Paradigmi in declino e compiti generazionali

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CLAUDIO SOTTOCORNOLA

Alla ricerca di un modello ermeneutico inclusivo

 

La nostra società vive ormai di appartenenze. Intellettualmente torti e ragioni si dividono a partire da aree ideologico-culturali, non si attende l’esito dell’argomentazione ma si balza a colpire il contendente con armi letali, interrompendolo e accusandolo di malafede, corruzione, ignoranza. Prendete un talk-show televisivo a caso, e valutate.

Il contesto d’altra parte spiega e giustifica tutto ciò. Abbiamo vissuto per secoli, anzi millenni, nei microvillaggi d’Europa, Asia, Africa, e la toponomastica era a tutti nota entro la propria mappatura del mondo. Semplicemente, non c’era bisogno di impararne un’altra. La si poteva estendere, la propria mappatura, sovrapporla a quella dell’altro, e quindi inglobare questa, metabolizzarla, digerirla e trasformarla nella propria. O, come hanno tentato di fare in ogni modo i totalitarismi del ’900, cancellarla del tutto.

Il diritto di cittadinanza, la sola nazionalità possibile, era la nostra: cultura, religione, affetti, storia e geografia, scienza e sapienza, arte. L’inganno a volte era amplificato dalla banalizzazione dell’esperienza altrui, e dalla dichiarata complessità della propria. Ignari che sarebbe stato facile ribaltare i punti di vista e, per esempio, agli altri banalizzare la nostra esperienza.

Lo strutturalismo, mostrando analogie e funzioni comparate nelle civiltà e nei sistemi, ci ha un po’ aiutati a comprendere che la prospettiva, se non vuole essere edipica e claustrofobica, deve aprirsi ad altri gusti, sapori, sguardi, usanze. Non più giudicare, semplicemente, della bontà del simile a partire dal simile. Ma cogliere le analogie, la bontà del diverso, e quindi l’universale empatia che ci obbliga, ma soprattutto ci apre, ci avvolge…

Dagli stoici alla filosofia della natura di Bruno e Campanella, dall’eros platonico all’agape cristiana, dall’Illuminismo alle dottrine sociali dell’800, molto pensiero, molta spiritualità ha sottolineato nel tempo l’opportunità, la convenienza antropologica, in certo qual senso, l’autenticità ontologica di una prospettiva universale.

Ma questo oggi, nell’orizzonte di fenomeni epocali quali la globalizzazione, gli ingenti movimenti migratori, i cambiamenti climatici e i disastri ambientali, nonché la crisi finanziaria mondiale in atto, diventa un dato stringente, una direzione ineludibile, direi quasi un obbligo, un imperativo categorico.

Come sia possibile tuttavia realizzare ciò, oltre gli steccati più venali, ma soprattutto, al di là delle soluzioni più retoriche e scontate, non sembra facile ed, anzi, potrebbe implicare un cambiamento di paradigma, peraltro non così immediatamente disponibile e alla portata di chi si ostinasse nell’approccio dicotomico, contrappositivo ed escludente (noi e gli altri, vero-falso, giusto-sbagliato, buono-cattivo, bello-brutto…).

Lo sappiamo, ci troviamo fra Scilla e Cariddi: da un lato tutti avvertono la tensione al meglio (o lo vogliamo sperare), e quindi a gerarchizzare o selezionare, anche dicotomicamente (sì-no); dall’altro è diffuso il desiderio a equiparare diversi sistemi di valori, diverse opzioni, diverse scelte e gerarchie esistenziali. I più trovano soluzione all’aporia nel chiudersi entro i confini del proprio paradigma e nell’enunciare virtualmente la propria disponibilità a lasciar vivere, a lasciar essere l’altro (laissez-faire!), purché non collida col proprio.

Da qui a togliere il saluto, a fingere sorrisi e cortesie, a scorrere paralleli e mai convergenti, e a morire d’indifferenza, il passo è breve. Si cerca di non disturbarsi; poi non ci si parla più; e quindi ci si circonda di cloni, di replicanti, di quanti duplicano il nostro pensiero correttamente, e prendono tartine e aperitivi con noi. Happy hour!

Tanti ego. Narcisi nelle aiuole. Sbarre alle aiuole.

Così – eterno ritorno – di nuovo diffidiamo degli altri, sospettiamo degli estranei, li accusiamo di cospirare e – di nuovo – banalizziamo il loro mondo, di nuovo ci ritroviamo razzisti, claustrofobici, ideologici, egoisti.

Il movimento, il trapassamento del paradigma in un altro non sta, non può stare, in un semplice, formale, virtuale accreditamento dell’altro, dopodiché tanti saluti e arrivederci, ma nella reciproca legittimazione dei paradigmi o quanto meno nel riconoscimento del loro soggettivo fondamento: il reale, prospetticamente avvicinato, produce riverbero e moltiplicazione di valore, come la luce i colori, e quindi il pluralismo, nell’attuale condizione evolutiva, non può che essere la prospettiva  più legittimata a produrlo, manifestarlo e dichiararlo, e soprattutto a cercarlo.

Appare pertanto irrinunciabile l’acquisizione di un habitus flessibile e dinamico, in grado di non aderire o adempiere per appartenenze, per identificazioni viscerali e di pancia, per superego collettivi deprimenti l’intelligenza e l’amore (si può uccidere per una religione o una squadra di calcio, quando non si esiste più, se non come collettiva aderenza a un senso posticcio e supplettivo del proprio io fragile e inconsistente), ma di comprendere e interagire, di dialogare, interrompersi e riprendere il confronto, per stabilire i punti di contatto, le affinità, le differenze, ipotizzare le ragioni, le genesi, fondarne o, meglio, riconoscerne la credibilità, la sussistenza, il riferimento al valore.

Non si parla qui di accettare posizioni entro lo stesso ambito: facile! Facile per il liberismo dialogare con il socialismo e magari parlare di economie miste, per il cristianesimo rivolgersi all’islam e scoprirne le affinità, per la cultura scontrarsi con la controcultura e ibridarsi di elementi eterogenei… No, qui si tratta di accettare per il teismo il valore, i contributi dell’ateismo e dell’agnosticismo, per il nominalismo il valore del realismo, per la metafisica quello del nichilismo… E non si creda, ovviamente, a una conversione univoca: spesso, chi detiene lo status di minoranza o controcultura rispetto a un tempo o a una civiltà, esprime rigidità anche superiori a quelle che vorrebbe denunciare e smantellare…

Occorre cioè capire che tutti parliamo del senso. E cerchiamo di trovarlo. E per far questo elaboriamo disegni, suoni, parole, gesti, forme che sono sempre più o meno autentici – in qualche misura –, e che così facendo manifestiamo il nostro comune riferimento al senso, il suo riverbero in noi, la carne che esso prende in noi. Questa carne non possiamo tradirla: è lo spazio-tempo che abitiamo, vivifichiamo, trasfiguriamo, o degradiamo. Non la mia carne sola ha un senso, ma il corpo dell’universo mondo e tutte le singole carni in esso, e quindi una verità ermeneutica e plurale.

Non possiamo più sterilizzare il mondo attorno a noi, lasciando solo essere il nostro cosmo semantico ma, uscendo da esso (come disposizione etica) e insieme attraverso di esso (come paradigma culturale), dobbiamo cogliere le altre configurazioni di senso, gli altri disegni, come grafie del medesimo mistero, e questo comporta empatia per esse, ma soprattutto, amore per l’universale fondo, per l’abissale enigma, per l’insondabile essere/non-essere?, che in esso si cela, manifesta, dichiara e insieme, umilmente, occulta.

Sì, dobbiamo assumere il paradigma, almeno in questa fase storica di travalicamenti, declini, mutamenti, di una interpretazione aperta della nostra esperienza, di una assimilazione empatica del “diverso da noi”, e quindi di una traduzione attenta e simultanea delle diverse esperienze, ambiti, linguaggi, che si configuri non tanto analiticamente (questo verrà da sé, e sarà un compito storico, generazionale, epocale, lungo e faticoso…) ma come danza, come adattamento che il bello, con la sua capacità mimetica, la sua armonia, i suoi occultamenti e le sue rivelazioni, sa manifestare per antonomasia e che la cultura e la fede (ogni fede, umanistica, naturalistica o religiosa che sia…) dovranno attuare nel difficile passaggio del terzo millennio. Da un paradigma scientifico dovremo tendere a una nuova estetica, e questa porterà una nuova età dove, almeno lo speriamo, “Misericordia e verità s’incontreranno,/ giustizia e pace si baceranno.” (Sal 84, 11), “Il lupo dimorerà insieme con l’agnello,/ la pantera si sdraierà accanto al capretto;/ il vitello e il leoncello pascoleranno insieme/ e un fanciullo li guiderà.” (Is 11, 6).

(da Claudio Sottocornola, Fiorire nel deserto, Velar 2023, pp. 71-75; estratto da Stella Polare, CLD-Marna 2013)