Salvate il soldato Dante. Il Poeta in armi

San Gimignano, Palazzo Comunale

San Gimignano, Palazzo Comunale

PAOLO LAMBERTI

La malattia di Dante

Dante sviene; delira; ha problemi di vista e di cecità temporanea. Le opere dantesche sono ricche di notazioni su una salute tentennante, in particolare per la tendenza a mancamenti. Ricordiamo la malattia della Vita Nova che gli provoca «forte smarrimento». Sviene da bambino il giorno della nascita di Beatrice. Sviene alla sua presenza incontrandola ad un matrimonio. Cade incontrando la donna della Montanina. Nella Commedia cade come corpo morto nel canto di Francesca, i suoi sonni nel Purgatorio sono subitanei e ricchi di visioni, perde conoscenza nel Paradiso Terrestre e in quello celeste. Nel descrivere Vanni Fucci che ritorna in forma umana sembra di cogliere un’esperienza personale:

E qual è quel che cade, e non sa como,
per forza di demon ch’a terra il tira,
o d’altra oppilazion che lega l’omo,

quando si leva, che ’ntorno si mira
tutto smarrito de la grande angoscia
ch’elli ha sofferta, e guardando sospira
(Inf. XXIV 112-117)

Lombroso aveva offerto una diagnosi di epilessia, lasciata cadere dagli studiosi danteschi, ma oggi ripresa con diagnosi di narcolessia da un gruppo di ricercatori del dipartimento di Medicina evoluzionistica dell’Università di Zurigo, in una ricerca pubblicata su The Lancet Neurology. Nel verso mi fa tremar le vene e i polsi ci sarebbe una descrizione della ‘reazione attacco-fuga’, una reazione fisiologica che si verifica in risposta a un pericolo. Dante dice di iniziare il viaggio pien di sonno, con continui riferimenti alla spossatezza fisica accompagnata dalla necessità di dormire, spesso a seguito di forti emozioni; appare nei sogni la natura di ‘sogno lucido’ tipica dei pazienti narcolettici. Le architetture di luce del Paradiso poi richiamano i disegni delle proprie visioni tracciati dalla mistica Hildegard von Bingen, che il neurologo Oliver Sacks ha collegato alle forme di emicrania a grappolo. Né sono mancate ipotesi legate a sostanze psicotrope, da quella un po’ hippy di Barbara Reynolds che pensa agli Stilnovisti che indulgono alla cannabis o al papavero da oppio, all’idea di Francesco Fioretti, e dello psichiatra Bruno Biancosino, che hanno spiegato gli stessi fenomeni con l’ergotismo, l’intossicazione da segale cornuta.

Per venire all’argomento militare, gli autori di un libro su Campaldino, Devries e Capponi, hanno ipotizzato per Dante sintomi di stress post traumatico (PTSD) legato all’esperienza della battaglia. Ipotizzare qualche problema legato all’attività elettrica del cervello non sembra scandaloso, il richiamo alle sostanze psicotrope e allo stress sembrano più un’attribuzione a Dante di idee fisse del presente. Sempre ricordando che nel Medioevo lo spazio letterario è fortemente convenzionale, e l’autore si fa personaggio secondo topoi molto rigidi, che prevedono forme ritualizzate di comportamento.

L’idea del PTSD contrasta con la precocità degli episodi riferiti da Dante. Ma dimentica anche quanto l’esperienza della violenza fosse diversa nel Medioevo. Oggi il PTSD nasce dalla meccanizzazione della guerra, che la disumanizza e mette il soldato di fronte ad una morte subitanea ed anonima, inflitta da strumenti lontani o invisibili; nasce anche dallo iato sempre crescente tra l’esperienza della vita civile, quasi priva di violenza, e il campo di battaglia. Non era così nel Medioevo, in cui la violenza era quotidiana e naturale, dei genitori sui figli, dei mariti sulle mogli, dei maestri sugli apprendisti. Anche a livello sociale e politico la forza era usata regolarmente. Le cicatrici erano spettacolo normale, da Forese c’ha la faccia fessa, a Ghignata Uberti, così definito per un colpo di spada che gli aveva allargato la bocca in un ghigno.

Anzi sembra che in questo contesto Dante ne uscisse come timido, se non codardo; negli anni intorno al 1296/97 qualcosa colpisce il prestigio personale del poeta, che si potrebbe riassumere con la parola viltade: indizi ne sono la tenzone con Forese, con le insinuazioni sull’usura del padre e sul torto da lui subito e che Dante non vendica; e il gesto di disprezzo di Geri del Bello, cugino del padre di Dante, che sembra col minacciar forte accusare Dante di non averlo vendicato. Sembra che Dante non voglia seguire i codici di onore, faida e vendetta che un Cavalcanti non abbandona; questo rifiuto, come più avanti il rifiuto delle fazioni e della guerra come risposta all’esilio, ci rendono il poeta più vicino, ma lo rendono meno comprensibile ai suoi contemporanei.

Equites

Tutti conoscono il ritratto di Cavalcante Cavalcanti che Dante ci lascia nel cerchio degli eretici: al lettore rimane l’impressione di un uomo debole, prostrato, timido nel guardarsi intorno. Dante lo costruisce artisticamente, per contrapporlo alla dimensione intransigente ed eroica (per il lettori ottocenteschi) di Farinata.

Allor surse a la vista scoperchiata
un’ombra, lungo questa, infino al mento:
credo che s’era in ginocchie levata.
Dintorno mi guardò, come talento
avesse di veder s’altri era meco;
e poi che ’l sospecciar fu tutto spento,
piangendo disse
(Inf. X, 52-58)

Ma Dante è consapevole che il lettore fiorentino a lui contemporaneo coglie l’intenzione artistica senza condividere la nostra impressione di debolezza: infatti ha ben presente la figura del padre di Guido, come ci è arrivata in un sigillo conservato al Bargello. È un cavaliere corazzato, con elmo e cotta di maglia, spada in mano, su un cavallo coperto anch’esso di cotta di maglia, con scudo triangolare con lo stemma a piccole croci fiorite. Quello che vediamo è un tipico “Magnate” della seconda metà del Duecento, che si identifica con i valori cavallereschi e soprattutto con la dimensione militare della nobiltà, i milites che ormai sono caratterizzati dal combattere come cavalleria pesante, e il cui simbolo non a caso sono gli speroni d’oro. Né Cavalcante avrebbe potuto simulare la propria autorappresentazione, in una comunità così coesa come quella fiorentina: Dante quindi sa che il suo lettore coglie la sua abilità artistica nel contrapporre così efficacemente due figure che nella realtà avevano molto in comune, non ultimo il fatto di essere consuoceri, visto che Guido sposa una figlia di Farinata, nel quadro di quei matrimoni politici che rientrano nel gioco delle fazioni, degli scontri e delle rappacificazioni. Se Dante nel X canto può permettersi di trattare da pari a pari con Cavalcante e ancor più con Farinata, è perché rivendica per sé un’analoga condizione: non tanto nobiliare, di una piccola nobiltà che di fatto non esiste, e che rivendicherà solo nell’incontro con Cacciaguida nel Paradiso, quanto militare.

Nella Epistula II,7-8 ai conti di Romena (Oberto et Guidoni comitibus de Romena) Dante lamenta la propria povertà: scrive «inopina paupertas quae fecit exilium … equis armisque vacantem iam sue captivitatis me detrusit in antrum». Il passo è da datare dopo il novembre 1304, essendo un biglietto di condoglianze per la morte di Alessandro da Romena, zio dei conti. Dunque Dante non chiede asilo, denaro o libri, ma armi e cavallo. A quasi quarant’anni, a 15 da Campaldino, si risente la voce dell’equitator. Non eques: gli speroni d’oro sono tipici dei Magnati, e solo nel Paradiso, dopo aver maturato una ben diversa visione, Dante trasformerà in miles Cacciaguida, forzando probabilmente vaghe memorie di famiglia e facendo una certa confusione tra Corrado II, crociato mai stato a Firenze, e Corrado III, che fu a Firenze ma non in Terrasanta.

Per essere schierato tra i feditori, Dante doveva comunque avere la possibilità di procurarsi almeno le armi, spada, scudo e cotta di maglia, anche se forse il cavallo era fornito da cittadini più ricchi, oppure dal Comune: esisteva una multa pesante per chi se lo vendeva, segno che succedeva anche quello. Ma soprattutto doveva saperli usare: combattere da cavallo, e saper cavalcare in battaglia non sono capacità che si improvvisano. Evidentemente oltre che scrivere poesie e dipingere doveva anche allenarsi cavalcando e tirando di spada. Possiamo immaginare con un Dino Frescobaldi, stilnovista ma anche guelfo nero e membro di una famiglia importante. Soprattutto con il primo amico, Cavalcanti, che, come ci ricorda Dino Compagni, era anche atletico e abile al combattimento:

Come sé saggio, dico, intra la gente,
visto, pro’ e valente,
e come sai di varco e di schermaglie,
e come assai scri[t]tura sai a mente
soffisimosamente,
e come corri e salti e ti travaglie.

Poeta raffinatissimo, filosofo quasi eretico, trovava naturale scagliare una freccia contro Corso Donati, non in guerra ma in un giorno qualsiasi (salvo fuggire veloce alla reazione del Barone: «Messer Corso forte lo temea, perché lo conoscea di grande animo; e cercò d’assassinarlo, andando Guido in pellegrinaggio a San Iacopo; e non li venne fatto. Per che, tornato a Firenze e sentendolo, inanimò molti giovani contro a lui, i quali li promisono esser in suo aiuto. E essendo un dì a cavallo con alcuni da casa i Cerchi, con uno dardo in mano, spronò il cavallo contro a messer Corso, credendosi esser seguìto da’ Cerchi, per farli trascorrere nella briga: e trascorrendo il cavallo, lanciò il dardo, il quale andò in vano. Era quivi, con messer Corso, Simone suo figliuolo, forte e ardito giovane, e Cecchino de’ Bardi, e molti altri, con le spade; e córsogli dietro: ma non lo giugnendo, li gittarono de’ sassi; e dalle finestre gliene furono gittati, per modo fu ferito nella mano.» Compagni I,20).

Nella lettera ai conti di Romena è appunto richiesto un equus: non un caballus o un roncinus con cui spostarsi, ma un cavallo da battaglia, un animale imponente e difficile da domare. Di qui nasce la similitudine del VI del Purgatorio, che va intesa non genericamente, ma proprio con l’ottica dell’equitator. Il cavallo/Italia è appunto un equus, che va guidato stando in sella e non tirato per la predella. Termine questo tecnico e preciso: è la sbarra di ferro che si pone in bocca al cavallo, dietro gli incisivi, ed è collegata da due sbarre al morso vero e proprio. Prenderlo di lato per tirare il cavallo provoca dolore, e la bestia è fatta fella, con esiti poco piacevoli per l’incauto che vi si trova davanti: soprattutto se l’incauto è abituato alle mule ecclesiastiche. Quanto è lontano il cavallo di Dante dalla mula di Don Abbondio! Come Dante da Manzoni.

 La situazione internazionale

Con le battaglie di Benevento e Tagliacozzo il potere svevo tramonta ed in Italia si instaura un asse tra Angiò e Papato che ha come tramite i Guelfi toscani e soprattutto fiorentini. Non è solo un asse politico e militare, ma ancor di più commerciale e finanziario. Le armi angioine e il potere temporale papale aprono un flusso commerciale che dalla Francia transita per la guelfa Genova ed approda in Toscana, finanziato dai banchieri fiorentini che gestiscono anche la maggior concentrazione di ricchezza dell’Europa, ovvero la finanza pontificia. Città e signori che facevano riferimento agli Svevi sono in grave difficoltà. Tale situazione muta con i primi anni Ottanta, quando il potere angioino deve affrontare i Vespri Siciliani e la guerra con gli Aragonesi, e quando sul trono imperiale si afferma Rodolfo d’Asburgo, intenzionato a farsi incoronare in Italia.

Anche il legame tra Roma e Napoli si allenta: papa Martino IV, pur scomunicando Pietro d’Aragona, vede affievolirsi il potere angioino, sia per la perdita della Sicilia e la cattura del futuro Carlo II d’Angiò, sia per la sconfitta a Forlì (1282) di un esercito francese ad opera di Guido di Montefeltro: di Franceschi sanguinoso mucchio (If XXVII 44) ricorda Dante. Quindi il successore, dal 1285, Onorio IV, apre all’imperatore, che in cambio del riconoscimento dei diritti imperiali gli cede la Romandiola, atto che sancisce definitivamente l’entrata della Romagna nello stato pontificio, almeno sino all’Unità d’Italia. Un piano analogo sembra nascere tra i due: ricondurre al giuramento imperiale anche la Tuscia, in cambio dell’elezione a Re dei Romani del figlio Alberto d’Asburgo, per poi affidarla al papa. Inutile ricordare l’ostilità dantesca ad ogni diminuzione del potere imperiale: nel II libro del De Monarchia è la donazione di Costantino ad essere considerata illegittima, poiché l’imperatore è tale in quanto universale, ogni diminuzione dell’Impero esula dal suo potere; una dimostrazione rivolta anche ai suoi tempi.

 La situazione toscana

La Toscana ha visto il potere ghibellino, affermato con la vittoria di Montaperti (1260), tramontare con gli Angiò. La ghibellina Siena, vincitrice a Montaperti, sarà costretta a farsi guelfa, i ghibellini fiorentini saranno cacciati nel contado, persino Pisa, caposaldo imperiale, dopo il disastro della Meloria (1284) deve cedere il potere ad Ugolino della Gherardesca, politico spregiudicato che si fa Guelfo. Tuttavia il panorama toscano è molto più complesso: alla frattura tra guelfi e ghibellini si somma la divisione tra Magnati e Popolo (ovvero le vecchie casate nobiliari e i nuovi ceti comunali) e quella tra un contado ancora feudale e le città che mirano a sottometterlo. Senza dimenticare una infinita serie di faide e contrasti che dividono anche le famiglie: basti ricordare i conti Guidi, con Guido Novello tra i capi ghibellini e Simone Guidi, podestà della guelfa Siena, mentre lo zio Guido Guerra è a fianco di Carlo d’Angiò a Benevento.

Arezzo, anch’essa dominata da nobili a maggioranza ghibellini, vede una serie di cambiamenti: sulla città si stende il lungo potere del vescovo Guglielmino degli Ubertini, sulla cattedra dal 1248. Membro di una potente casata, signora di più castelli e del borgo di Bibbiena, è politico abilissimo, capace di muoversi sia ad Arezzo che a Roma. Questo lo porta a tollerare l’ascesa al potere ad Arezzo del Popolo, iniziata negli anni Settanta e resa evidente dalla costruzione del Palazzo del Popolo. Nel 1277 nasce però un governo di Magnati guelfi e filo-angioini, che a partire dagli anni Ottanta vede una ripresa del Popolo, che nella primavera del 1287 caccia i grandi e instaura un regime comunale sotto la guida del giurista Guelfo da Lombrici. Ma dopo pochi mesi il vescovo unisce i nobili, sia guelfi che ghibellini, e riprende il potere, per poi cacciare le famiglie guelfe, che si rifugiano a Firenze.

 Vuoti di potere

La seconda metà degli anni Ottanta vede la situazione internazionale complicarsi a causa di una serie di vuoti di potere. Il papato vede succedersi tre papi tra 1285 e 1288, con linee politiche diverse: decisamente filoangioina per Martino IV, francese, guelfa ma aperta all’imperatore per Onorio IV, romano della famiglia Savelli, mentre Niccolò IV, primo papa francescano, cerca di pacificare l’Italia in nome della Crociata, anche se dovrà essere lui a vedere la caduta di Acri nel 1291, ultimo baluardo in Terrasanta. Di Acri si ricorderà Dante nell’invettiva di Guido da Montefeltro contro Bonifacio VIII (e nessun era stato a vincer Acri Inf. XXVII, 89), ma a Campaldino nessuno, neanche il poeta, a quanto pare, si preoccupava della città assediata. La sede vacante tra aprile 1287 e febbraio 1288 peserà sulla guerra tra Arezzo e Firenze.

Per gli Angiò, tra la morte di Carlo I nel gennaio 1285 e la liberazione di Carlo II nell’autunno 1288 dal carcere aragonese, c’è un periodo di vuoto di potere, anche se la morte nel 1285 di Pietro III d’Aragona lo rende meno drammatico. Anche Rodolfo d’Asburgo si vede rallentato, le morti papali fermano il suo progetto di scendere in Italia, e contrasti tra i nobili tedeschi e il legato pontificio inviato da Onorio IV lo bloccano in Germania. In questo clima le fazioni toscane trovano spazio per i propri progetti, di rivalsa i ghibellini, di repressione i guelfi, mentre il vicario imperiale nominato nel 1286 da Onorio IV per la Toscana, l’arcivescovo Percivalle Fieschi, cerca invano di unire le città toscane a San Miniato sotto l’imperatore; tentativo durato anni, tra viaggi in Germania e ritorni, sinché si unirà ad Arezzo e sarà a Campaldino.

Casus Belli: Dante vede l’elefante?

La guerra che porta a Campaldino ha un prologo: nel settembre 1285 esuli ghibellini da Firenze e Siena occupano il castello di Poggio Santa Cecilia, per minacciare Siena e separarla da Firenze; con loro sono centinaia di fanti aretini, guidati dal figlio del vescovo Guglielmino e da Simone de’ Pazzi. I guelfi reagiscono subito, assediano il castello da ottobre, con milizie fiorentine, senesi e pisane (inviate da Ugolino) e cavalieri francesi condotti da Guido di Montfort. L’assedio viene stretto con rinforzi guidati da Corso Donati e Nello Pannocchieschi (il marito di Pia de’ Tolomei). Arezzo, su cui contavano gli assediati, non interviene, utilizzando l’assedio come diversione. Nell’aprile 1286 parte della guarnigione fugge, gli altri si arrendono: alcuni esuli senesi sono condotti a Siena e decapitati, altri fiorentini sono in carcere a Firenze ancora 15 anni dopo, una sessantina di ghibellini è impiccata sul posto. A questo episodio si è voluto riferire un passo della Vita Nova: «Appresso la morte di questa donna [la donna schermo] alquanti die avvenne cosa per la quale me convenne partire de la sopradetta cittade» (V.N.IX,1/4.1 Gorni). Ad esso segue un sonetto:

Cavalcando l’altr’ier per un cammino,
pensoso de l’andar che mi sgradia,
trovai Amore in mezzo de la via…

La poco gradita (mi sgradia) cavalcata di un Dante assorto nei pensieri d’Amore avrebbe trasfigurato la partecipazione del poeta all’assedio: lo confermerebbero l’obbligo implicito in convenne e il termine Cavalcando, cui il TLIO attribuisce anche il senso di «scorrere con la cavalleria un paese nemico (per devastarlo)». L’ipotesi è destinata a rimaner tale, ma l’età non lo esclude, e il ruolo di Dante a Campaldino fa pensare che non fosse un novellino.

Le Giostre del Toppo

Il 3 ottobre 1287 Firenze dichiara guerra ad Arezzo; nell’inverno successivo gli aretini attaccano con scorrerie, il vicario Fieschi conquista Chiusi, e, nonostante i tentativi papali di pacificazione, a giugno l’esercito guelfo (Fiorentini e Senesi soprattutto) assedia invano Arezzo, inscenando un palio sotto le mura della città per San Giovanni; ma il giorno dopo si leva l’assedio, e i Senesi decidono di separarsi per conquistare Laterina. Sono circa 400 cavalieri e 3000 fanti. Arezzo lo scopre e manda un veloce reparto di 300 cavalieri e 2000 fanti al comando di Bonconte e Guglielmo Pazzo, nipote del vescovo Guglielmino. Il 26 giugno i senesi sono sorpresi in marcia disordinata a Pieve del Toppo, tra gli acquitrini: ne segue un’imboscata micidiale, con centinaia di morti: i cavalieri aretini caricano come in una giostra i senesi (si pensi alla giostra del Saracino ad Arezzo). E così le ricorda Dante incontrando il senese Lano Maconi:

E l’altro, cui pareva tardar troppo,
gridava: “Lano, sì non furo accorte/
le gambe tue a le giostre dal Toppo!” (inf. XIII, 119-121)

Un ricordo vivido, probabilmente derivato dall’incontro a Campaldino con altri senesi: magari proprio Cecco Angiolieri. Né sembra che Dante si rammarichi per la sconfitta guelfa: al di là delle alleanze, la rivalità tra le città è ben viva in Dante. A metà settembre gli eserciti guelfo e ghibellino si fronteggiano a Laterina: ma nessuno dei due decide di passare il fiume che li divide, e la campagna dell’anno termina con un nulla di fatto.

La campagna del 1289

I primi mesi dell’anno sono segnati da due avvenimenti: seguendo le indicazioni pontificie, alcuni fiorentini del Popolo cercano un accordo con il vescovo Ubertini, offrendogli denaro per alcuni castelli. L’episodio rivela quanto a Firenze settori popolari temessero la guerra come occasione per i Grandi di riaffermarsi politicamente. Effettivamente nel 1300 vi saranno scontri con magnati che rivendicavano la vittoria di Campaldino: «noi siamo quelli che demo la sconfitta in Campaldino» (Compagni Cron. I, 21). Il secondo vede passare a maggio per Firenze Carlo II Angiò, liberato a fine 1288. Il re non ancora incoronato ottiene grandi finanziamenti, e lascia alla città un nucleo di cavalieri, guidati da un giovane nobile, Aimeric de Narbonne, al cui fianco è un soldato esperto, Guillaume de Durfort, che avrà un ruolo fondamentale per guidare la campagna; in termini NATO sarebbe un J3, l’addetto alle Operazioni in un contingente interforze e multinazionale.

Mentre Guido Novello compie incursioni in territorio fiorentino, le insegne di guerra sono innalzate a Firenze il 13 maggio e i Guelfi il 2 giugno radunano l’esercito a Badia a Ripoli. Per dirigersi ad Arezzo, invece di seguire il Valdarno, dove li aspettano gli aretini, con un decisivo cambio di strategia valicano il passo in prossimità dell’attuale Consuma, passando dal Casentino. Fu una decisione inaspettata e rischiosa, dovuta in gran parte ai suggerimenti degli aretini di parte guelfa esuli a Firenze. L’esercito conta forse 12.000 uomini, tra 1300 e 1600 cavalieri e circa 10.000 fanti, in buona parte fiorentini ma anche da Lucca, Pistoia, Siena ed altre città e feudi; ai due francesi si affiancava al comando il podestà di Firenze, il parmense Ugolino de’ Rossi. Aggiungendo la solita folla che segue gli eserciti medievali, si comprende come mai ci siano voluti circa 8 giorni per percorrere una cinquantina di chilometri, sia pure su terreno parzialmente montuoso. I ghibellini furono presi in contropiede, ebbero notizia dell’avanzata solo dopo alcuni giorni e dovettero richiamare le forze ad Arezzo. Qui dopo affannose consultazioni si misero in marcia da Arezzo verso Bibbiena, per cercare di difendere i castelli dei Guidi, soprattutto Poppi, che sovrasta la piana di Campaldino. La marcia fu affrettata e in parte notturna, con il risultato che il 10 giugno arrivò a Campaldino un esercito stanco, a fronteggiare i Guelfi riposati. I Ghibellini contavano su circa 800 cavalieri e 8000 fanti, non solo aretini ma soprattutto nobili in esilio, come Ubertini e Pazzi, signori feudali come Guido Novello Guidi, signori dell’area adriatica come Bonconte da Montefeltro. Ad affiancare al comando il vescovo aretino, anziano ma esperto di guerra, e il nipote, erano Bonconte e il fratello Loccio e Guglielmo dei Pazzi di Valdarno, detto Guglielmo Pazzo.

Campaldino: gli eserciti

Apparentemente simili, gli eserciti che si affrontano a Campaldino incarnano i cambiamenti sociopolitici della Toscano di fine Duecento. Può sembrare strano per l’epoca, ma è opportuno partire dalla fanteria. La fanteria vede infatti una differenza significativa tra i due schieramenti: gli Aretini schierano una fanteria indifferenziata, con pochi balestrieri, oltretutto a corto di munizioni; rispecchiano così la funzione secondaria delle fanterie medievali, più adatte al “guastare” e agli assedi che alle battaglie campali, dove sono facile preda dei cavalieri. Dal punto di vista sociale sono composte da “genti meccaniche, e di piccol affare” (direbbe Manzoni), che politicamente pesano poco, soprattutto dopo la sconfitta del Popolo aretino.

Ben diversa è la fanteria fiorentina, socialmente figlia delle Arti e politicamente influente. Questo ruolo si rispecchia militarmente nella specializzazione, che segna l’ascesa di quest’arma nel corso del Medioevo sino ai tempi presenti: Campaldino, come Courtrai nel 1302, è uno dei primi scontri a dimostrarlo. Vi sono tre specialità: i pavesari o palvesari, soldati armati di uno scudo largo ed alto (il pavese o palvese), che formano una sorta di muraglia, tanto che Compagni ricorda che il miope vescovo Guglielmino l’avrebbe scambiata per una città. Ma a differenza delle mura, i pavesari sono mobili, e non solo hanno funzioni difensive, ma possono avanzare e schiacciare in una morsa l’esercito nemico. A difenderli sono i lancieri, soldati muniti di una lancia lunga che anticipa la picca, che sarà arma fondamentale almeno fino al Seicento: il loro scopo è bloccare i cavalieri con una foresta di punte. Dietro vi sono i tiratori, per lo più balestrieri: la cavalleria occidentale nel XII secolo aveva avuto brutte esperienze con gli archi compositi islamici e mongoli, e, superando i pregiudizi di classe e già del mondo classico contro le armi a distanza, aveva elaborato due risposte. L’arco lungo inglese era efficiente e rapido nel tiro, ma richiedeva anni di addestramento. La balestra invece, pur più lenta, è uno dei primi testimoni del legame tra guerra e tecnologia che segnerà l’ascesa dell’Europa. Già Anna Comnena ricorda la paura bizantina dinanzi alla potenza dei quadrelli anche contro le corazze. E il Concilio Lateranense II del 1139 l’aveva condannata e permessa solo contro gli infedeli. Ma ieri come oggi tra l’anima e l’arma non c’è gara. I genovesi diventeranno famosi per la loro abilità e per l’abbondanza di munizioni usata, anche per l’utilità della balestra negli scontri navali. I Fiorentini, loro alleati, ne traggono esempio, e per tutta la battaglia gli Aretini saranno bersaglio di una pioggia continua di verrettoni, che nella mischia colpiscono anche i cavalieri guelfi: il fuoco amico non è una novità.

La cavalleria rispecchia le diversità sociali. Gli aretini sono soprattutto nobili, professionisti ben armati, addestrati ed affiancati da nobili ghibellini, esperti come gli esuli fiorentini o come i cavalieri che vengono dal Montefeltro e dalla Romagna; ne sono consapevoli, e la loro aggressività spiega come pur molto inferiori di numero abbiano sferrato il primo attacco. Invece i cavalieri guelfi sono meno coesi: vi sono certamente uomini d’arme, come Corso Donati o i francesi o i cavalieri da Lucca e Pistoia, e i Magnati aretini esuli come i Bostoli. Ma c’erano anche i membri delle famiglie di recente potere, come i Cerchi, e figure minori come Dante: quindi livelli diversi di armamento ed addestramento.

Commissario fiorentino presso Amerigo di Narbona era un Simone de Bardi che potrebbe essere l’allora marito di Beatrice: pensarlo a fianco di Dante è curioso, magari si ignoravano o erano amici, o magari Simone sperava che una lancia aretina lo liberasse dall’importuno vagheggino; che a sua volta magari sperava in una spada che trasformasse Beatrice in una (in)consolabile vedova.

I Feditori a cavallo

Dante si trova nel reparto dei Feditori a cavallo. Può sembrare strano che un personaggio non di primo piano sia arruolato in un reparto di élite, tanto che non manca chi pensa che Dante fosse in realtà tra la fanteria: opinione che contraddice sia l’attenzione del poeta ai cavalli che le notizie su di lui. Spesso i commentatori hanno voluto vedere in questo reparto una cavalleria leggera, da ricognizione. Opinione da rigettare per più motivi. I Feditori sono schierati in prima linea, per assorbire l’urto aretino, compito non certo adatto a una cavalleria leggera. Tra di loro vi sono alcuni tra i più ricchi e più esperti cavalieri fiorentini: infatti ogni sestiere fornisce 25 cavalieri (la venticinquina è il reparto tattico base di cavalleria o fanteria, oggi un plotone). Il sestiere di San Pier Maggiore ha come famiglie di riferimento Donati e Cerchi; essendo Corso Donati al comando del reparto di Lucchesi e Pistoiesi (era al tempo podestà a Pistoia), è Vieri de Cerchi a arruolare la sua venticinquina. Per aumentare il suo prestigio ne prende il comando, pur essendo infermo ad una gamba, e vi inserisce figli e nipoti; che vi abbia chiamato anche Dante è indice che il legame di clientela del poeta con i Cerchi risale alla sua giovinezza. Si può immaginare che sia stato il ricco banchiere a fornire un cavallo da battaglia al giovane e non ricco Dante. Che i feditori fossero tra i cavalieri meglio equipaggiati lo dice anche la lista dei rimborsi per i cavalli persi: infatti la spesa dei cavalli era a carico dei cavalieri, non della città, che però rimborsava gli animali morti con una somma tra 20 e 70 fiorini (decisamente alta). La lista per Campaldino vede rimborsi per Vieri de Cerchi, 70 fiorini per Neri dei Bardi e Gianni Adimari, ben 200 per Stoldo Frescobaldi; non sappiamo per Filippo Adimari, il cui cavallo era valutato 200 fiorini e aveva finimenti d’argento, da cui il soprannome di Filippo Argenti, il ben noto personaggio tra gli iracondi. Non compare Dante, o perché non perse il cavallo o perché non era suo.

Campaldino: la battaglia, prima fase

Nonostante l’inferiorità numerica e la stanchezza l’attacco è sferrato dagli Aretini, vuoi per fiducia nella forza della cavalleria di sfondare le linee fiorentine vuoi per evitare l’assedio del castello di Poppi. La prima linea è costituita da circa 300 cavalieri, tra cui 12 figure di spicco definite dalle fonti “Paladini” (tra loro Bonconte). Alcuni pensano che siano stati i primi a caricare, ma non è un’ipotesi logica. Piuttosto dobbiamo immaginarli come comandanti di 12 venticinquine, ovvero 12 squadroni che probabilmente sono disposti su tre linee di 8 uomini, coprendo nell’insieme almeno 300 metri in larghezza (12×8, un centinaio di cavalieri, ciascuno coprirà circa 3 metri). Sono probabilmente affiancati da fanti leggeri e balestrieri, ma devono attaccare sotto il fitto tiro dei balestrieri fiorentini.

Primo ostacolo alla loro carica sono i feditori guelfi; per essi la situazione è difficile, sono probabilmente fermi e quindi devono assorbire il colpo; se schierati per la medesima larghezza, hanno una linea sottile, essendo la metà; se disposti su tre linee possono essere avvolti alle ali. Non è chiaro il motivo del loro essere disposti in questa posizione rischiosa, o era uno schieramento offensivo anticipato dagli Aretini o si sperava che potessero spezzare la carica avversaria, contando sull’esperienza di molti di loro. Invece sono travolti, molti perdono il cavallo e devono ritirarsi combattendo a piedi, altri, come probabilmente Dante, ripiegano velocemente verso le linee fiorentine: una manovra molto pericolosa, si capisce la temenza molta del poeta.

A questo punto la prima schiera ghibellina, ancora in movimento, colpisce il grosso dei cavalieri guelfi. Conoscendo la minor qualità fiorentina, i comandanti avevano disposto le salmerie sul retro dello schieramento dei cavalieri, per offrire loro sostegno ma anche per impedire la loro fuga. Gli Aretini rinforzano la prima carica con una seconda schiera di cavalieri, circa 350, che si uniscono alla spinta dei primi, non più con una vera carica ma gettandosi in quella che è diventata una mischia confusa. Ad essi si dovrebbero aggiungere le fanterie, che avanzano sotto il comando del vescovo e dovrebbero impegnare i fanti fiorentini. Ma qui cambia il volto della battaglia.

Campaldino: la battaglia, seconda fase

Mentre la spinta ghibellina si esaurisce nella mischia, avvengono tre movimenti decisivi. Nel primo i cavalieri francesi lanciano un contrattacco: in questo modo la spinta della cavalleria avversaria cessa. L’attacco è guidato da Aimeric de Narbonne, che verrà ferito al volto, e da Guillaume de Durfort, che morirà nello scontro. In suo onore il corpo verrà portato a Firenze e seppellito nella chiesa della SS. Annunziata, che ancora conserva la sua lastra tombale. Ai lati le fanterie fiorentine avanzano coperte dai pavesari, colpendo con le lunghe lance e continuando un lancio ininterrotto di quadrelli.

Ma la mossa decisiva è quella di Corso Donati: era stato schierato su un fianco, con circa 200 cavalieri e 500 fanti: secondo le cronache, con l’ordine di non intervenire pena la testa. Notizia abbastanza strana, se presa alla lettera, ma Villani forse riassume un ordine più complesso, che prevedeva un suo intervento al momento giusto. Come che sia, il Barone attacca (e di certo non perderà la testa) e colpisce sul fianco le fanterie aretine (Messer Corso Donati con la brigata de’ Pistolesi fedì i nimici per costa, Compagni I,10). A questo punto i ghibellini si trovano quasi circondati, e comincia il massacro. Come ricorda Dante nella lettera citata da Bruni: «Dieci anni erano già passati dalla battaglia di Campaldino, nella quale la parte Ghibellina fu quasi al tutto morta e disfatta». La battaglia dura 3-4 ore, con prigionieri da entrambe le parti, ma in maggioranza ghibellini, come ghibellini sono i morti più numerosi: le fonti parlano di 1700 morti, tra il 20 e il 30% dei combattenti. Molto minori le perdite guelfe, si parla di 300 caduti: di norma le vittime si avevano al momento della rotta.

Molti commentatori hanno visto il ricordo della violenza della battaglia nella bolgia degli scismatici, nel XXVIII canto. Così vediamo Pier da Medicina, che quasi ricorda la morte di Bonconte

Un altro, che forata avea la gola
e tronco ‘l naso infin sotto le ciglia,

e non avea mai ch’una orecchia sola,(Inf. XXVIII, 64-66)

E il mutilato Mosca dei Lamberti

E un ch’avea l’una e l’altra man mozza,
levando i moncherin per l’aura fosca,
sì che ‘l sangue facea la faccia sozza,
(Inf. XXVIII, 103-105)

Infine il decapitato Bertran de Born:

un busto sanza capo andar sì come
andavan li altri de la trista greggia;/
e ‘l capo tronco tenea per le chiome, (Inf. XXVIII, 119-121)

Mentre la figura di Maometto, sventrata, può richiamare un tipo di ferita non probabile per un cavaliere con corazza, ma comprensibile per quei guastatori armati alla leggera che fungevano spesso da saccheggiatori ed erano quindi odiati e massacrati.

com’io vidi un, così non si pertugia,
rotto dal mento infin dove si trulla.

Tra le gambe pendevan le minugia;
la corata pareva e ‘l tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia.
(Inf. XXVIII, 23-27)

Il vescovo Guglielmino, pur invitato alla fuga, decide di rimanere con i suoi e verrà ucciso e sepolto nella vicina chiesa di Certomondo (nel 2008 verrà identificato e traslato ad Arezzo); il suo elmo, coronato di mitria, verrà appeso nel Battistero di Firenze, dove rimarrà almeno fino al Seicento. Con lui muoiono molti capi, il nipote, Guglielmo Pazzo, alcuni Uberti, il portastendardo imperiale Guidarello Filippeschi. Invece Guido Novello, cui era affidata una riserva di 150 cavalieri con fanti, da soldato esperto si rende conto della sconfitta e invece di intervenire si chiude nel castello di Poppi. Scelta vituperata, ma sarà lui a continuare la tradizione ghibellina in Toscana. E il castello di Poppi cadrà in mano a Firenze solo nel 1440. Grande invece la gioia dei vincitori, tra loro la celebre frase dantesca nella lettera perduta Popule mee, quid feci tibi?, ricordata da Leonardo Bruni e scritta per ottenere il rientro a Firenze. Dante ricorda a suo merito la partecipazione alla giornata di Campaldino, «ove mi trovai non fanciullo nell’armi, dove ebbi temenza molta, e nella fine allegrezza grandissima per li varii casi di quella battaglia».

Bonconte

Campaldino è lo sfondo di uno dei canti più celebri, il quinto del Purgatorio, in cui compare Bonconte da Montefeltro. Dante qui vuole costruire una attenta corrispondenza tra il padre, Guido, dannato tra i consiglieri frodolenti (Inf. XXVII), e il figlio, salvato nell’Antipurgatorio, tra i negligenti, pentitisi in punto di morte violenta. Perfettamente parallela è la scena dell’altercatio tra il diavolo e il difensore dell’anima del morto; ma l’esito è opposto. San Francesco deve abbandonare l’anima di Guido al diavolo loico, poiché il Montefeltro si è affidato all’assoluzione di Bonifacio: doppio inganno, di Guido non veramente pentito, e del papa, che assolve di un peccato che si vuole commettere. Invece Bonconte si affida moribondo a Maria, che intercede presso Dio, che lo salva, come fa anche per Manfredi. Tutti episodi in cui Dante sceglie di ignorare le chiavi di San Pietro, quando sono impugnate da papi per scopi politici e di potere.

L’episodio nasce dal fatto che il corpo di Bonconte, probabilmente spogliato da soldati o contadini, non venne ritrovato o riconosciuto, permettendo a Dante di costruire l’episodio, inserendovi i suoi ricordi ed il temporale serale. Tuttavia sono passati probabilmente vent’anni, questo spiega l’evocazione del torrente Archiano, troppo lontano dal sito della battaglia, al posto del più vicino Sova. I commentatori quindi pensano ad un episodio inventato dal poeta. Ma i particolari della fuga e della gola forata

arriva’ io forato ne la gola,

fuggendo a piede e sanguinando il piano.

Quivi perdei la vista e la parola (Purg. V, 98-100)

sembrano quasi una testimonianza oculare, tanto che Zanichelli e Papini hanno addirittura attribuito a Dante l’uccisione di Bonconte. Molto improbabile, dato che i feditori si erano sbandati e Compagni ricorda che non avevano inseguito i fuggitivi. Però è possibile che altri fiorentini avessero visto la ferita e la fuga, pur senza inseguirlo. Del resto Dante, da veterano, è attento alle ferite, si pensi all’attenta descrizione di quelle di Manfredi (Purg. III,108-111)

ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso….

e mostrommi una piaga a sommo ‘l petto.

E una ferita alla gola è realistica: anche se si indossa una gorgiera di metallo, i movimenti del capo scoprono il collo, estremamente vulnerabile. Non a caso anche in questi anni molti soldati occidentali sono stati colpiti al collo, tra elmetto e giubbotto antiproiettile.

Dopo Campaldino

Per quanto importante storicamente, la battaglia di Campaldino ebbe scarsi effetti sul quadro politico-militare. I Fiorentini si diressero con molta calma verso Arezzo, posero l’assedio solo 8 giorni dopo la battaglia, e, nonostante le mura aretine non fossero complete, ma in parte costituite da palizzate, la città non fu conquistata. L’assedio iniziò il 20 giugno, i fiorentini corsero di nuovo il Palio di S. Giovanni il 24 giugno a spregio degli assediati, gettarono anche oltre le mura con i trabucchi asini con la testa coperta da una mitria vescovile, ma il 23 luglio l’esercito rientrava a Firenze. E Dante con lui.

Ma la campagna del 1289 non era finita, neanche per il poeta. Infatti nel 1288 il potere del conte Ugolino a Pisa era stato rovesciato, e la città, tornata alla fedeltà ghibellina, era tornata in guerra con Firenze, affidando il comando proprio a Guido da Montefeltro, tornato dall’esilio astigiano. Il vecchio soldato aveva riconquistato parecchi castelli a Firenze, anche avvalendosi dei balestrieri, e l’esercito fiorentino aveva dovuto mandare almeno 400 cavalieri e 2000 fanti verso i confini con Pisa, di rinforzo a Nino Visconti (altra figura che tornerà, non solo nel Purgatorio ma nella vita di Dante) che guidava gli esuli pisani allontanati dopo la caduta di Ugolino. In questo quadro l’episodio più noto fu l’assedio del castello di Caprona, ricordato da Dante:

così vid’ïo già temer li fanti
ch’uscivan patteggiati di Caprona,
veggendo sé tra nemici cotanti.
(Inf. XXI, 94-96)

Il passo indica con chiarezza un’esperienza personale: e il ricordo dei fanti patteggiati che escono da Caprona, conquistata dai fiorentini per conto di Nino Visconti, ci lascia immaginare un cavaliere arrogante che guarda dall’alto i fanti che passano spauriti tra due file di armati a cavallo, e magari sprona verso un soldato non abbastanza intimidito e con una piattonata gli ricorda la distanza che li separa. Con questo assedio vittorioso si conclude la campagna del 1289; ma non la guerra, perché Firenze perderà negli anni successivi Grosseto a causa di Guido, Maghinardo di Susinana tornerà ghibellino e controllerà gli Appennini ed un altro Montefeltro diverrà podestà ad Arezzo, anche se il nuovo vescovo della città sarà guelfo. Non si sa se Dante abbia di nuovo servito nell’”oste” fiorentina, ma se l’ha fatto non ne troviamo traccia.

Dante guerrigliero?

Non si sa se Dante abbia combattuto ancora dopo Campaldino. Forse la possibilità si ripropone dopo l’esilio, quando Bianchi ed esuli ghibellini si alleano con l’incontro al castello di Gargonza nel 1302 ed iniziano una serie di incursioni nel contado fiorentino. Ma è certo che Dante si sia allontanato da loro prima della disastrosa battaglia della Lastra, nel 1304, e probabilmente dello scontro perduto a Pulicciano, nel 1303.

Curioso il parallelismo che si può tracciare tra Dante e Fenoglio. Entrambi scrittori capaci di forgiare la lingua, e di fonderla con altre lingue. Entrambi soldati, entrambi attenti alle armi: cavallo ed armi chiede Dante ai conti di Romena, in Primavera di bellezza Johnny parte con una Beretta e se la vede portar via in cambio di una vecchia pistola. Entrambi sono colti: così invece di essere destinati a combattere come soldati comuni, nelle incursioni di guerriglia dei Bianchi e dei ghibellini Dante, tra i partigiani di Nord Fenoglio, le loro capacità li destinano a ruoli diversi. Segretario dell’Universitas Alborum, diplomatico e messaggero per mezza Italia con gli alleati ghibellini, il fiorentino. Interprete ed ufficiale di collegamento con le missioni inglesi, l’albese. Ma anche Fenoglio ha combattuto da partigiano e guerrigliero, prima di diventare ufficiale di collegamento. Si può pensare che Dante sia stato partecipe di qualcuna delle scorrerie che Bianchi e ghibellini conducevano nel Casentino, incontrando una popolazione ostile e miserabile, come lasciano intuire i versi di Purg. XIV, 43-45.

Tra brutti porci, più degni di galle
che d’altro cibo fatto in uman uso,
dirizza prima il suo povero calle.

L’indizio più significativo è proprio il documento (n.136 Codice Diplomatico Dantesco) datato 8 giugno 1302 nel castello di San Godenzo, con cui i Bianchi fiorentini promettono di risarcire gli Ubaldini (signori del castello) dei danni che le loro azioni possono provocare ai beni della casata. «omnia dampna, interesse et expensas restituere, satisfacere et emendare de eorum propriis bonis…occasione novitatis seu guerre facte vel faciendae». Tra i firmatari ci sono esponenti dei Cerchi, degli Uberti, degli Ubertini: e Dante Allegherii. Nella primavera del 1302 c’erano state le prime incursioni nel Chianti, ora si voleva aprire un nuovo fronte, dal Casentino verso Scarperia. Ad indicare la tortuosità della politica toscana, ora Dante si schiera con gli Ubaldini, la casata del vescovo aretino morto a Campaldino, mentre l’esercito fiorentino è guidato da Moroello Malaspina, che ospiterà Dante di lì a pochi anni. Solo dopo il 1304 Dante si allontanerà dalle logiche di fazione, e la Commedia lo porterà su un piano universale, ma non irenico, vista la sua durezza di giudizi: da veterano.