Prima della voce si forma la poesia

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GABRIELLA MONGARDI
Echi di Montale e Novalis si colgono nel congedo della nuova raccolta poetica di Paolo Parrini, Prima della voce, Samuele Editore, Fanna 2021:
Il cammino si conclude qui
dove era cominciato.
I giorni sono sentinelle stanche
riconosci gli odori e il silenzio.
Forse solo un poco più fondo
questo muoversi piano delle cose
l’emozione sale a cercare il fiore incolto.
Sei partito per tornare a casa
ora è tempo di raccoglimento.

Il cammino che finisce «dove era cominciato» è un cammino circolare, ma non è stato un inutile girare a vuoto se ha permesso di riconoscere «il muoversi piano delle cose»; se la meta del partire era il «tornare a casa», nel «raccoglimento».

Parola densamente polisemica, “raccoglimento” rimanda sia all’atteggiamento di concentrazione interiore tipico della preghiera e della meditazione sia al raccogliere e al raccolto.
Veicolo di questo cammino verso e nel “raccoglimento” è la poesia, che si forma «prima della voce» nonostante usi la voce e le parole come suoi strumenti; frutto del cammino sono le quarantacinque brevi liriche senza titolo che parlano di neve e di sole, di mare e di erba – e d’amore, soprattutto – attraverso immagini nitide e fresche, espresse in una lingua tersa e netta.
Sono frammenti di vita che diventano emblemi per forza di parola, e così sono trasfigurati in lampi di luce, come questi:

Farsi raggio o crepa,
sottile, annidarsi nei concavi
spazi, addormentare la memoria.
Quello che non abbiamo
sono i suoni iniziali dei nomi
che un tempo ebbero un volto.
Sia benedetto
questo spazio fatto altrove.

Cosa resta di questi giorni
bruciati e gelidi,
dell’ubriacatura d’un temporale,
di quel che racchiude un bicchiere
senza memoria.
Il primo bacio scivola via,
tra le dita e i capelli.

La prima lirica denuncia una mancanza, quella dei «suoni iniziali», che la poesia deve colmare, cioè «annidarsi nei concavi spazi», in modo che lo spazio si faccia «altrove». La seconda riprende il motivo dell’assenza di memoria per ribadire che «di questi giorni / bruciati e gelidi» resta la poesia, che nasce dall’ossimoro del vivere e vi si insinua come “raggio”, o “crepa sottile” fino a farlo esplodere. La poesia è sempre un evento improvviso e dirompente, una “voce giunta con le folaghe” come voleva Montale, un’epifania che ha del miracoloso, come lo sbocciare inaspettato di un fiore:
Poi nasce un fiore all’improvviso
là dove tacciono le fronde
ha il nome di una voce ormai passata
persa tra le dune e il temporale.
Stanotte ha raffrescato sopra i tetti
sui vetri già colmi dell’inverno
piccole dita intrise di calore
hanno scolpito i segni del tuo tempo.
Domani risvegliati avremo un altro sole.

La poesia, accostando parole usuali, logorate dall’uso quotidiano, in combinazioni inusuali, le rinfresca, le ravviva, le rinnova sia per l’autore che per il lettore, sicché «domani risvegliati avremo un altro sole».