Ciò che diceva Franco Battiato

Franco Battiato

Franco Battiato

ANTONIO VIGLINO

Molti sanno che Franco Battiato fosse addentro alle cose spirituali ed iniziatiche; ed anzi egli stesso in più occasioni ed interviste, oltre che nei testi delle sue opere, lo affermava ed illustrava, sempre dall’alto di un distacco ironico e complice che già da solo rivelava in lui una persona pratica di esperienze non comuni.
Ma per altro verso Battiato, in ciò fedele ai capisaldi delle dottrine esoteriche, non esplicitava quali operativamente fossero e di che grado fossero, giacché l’esoterismo è scienza eminentemente empirica, le sue conoscenze; né, ci pare, i suoi ammiratori vanno al di là del semplice riconoscere al maestro siciliano un’aura latu sensu mistica, termine, quest’ultimo, che viene impiegato dai pragmatici uomini dell’Occidente per mascherare la loro desertica ignoranza circa le cose non strettamente corporee.
Pare quindi costruttivo mostrare alcuni dei significati reconditi delle canzoni di Battiato, quel tanto che basta per far apprezzare sprazzi del suo retroterra sapienziale.
I testi di Battiato sono in larga parte costituiti da versi enigmatici, da allusioni ad un sapere arcano; il loro significato non è bene esplorare a fondo, per due motivi. In primo luogo perché questi sono i semi che il compositore volle gettare al suo pubblico, e come tali essi devono maturare da sé, laddove il rivelarne i precisi significati, o alcuni di essi, tradirebbe la volontà stessa del loro autore. Ed inoltre lo spiegare perle di conoscenza segrete ha solo effetti negativi: espone al dileggio argomenti della massima serietà, lo dice anche Platone, e soprattutto priva chi si trovi sul sentiero di poter scoprire da sé un aspetto della vera realtà, mentre è proprio questo l’unico modo di progredire, l’esperire e veder confermato il proprio esperire.
È invece proficuo dare indicazioni intorno a due di quelle che sono le aree sapienziali alle quali Battiato si è abbeverato — egli infatti era solito dire che era opportuno, per chi fosse assetato di conoscenza, affacciarsi in modo eclettico alla diverse tradizioni, ovvero alle diverse forme in cui l’unica e sola Sapienza si è tramandata, per quindi soffermarsi su quella o quelle verso le quali ci si sente più affini.
La svolta pop di Battiato avvenne a partire dal disco L’era del cinghiale bianco, ed ebbe il suo primo culmine di successo con La voce del Padrone. Entrambi questi dischi pagano pegno alla lettura da parte di Battiato dei testi di G.I. Gurdjeff — ma già il pezzo L’Egitto prima delle sabbie, che costituisce il lato A del disco omonimo del 1978, è ispirato da Gurdjeff, il quale in Racconti di uomini straordinari testimonia che durante la sua avventurosa giovinezza ebbe fortunosamente tra le mani appunto la mappa dell’Egitto prima delle sabbie; e di Gurdjeff stesso, o di suoi discepoli, sono alcuni testi da Battiato pubblicati negli anni ’80 dalla sua casa editrice, L’Ottava.
Gurdjeff, armeno, era un adepto della Grande Sacra Tradizione, della conoscenza verace della quale volle irradiare il mondo occidentale già soffocato dal materialismo. Il concetto di base degli insegnamenti di Gurdjeff è “il ricordarsi di sé”: questo suggerimento è lo stesso dello ghnothi sautòn greco, il “conosci te stesso” di Socrate e Plotino e tanti altri, di cui molti hanno sentito parlare, solo calato in una dimensione più pratica ed effettiva di quella usualmente nota a partire dal mondo della grecità. Appunto connesso al ricordarsi di sé è il centro di gravità permanente, titolo di una delle più celebri canzoni dell’artista siciliano. Questa nozione viene per lo più intesa come uno stato di atarassico distacco dalla realtà, ma non è affatto così; una descrizione congrua del centro di gravità permanente, assimilabile al pratyahara degli yoga dell’India, allo samatha buddhista, ed anche se si vuole al kathōràn del Sofista di Platone, è data dalla Isa Upanishad: “di tutto questo (il mondo) fruisci avendovi rinunciato”.
La seconda contrada che occorre conoscere per intendere a fondo il messaggio di Battiato è il Buddhismo tibetano, che viene dall’artista sublimato in due splendide canzoni della piena maturità come Testamento e l’ultima Torneremo ancora. Il Buddhismo tibetano, la più ricca forma del Buddhismo tantrico o veicolo Vajrayana, è naturalmente originario dell’India, da dove si trasferì nel Paese delle Nevi in due ondate di traduzioni di tantra, dapprima, nell’ottavo secolo, grazie a Padmasambhava, il Nato-dal-fiore-di-loto, una incarnazione del Buddha Shakyamuni, dai cui insegnamenti originò la scuola Nyingma, e poi tre secoli dopo, attraverso la linea che unì Tilopa, bengalese, a Naropa, indiano, attraverso Marpa il Traduttore, tibetano, fino a Milarepa yogi tibetano tra i più illustri, da qui sgorgando nelle scuole delle nuove traduzioni, Karma-Kagyu, Gelug e Sakia.
L’aspetto che maggiormente affascina Battiato pertiene alla morte, e su questa si focalizza, definendola “il bardo”. Ma bisogna sapere che per il Buddhismo la morte è solo uno dei tanti bardo che l’uomo incontra durante la sua esistenza. I bar-do sono propriamente fasi di transizione tra uno stato di coscienza e l’altro: c’è il momento in cui si passa dalla veglia al sogno, dal sogno al sonno profondo, ma anche lo spazio tra due pensieri, quando un pensiero è finito e prima sorga il successivo, è un bardo. La morte è la fase transizionale tra la vita e lo stato successivo, alla quale segue il bardo del divenire, corrispondente allo spazio che precede una nuova rinascita. Queste scansioni non sono esclusive del Buddhismo tibetano, bensì sono comuni a tutto l’Oriente e a tutte le tradizioni esoteriche della Terra; ed è proprio questo che Battiato dice nel refrain di Testamento: “noi non siamo mai morti, e non siamo mai nati”.  I bardo sono momenti importanti e preziosi perché sono le finestre durante le quali è possibile per l’uomo giungere alla liberazione, che è liberazione propriamente dal ciclo delle rinascite, il quale circolo costringe la parte immortale e divina che ciascuno è ad essere ostaggio di un corpo — il corpo è tomba, dicevano gli Orfici ed anche Platone, giocando sulla circostanza che in greco corpo si dice sōma e tomba sēma. Quando la liberazione accade nei bardo che si susseguono durante la vita, allora si ha la liberazione in vita (lo jivanmukta indiano), mentre se accade dopo la morte si ha la liberazione tipica, perché il bardo della morte è semplicemente quella condizione in cui è più facile riconoscere la chiara luce, la propria vera natura divina, specialmente se durante la vita si sono praticati gli yoga — in Torneremo ancora canta appunto Battiato: “finché non saremo liberi torneremo ancora, e ancora”. Il Libro dei morti tibetano in realtà è solo un’appendice al trattato di Padmasambhava sugli Insegnamenti sui sei bardo, non è un testo a sé di chissà quale significato escatologico; ed anzi si compone semplicemente di istruzioni che un lama deve dare ai morenti allo scopo di facilitare il riconoscimento della chiara luce.
Naturalmente Battiato conosceva benissimo le basi dottrinali del Buddhismo tantrico, e si è semmai concentrato sul bardo della morte perché questo era l’aspetto che gli stava a cuore comunicare, probabilmente per la stessa esigenza per cui debbono scrivere lama e yogin, cioè per il beneficio degli esseri senzienti.