fanatica a un cupo immaginario che illude e garantisce di introdurre all’onnipotenza divina, finalmente posseduta e assimilata, in un sogno di grandezza paranoico dalle conseguenze troppo spesso letali e intolleranti, come accade fra gli aggressivi integralisti occidentali o le masse di diseredati e oppressi del Sud del mondo, ove la religione o è un rifugio dalla complessità (soprattutto nel primo caso) o è un integratore psicologico che supplisce all’impotenza con un fuorviante sogno di onnipotenza, il possesso esclusivo di Dio quale surrogato alla privazione di tutto (soprattutto nel secondo caso). Ed è rivelativo che oggi la più grande religione planetaria, che aggrega fanaticamente e puerilmente miliardi di adepti fra Nord e Sud del mondo, sfruttati e sfruttatori, sia quella del calcio internazionale, corrotto e affaristico, i cui riti e ministri miliardari trionfano in tutto il pianeta, a testimoniare l’esigenza di appartenenza squadristica e settaria che domina le masse disorientate e senza Dio, alla ricerca di una versione venale dell’assoluto, come potenza e gloria effimera cui votarsi nel vuoto che sta intorno, ma soprattutto dentro.

In questi giorni di freddo intenso, che è piombato sull’Italia dopo un avvio anche troppo caldo della stagione invernale, è caduta molta neve, specie nell’Italia centrale. Come tanti, ho potuto assistere al video diventato ormai virale dei frati francescani che, di fronte alla basilica del Santo ad Assisi, si prendevano a palle di neve giocando davanti a un bel pupazzo da loro realizzato. Ecco, ho l’impressione che questa sia una modalità di accesso al divino che ridimensiona tante pretese e riqualifica la nostra esperienza del sacro purificandola da tanta superbia. Che cos’è in fondo Dio se non quella gioia di vivere la gratuità dell’esistenza che sperimentiamo nel gioco? E se il gioco della vita fosse la liturgia più adeguata all’epifania di Dio, come gratuità assoluta?

Ma può tale gratuità coesistere con chi pretende di sequestrare, ad esempio, la palla con cui si gioca, o la palla per sua natura deve passare dall’uno all’altro giocatore, dall’una all’altra squadra, certificando la sua destinazione universale, per tutti? E non è dunque così anche per l’esperienza di Dio, che si rivela volta a volta nelle più diverse condizioni e spiritualità? In questa disposizione infantile a condividere il gioco sta forse l’insegnamento più alto che ci conduce a condividere Dio. Non il mio, non il tuo, ma quel Dio che dobbiamo inseguire perché, proprio come una palla nel gioco, ci sfugge continuamente forse proprio perché abbiamo a cercarlo e, nel cercarlo, sperimentiamo la nostra gioia.

È la via evocata da Meister Eckart, che diceva: “Se la sola preghiera che dirai mai nella tua intera vita è ‘grazie’, quella sarà sufficiente”. È la via della grande mistica medievale Ildegarda di Bingen, che diceva: “Dovremmo salmodiare con un salterio a dieci corde”. È la strada dello stesso San Francesco d’Assisi, che diceva: “Dio mi ha chiamato per la via dell’umiltà e mi ha mostrato la via della semplicità”. E quella di Teresina di Lisieux, che scriveva: “Io sono la Pallina di Gesù Bambino; se vuole rompere il suo giocattolo, è libero di farlo: sì, io voglio davvero tutto ciò che Egli vuole”. Ed è la via del grande filosofo novecentesco Ludwig Wittgenstein, che scrisse nel suo Tractatus logico-philosophicus: “Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere”. Ed anche: “Il senso del mondo dev’essere fuori di esso”. Per un grande filosofo del linguaggio e logico ciò significa postulare o almeno ipotizzare la trascendenza e, anche, una sorta di silenzioso abbandono ad essa, come del resto sembra suggerire l’ultima fase della sua vita.

E solo approdando ad una nozione o esperienza di Dio di tale discrezione è poi possibile testimoniarne in qualche misura la presenza, come ineffabile darsi di una trascendenza che non può dirsi ma che certamente può viversi nello stesso gratuito mistero di un’essenza divina partecipata proprio nel momento in cui si accetta di non possederla attraverso un nome, un rito, un libro, ma si attraversano nomi, riti e libro all’insegna di quella abissale umiltà – come attestava François Varillon nel suo capolavoro, “L’umiltà di Dio” – che abita l’essenza divina, la quale si ritrae e nasconde nel suo infinito splendore per non annientare con la sua intensità, e in questa rinuncia all’esercizio della potenza, esercita la sua illimitata, nascosta, invisibile, universale sovranità. Che solo i cuori umili sanno riconoscere, perché obbedisce a logiche antitetiche a quelle del mondo, a un’altra estetica e, forse, a un’altra etica, come attestano le parole di Gesù al Tempio, secondo i Vangeli di Luca (21,1-4) e di Marco (12,41-44): “Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo. Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: ‘In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere’”.

Di fronte a questa logica ineffabile di Dio, che va dritto al cuore, come voleva lo stesso San Francesco, cadono gli orpelli dell’onore e della gloria, di ogni venale successo mondano o naturale splendore perché “agli occhi di Dio un uomo vale realmente quel che vale, e niente di più”, ovvero nelle sue nude spoglie egli può solo rifulgere della sua libertà morale, che non permette alcun escamotage al potenziale baro. E così appaiono persino risibili i criteri delle appartenenze, entro le quali ciascuno coltiva l’illusione egoista del privilegio, della sicura elezione, del tranquillo possesso, che schierano nei contrapposti eserciti, ma si potrebbe anche dire scuole, adepti chiusi entro l’orizzonte angusto di un alfabeto univoco, di una sintassi ingessata, di una prospettiva angusta. La salvezza come proprietà privata, la verità come declinazione notarile, l’appartenenza come squadristica certezza di bontà ontologica, l’aggressività come diritto e delega divina alla conquista dell’ecumene. Oggi purtroppo c’è in molte sensibilità religiose, spaventate dalla secolarizzazione selvaggia del tardo-capitalismo in cui viviamo, la tendenza a esprimere un’autentica esigenza relativa al sacro e al religioso in termini di sicuro possesso, o di consolatorio ripiegamento, ma anche di intollerante esclusivismo, così che il paradosso di una presunta rinascita religiosa, là dove ha luogo, si manifesta nella forma di un integralismo più o meno radicale e violento, e attraversa islamismo, cristianesimo, ebraismo, induismo e persino buddismo, tanto per citare le più grandi o significative religioni planetarie. Che sia fondamentalismo protestante o tradizionalismo cattolico, fondamentalismo islamico o ultra-ortodossia ebraica, nazionalismo induista o buddismo radicale anti-islamico, in tutti questi casi si ha un rinserrare le fila nel nome della propria tradizione che, rispettabilissima in sé e senz’altro venerabile, perde tuttavia la sua originaria innocenza  di via o strumento nella ricerca di Dio, per divenire luogo di una celebrazione del sé – inteso come gruppo corporativo di appartenenza e garanzia egotica – che ne impoverisce sostanzialmente o addirittura ne stravolge l’intenzione o funzione primaria.

Vi è insomma un passaggio dal teocentrismo, che queste religioni intendevano affermare, a un occulto ma non meno radicale antropocentrismo, ove ciò che si afferma è in realtà la propria identità corporativa, che potenzia la fragile identità personale, ormai in balia di relativismo e consumismo, ma anche – specie nel Sud del mondo – di un desiderio rivendicativo rispetto alle endemiche condizioni di miseria ed emarginazione, che alimentano – dietro il pretesto religioso –  volontà di riscatto, ma anche vendetta e odio sociale.

E l’esito planetario – considerata la varietà dei pantheon edificati dalle varie religioni e la loro presunta inconciliabilità teorica e pratica – se non è sempre quello di una guerra di tutti contro tutti, è più spesso una sterile contrapposizione di cosmi semantici claustrofobicamente chiusi e alternativi, considerato che la vulgata spirituale in uso alle masse rimane del tutto sprovveduta di strumenti di approfondimento del proprio universo simbolico, condivisione interconfessionale e dialogo interreligioso, orientando piuttosto a una sorta di politeismo planetario, ove ognuno si inscrive, fra i tanti possibili, entro un orizzonte cultuale rassicurante e circoscritto, esclusivo e alternativo a tutti gli altri, che non ne fa un pericoloso terrorista, ma senz’altro un anonimo praticante sordo all’incontro con l’altro.

Ed è encomiabile, ma ancora poco recepito dai più e addirittura avversato da alcuni, che illuminati leader spirituali si incontrino periodicamente per impegnarsi a sostenere il dialogo e il confronto fra le grandi religioni, come è accaduto a Nur-Sultan in Kazakhstan il 14 e 15 settembre 2022, ove si è tenuto il triennale Congresso dei leader religiosi mondiali, cui ha partecipato anche Papa Francesco sottoscrivendone la dichiarazione finale. “Il pluralismo e le differenze di religione, così come di razza, genere e lingua – si legge nella Dichiarazione – ‘sono espressione della saggezza della volontà di Dio, con cui Egli ha creato l’uomo’, per questo è inaccettabile ogni atto di coercizione ‘verso una particolare religione e dottrina religiosa’. Nel testo si chiede il sostegno a qualunque iniziativa sia volta all’attuazione del dialogo interreligioso e interconfessionale; si sottolinea la comunione con gli sforzi delle Nazioni Unite e di qualunque altra entità, per promuovere il dialogo tra civiltà, religioni e nazioni; si esortano gli Stati a garantire condizioni di vita dignitose per i loro cittadini e a ridurre il divario nel benessere tra i diversi Paesi del mondo; si incoraggia a preservare nelle società valori spirituali e orientamenti morali; si riconosce l’importanza del ruolo dei leader delle religioni e della diplomazia religiosa. Tolleranza, rispetto e comprensione reciproca, è la sollecitazione, siano quindi ‘il fine di qualsiasi predicazione religiosa’” (Francesca Sabatinelli, Dalle religioni riunite in Kazakhstan l’impegno a difendere il dialogo, in vaticannews.va, 15.09.22).

Un campione di tale dialogo interreligioso è stato senz’altro, fino alla sua scomparsa nel 2010, il grande teologo e filosofo Raimon Panikkar. La sua stessa origine lo pone al centro dell’istanza ecumenica, essendo figlio di madre catalana e cattolica e di padre indiano e induista, per la qual cosa egli, divenuto sacerdote cattolico e gesuita, continuerà a dichiarare di sentirsi tanto cattolico quanto induista, sottolineando la convergenza di due linguaggi spirituali in un’unica esperienza personale, armonica e unitaria. Per lui pluralismo significa dunque che è possibile riconoscere molte forme per raggiungere lo stesso obiettivo, considerato che egli ritiene fondamentale arrivare a vivere la realtà in tutta la sua pienezza (Autobiografía intellettuale) e che la varietà delle religioni ha da condurre alla medesima meta, partendo da punti inizialmente distanti ma sempre più vicini in prossimità di essa. Così lo stesso Gesù di Nazareth, come personaggio storico, è una manifestazione del Cristo universale, ma tale categoria può conoscere altre concretizzazioni e dunque “non deve essere ristretta alla sola figura storica di Gesù di Nazareth” (Il Cristo sconosciuto dell’induismo, Jaka Book, 2008). Un ulteriore chiarimento circa la posizione ermeneutica e interconfessionale che Panikkar assume, pur restando saldo nella sua fede cristiana, si evince da un passo de La nuova innocenza (Servitium, 2003), ove sottolinea: “Il chi scoperto dal cristiano può essergli stato rivelato nel che cosa e attraverso il che cosa tramandatogli dalla tradizione, ma egli non confonderà le due cose. Ad esempio, nel mistero cristiano centrale, l’eucaristia, egli riconoscerà la presenza reale di Cristo, eppure non crederà di mangiare le proteine e di bere il sangue di Gesù di Nazareth, perché egli sa che la comunione è con il chi reale e non con il che cosa. Inoltre… non diremo che ciò in cui crede il buddhista è ciò che il cristiano adora; ma possiamo ammettere che il chi sotteso alla compassione buddhista o alla sottomissione a Dio del musulmano non è altro che il chi dell’agâpe cristiana”.

Cogliere la trascendenza di Dio rispetto alla propria religione e spiritualità sembra allora essere un passo ineludibile verso la maturità richiesta ai nostri tempi e, al contempo, la risposta alle apparenti aporie che credo e dottrine diverse sembrerebbero frapporre fra l’esigenza di coerenza intrinseca alla razionalità umana e la varietà anche divergente di approcci alla questione di Dio che – in tale ottica di radicale alterità e trascendenza rispetto a ogni dottrina – si riducono infine a modalità di significazione, rappresentazione e relazione, testimoniandone l’inaccessibilità ultima, ma celebrandone al contempo il dono che se ne ha nel desiderio, nella ricerca, nella nostalgia che essa suscita. In tal modo si vive in attesa dell’eternità, non però come rinvio, ma come sfida presente a viverla hic et nunc, nonostante i nostri limiti e, anzi, attraverso di essi.

Giocare la vita nel senso più profondo e drammatico è allora la questione di Dio, che si vive più che pensarlo, nella libertà dell’attimo che celebra, loda, adora, ringrazia. E non chiede di più, ma piuttosto si dispone ad assumere l’unità, che è il punto di vista divino, anche attraverso quel pluralismo religioso che – come sosteneva Giovanni Paolo II, più specificamente, a proposito della divisione dei cristiani in chiese diverse – si potrebbe allora pensare come un dono, il dono della trascendenza divina all’umana immanenza perché questa possa pensarla e amarla, evocandola in quanto trascendenza proprio grazie al suo darsi nell’antinomia che ci obbliga a sporgerci oltre la nostra parzialità prospettica nel sublime del radicalmente altro. L’estatico riso del saggio e del folle è allora ciò che resta. E prendersi a palle di neve è l’atto di culto dell’innocenza ritrovata, della gioia che si pregusta nella presenza di Dio.

Tuttavia le religioni si fanno la guerra, sparandosi proiettili veri, letali, assassini. E la Grande Meretrice evocata dall’Apocalisse, dopo l’età dei totalitarismi e la globalizzazione capitalistica, potrebbe servirsi dei nuovi integralismi religiosi e nazionalistici per perpetrare il proprio ricorrente proposito di illudere circa la possibilità di fare di Dio un totem o feticcio asservito e assimilato all’immanenza umana, una grande distopia collettiva che, nichilista o integralista che fosse, sancirebbe comunque l’esilio di Dio dall’uomo.

Ma intanto, ancora nevica, c’è neve fresca e qualche frate in giro che ci giocherà.

(da Claudio Sottocornola, Così vicino, così lontano, Velar 2023)