La Bhagavad Gita e le vie dello yoga (e Oppenheimer)

Krishna e Arjuna

Krishna e Arjuna

ANTONIO VIGLINO

Il termine yoga significa “unione”, e propriamente l’unione dell’uomo con la sfera che lo sovrasta, usualmente detta il “Divino”; per essere più precisi, lo yoga è il riscoprire, a livello integrale, di essere partecipi del divino tutto. L’uomo non si rende conto di essere effettivamente parte di un “Tutto” perché crede di essere un “io” relazionato all’“altro da sé”: ma proprio questa isolazione, derivata dalla rappresentazione, è l’autoinganno della vita. Per le filosofie, per le psicologie e le psicanalisi, per le arti letterarie, per le scienze e le neuroscienze del mondo occidentale da sempre fino ad oggi, la rappresentazione è il momento supremo in cui si estrinseca la realizzazione dell’io e la conoscenza della realtà — mentre invece la rappresentazione è già solo il velo dell’inganno per le menti prive della luce della Vera Conoscenza. Gli yoga appunto sono la Scienza finalizzata al far superare la rappresentazione e quindi ristretta e deformante dimensione dell’io.
Gli yoga sono complessi di tecniche, diversi tra loro, che hanno come scopo quello di far constatare all’uomo che non è l’io: non si può, infatti e naturalmente, “voler” superare l’io, perché “chi vuole” sarebbe appunto l’io, ovvero ciò che deve essere superato. Per questo motivo gli yoga approntano gli strumenti grazie ai quali si può scoprire di ritrovarsi dove da sempre in effetti si è, cioè a far toccare fisicamente e neurobiologicamente con mano che il famoso e lodato io altro non è che una marionetta sulla specchio della natura della mente.
Ci sono tre grandi vie dello yoga: il bhakti yoga, il karma yoga e il jnana yoga; il bhakti yoga è la via della devozione, il karma yoga dell’azione, il jnana yoga della conoscenza. Questi tre sentieri innervano tutta la conoscenza dell’India ed anche la sua vita civile e sociale (al riguardo si deve sapere che il rigido sistema della caste fondato sulla inalterabilità ereditaria non appartiene alla conoscenza vedica, nell’ambito della quale si poteva passare da una classe all’altra come nella Repubblica platonica, bensì ne è una degenerazione).
Nella Bhagavad Gita, Il canto del beato, che è la porzione centrale del grandioso poema Mahabharata (così come lo Yoga Vasishtha è il capitolo centrale del Ramayana e la Ribu Gita del Shivarahasya), ed è considerato in India alla pari dei Vangeli nel mondo cristiano, Krishna, avatar di Vishnù, anche descrive e illustra queste tre vie.
Il bhakti yoga consiste nell’adorare la divinità, e nell’abbandonarsi al divino; il karma yoga nell’agire rettamente e quindi in aderenza al karma cioè in aderenza all’ordine cosmico; il jnana yoga è il conoscere, e poi l’esperire. Secondo Krishna, ciascuna di queste vie è la migliore: infatti non è che un uomo scelga a tavolino quale sentiero percorrere, bensì è la natura stessa del singolo che lo instrada sulla via a lui più consona. Chi è più aperto alla comunione con il tutto, naturalmente si troverà a percorre il bhakti yoga, chi è arso dal fuoco della verace conoscenza il jnana yoga e chi non ha queste due tendenze ma è ispirato dal senso di distacco, e di giustizia, seguirà il karma yoga.
È bensì vero che ciascuna via implica in essenza anche le altre due, ma è il temperamento di ciascuno che colloca gli uomini in quell’area in cui possono più facilmente ascendere verso la realizzazione. Naturalmente ciò vale per le persone che sono in qualche modo consapevoli che la loro realtà non è il semplice ego, ed allora praticare uno yoga consentirà loro di maturare e migliorarsi; per gli uomini che invece sono schiavi del loro io, le vie dello yoga costituiscono i paradigmi che dovrebbero essere seguiti, quantomeno nella prospettiva del retto vivere civile.
Affinando la descrizione dei diversi yoga, si deve dire che il bhakti yoga consiste nel dedicare la proprie attività alla venerazione della divinità, al fine di trovarsi abbandonato ad essa; il jnana yoga consiste nello studio dei testi sacri, al fine di poter esperire ciò che essi rivelano; il karma yoga consiste nell’agire con rettitudine, per potersi ritrovare non più assoggettato alla legge del karma, ovvero ad agire svincolato dai fini.
Questi tre ambiti appaiono come differenti, ma in verità sono tre aspetti della medesima condizione, la quale è l’ascesa alla vita divina onnipervadente attraverso il superamento dei limiti della natura umana, limiti che consistono nella rappresentazione e nella isolazione, o separazione, dei momenti della realtà. Nella realtà effettiva ed autentica, per accedere alla quale è necessario come detto superare l’io, infatti l’uomo si scopre unito al divino, esperisce stati di coscienza extra-ordinari e quindi è al di sopra della natura fenomenica nella sua dimensione meccanicistica di causa e effetto: questo è il fine dichiarato nei tantra e nei testi scritti dagli yogin. Gli yoga hanno cioè tutti come fine comune la liberazione dalle pastoie dell’io, ovvero il risvegliarsi dallo stato di sogno in cui ordinariamente si vive, e ciò è prodromo alla piena illuminazione; le singole vie degli yoga indicano diversi mezzi abili per perseguire questo risultato.
E circa la definizione degli yoga decisiva è la connotazione per cui i mezzi yogici sono detti “abili”. Precisano sempre infatti i testi che la realizzazione spirituale non è automaticamente garantita dal percorre una via dello yoga. Il praticare uno yoga, fare la sadhana, è di beneficio per la vita, senza dubbio e per molti motivi, ma di norma conduce alla realizzazione solo in molte e molte rinascite — a meno che non si sia alla realizzazione predestinati. In questa prospettiva allora gli yoga servono per mettere alla prova proprio la possibilità di essere predestinati. Ma al contempo, se si è predestinati, il risveglio accade da sé, ed allora gli yoga, bhakti, karma o jnana, servono per assecondare ed accudire il dono e poter progredire fino alla completa illuminazione, sempre in accordo alla grazia divina. Ed è per tale complesso di motivi che i testi dicono da un lato che è necessario avere un guru che possa guidare nella pratica, e dall’altro asseriscono che l’unico vero guru di cui si ha bisogno è l’atman, il proprio Sé riscoperto quando svapora l’io.
Tenendo conto di queste considerazioni si può comprendere la duplice natura delle vie dello yoga, che varia a seconda che le si percorra per propria scelta o per l’esservi stati chiamati. Si prenda ad esempio il jnana yoga: a un primo livello esso consiste nello studiare e così conoscere le scritture, ma la mera conoscenza oggettiva di esse, cioè l’avere nozioni intorno a questi argomenti, non porta alla realizzazione. Non basta leggere e studiare i Veda o le Upanishad o i tantra per raggiungere il risveglio: se li si legge sapendo e capendo che parlano di cose vere ma senza andare oltre la semplice apprensione dei testi, allora ciò innesta la lunga via per la liberazione che si potrà portare a compimento in successive rinascite (se invece li si legge come li leggono gli occidentali, cioè come se fossero filosofie o testi letterari o coacervi di superstizioni e autosuggestioni, in questo caso la loro lettura non darà benefici nemmeno per gli eoni futuri). Ed è a questo proposito che le Upanishad più volte dicono che se la tenebra dell’ignoranza è erronea ancora di più la è la semplice erudizione, perché l’accumulare nozioni e pratiche senza oltrepassare la soglia della mera conoscenza semmai allontana dal risveglio, a causa del fatto che l’erudizione solo gonfia l’ego ed è proprio l’ego il mostro che deve essere abbattuto. Cosa è allora effettivamente il jnana yoga se lo studiare i testi e il praticare gli insegnamenti di per sé serve a poco? La vera conoscenza per gli Indiani, detta vidya o vijnana o la jnana in senso effettivo, è l’esperire ciò di cui i testi trattano. I testi parlano di atman e prana, di kundalini e Agni e Indra e Soma: queste sono tutte descrizioni pratiche ed operative, sono traguardi da raggiungere. Una delle forme supreme del jnana yoga, il tantra, è appunto l’essere facitori degli stati di coscienza otreumani che i Rishi chiamano con quei certi nomi. Detto altrimenti: come dicono i grandi yogin, il significato letterale ed effettivo dei testi sacri lo può realizzare solo chi è veggente, cioè chi quegli stati di coscienza viva in prima persona; le persone comuni invece leggono nomi e attribuiscono loro gli arbitrari significati, rituali, culturali, etimologici, che la loro inutile conoscenza libresca consente loro di dare, il che è a dire che costoro non sono in grado di comprendere nulla di ciò che il testo effettivamente comunica. Chi raggiunge questi sovrumani stati allora conosce davvero, e conosce non perché ne legga ma perché vive certi stati di coscienza: anche Giordano Bruno, Jung e Heidegger, ad esempio, dicono che il vero conoscere è l’esperire, e lo stesso vale per gli indiani che di ciò ammoniscono a ogni piè sospinto. I testi sacri vanno pertanto messi in atto, si deve praticare cosa insegnano, ed allora si diventa sadhaka, praticante: un jnani yogi è colui che compie gli insegnamenti di cui legge — e ciò vale sia per il Vedanta che per l’hatha yoga che per il raja yoga o per altri yoga meno canonizzati, che tutti rientrano nell’alveo del jnana yoga. Quindi non è tanto il leggere quanto invece il praticare le istruzioni che effettivamente facilita la realizzazione, anche se da solo esso non basta: occorre, come detto, la grazia divina, ovvero l’avere accumulato progressi nelle vite precedenti. Se il sadhaka è fortunato, allora alla pratica segue l’effettivo esperire, e ciò significa che egli è veramente sul sentiero che conduce alla meta. Ma per altro verso chi è benedetto dalla caduta di potenza, può risvegliarsi ek exaiphnès, come dice Platone, in un istante, a prescindere dall’aver mai praticato e anche senza mai essersi interessato a kundalini o alla meditazione; allora costui dovrà rivolgersi ai testi sacri e rivelati per coltivare quello che in termini occidentali è detto il dono, e per lui la conoscenza sarà il veder confermate nei testi le cose che esperisce, e quindi proseguire nel sentiero.
Quanto appena detto vale anche per le altre vie dello yoga, negli stessi termini. Una persona attirata dal divino può essere devota e praticare adorazione sincera per tutta la vita, ma può non accaderle nulla di spirituale; un’altra senza preavviso può trovarsi rapita in estasi. Questo è ciò che Krishna intende quando dice: “Tra migliaia di uomini uno forse si sforza per la perfezione; anche tra quelli che si sono sforzati con successo, solo uno forse Mi conosce in essenza”.
Si sarà constatato quindi come questo corpo di sapienza dell’Oriente abbia una duplice contemporanea funzione: gli yoga sono diretti al progredire spirituale del singolo, e come tali sono propriamente esoterici, in quanto riservati a chi ne comprenda il valore, ma al contempo, nella loro diffusione capillare, hanno anche l’effetto di contribuire ad instaurare una vita sociale ispirata a criteri di umanità e benevolenza — laddove il pensiero occidentale ha seguito la via del dominio egotistico dell’io.
Una ultima notazione è resa necessaria, o tempora o mores. La Bhagavad Gita è divenuta famosa in questi mesi a cagione del film di Nolan su Oppenheimer. Oppenheimer, che diceva di essere grande ammiratore della Bhagavad Gita e si vantava di essere conoscitore della lingua sanscrita, in una celebre intervista televisiva rilasciata in occasione del successo del primo test di esplosione della bomba nucleare, citava un verso della Bhagavad Gita, e questa citazione è ora replicata sugli schermi cinematografici di tutto il mondo. E precisamente Oppenheimer cita alcune parole che pronuncia Krishna rivelatosi quale avatar di Vishnu, quando dice: “Adesso sono diventato Morte, il distruttore di mondi”.
Solo che siffatta traduzione di questa frase (Kaalo asmi loka kshaya kritpraviddho) è del tutto folle, inventata di sana pianta; è totalmente erronea sia nel significato letterale ed ancor più rispetto al contesto.
Nello sloka in oggetto (Bhagavad Gita 11,32) Krishna dice: “Io sono il tempo che fa deperire i mondi” (trad. a cura A.-M. Esnoul, ed. Adelphi), e identiche sono le traduzioni ad esempio di Shivananda (“Io sono il Tempo, potente distruttore del mondo”), di Sri Aurobindo (“Io sono il Tempo distruttore dei mondi”) o di Sri Radhakrishnan (“Io sono il tempo, colui che dà luogo alla distruzione del mondo”).
Krishna cioè in questo verso non dice per nulla che lui stesso per sua delirante volontà distrugge tutto, come vuol far intendere la traduzione di Oppenheimer — una cosa del genere la dice e la ripete YHWH nella Torah, forse Oppenheimer confuse i testi sacri? Bensì Krishna in questo passo dice letteralmente che essendo egli (anche) il tempo, il tempo stesso renderà ogni cosa polvere per effetto del suo mero trascorrere.
E il contesto in cui si colloca la frase, contesto che peraltro è il tema di fondo di tutta la Bhagavad Gita, è questo: il principe Arjuna era titubante nel dover uccidere in guerra suoi parenti usurpatori del regno, e tra le altre cose Krishna gli dice: (ucciderli è tuo dovere) tanto sono destinati a morire per il trascorrere del tempo (e fermo che a morire sarà solo il loro ego e non il loro atman, la particella eterna e divina).
Ora, è comprensibile il mix di delirio di onnipotenza e senso di colpa che attanagliava l’uomo Oppenheimer, ma il suo voler scaricare le proprie responsabilità falsificando il significato di scritture sacre e venerande è abominevole; e lo è ancora di più che un film holliwoodiano persista in questo madornale errore.
Anche se la soluzione più probabile è che né Oppenheimer né Nolan fossero in grado di capire la profondità di cosa credevano di leggere.