12. il Carme autobiografico

Palazzo Imbonati

Palazzo Imbonati (acquaforte, 1750 ca)

DINA TORTOROLI

«Consci a noi stessi della purità delle nostre intenzioni»  dichiara  Carlo Imbonati ai Cittadini Deputati, resi mediatori presso il Direttorio di Parigi, per ottenere una dilazione al ritorno in patria.
Lui stesso, quindi, indica la fonte della propria coerenza morale e ricorre a una locuzione che a me fa venire in mente una situazione diametralmente opposta.
È quella del curato – uomo di temperamento pituitario e mentalità servile, disposto a non fare il proprio dovere, per egoismo, debolezza e paura – su cui fin dal capitolo primo del primo tomo del Fermo e Lucia i lettori di quell’opera sorprendente sono indotti a riflettere: «Ma il povero Don Abbondio non avrebbe voluto esser conscio a se stesso di esser mosso da principj bassi e da non confessarsi» (p. 19, Milano, Casa del Manzoni, MMVI).
Non è la prima volta che io segnalo connessioni tra circostanze della vita dell’Imbonati e di protagonisti del Fermo, e vorrei approfondire il discorso, ma devo dare la precedenza all’impegno preso: esaminare scrupolosamente In morte di Carlo Imbonati, Versi di Alessandro Manzoni a Giulia Beccaria sua madre [https://it.wikisource.org/wiki/In_morte_di_Carlo_Imbonati], per appurare se dalle ombre che li circondano può venir fuori una verità accettabile.
Ho passato molto del mio tempo leggendo. Posso quindi affermare che leggere fa parte della mia vita; devo, però, precisare che non ho mai letto perché attratta dalle arti letterarie. Da bambina, leggevo per incontrare qualcuno che mi parlasse del mondo; da ragazzina cercavo degli interlocutori con cui confrontare sensazioni, idee, proponimenti.
Col passare del tempo, ho constatato che il mio approccio ha assunto – per impulso spontaneo – caratteristiche simili a quelle dell’«ascolto attivo ed empatico, centrato sulla persona», teorizzato dallo psicologo statunitense Carl Rogers. Infatti, io mi concentro non solo sul contenuto del messaggio, ma anche sullo stato emotivo dell’emittente, e la mia naturale propensione a mettermi nei panni dell’altro mi aiuta a  coglierne con accettazione pensieri e sentimenti.
Non poche volte mi sono accorta di provare sensazioni molto diverse da quelle sottese ai giudizi dei critici di professione e di esserne amareggiata; ma ho smesso di preoccuparmi, dal giorno in cui ho dato ascolto al suggerimento del medico-filosofo Pierre Jean Georges Cabanis:
«Voyons ce qu’il y a […], sans trop nous embarrasser de ce que les autres ont crû y voir. Si quelquefois leurs observations nous servent de guides et nous aident à mieux observer nous même, trop souvent aussi la paresse, sous le nom de respect, se repose sur l’autorité: on ne se sert, pour ainsi dire, plus de ses propres yeux, on ne voit que pour ceux d’autrui; et bientôt la verité même, en passant de livre en livre, prend tous les caractères de l’imposture et de l’erreur» (tr. letterale: vediamo quello che c’è, senza troppo preoccuparci di ciò che gli altri hanno creduto di vedervi. Se talvolta le loro osservazioni ci servono come guide e ci aiutano a osservare meglio, troppo spesso anche la pigrizia, sotto il nome di rispetto, si appoggia sull’autorità: non ci si serve più, per così dire, dei propri occhi, non si vede che con quelli degli altri; e ben presto la verità stessa, passando di libro in libro, prende tutti i caratteri dell’impostura e dell’errore) (Rapports du phisyque et du moral de l’homme, Sixième mémoire, De l’influence des tempéraments sur la formation des idées, disponibile in rete).
Pertanto, ora posso liberamente affermare che, fin dal primo impatto, i versi per l’Imbonati suscitarono in me sensazioni inconciliabili con i giudizi critici che la scuola mi induceva a considerare appropriati.
Io leggevo e rileggevo con movimento circolare, dall’ultima sequenza dell’abbraccio impossibile al verso in esergo, denso di potenziali rivelazioni, e avvertivo un’eco persistente lungo l’intero componimento. Continuavo, insomma, a sentire il tono accorato della voce di Alessandro che confessava a Carlo – fantasma seduttivo – l’invincibile sgomento di chi si era venuto a trovare in una situazione catastrofica proprio quando sperava in una svolta esaltante della propria esistenza:
«[…] allor ch’io l’amorose e vere
Note leggea, che a me dettasti prime,
E novissime furo; e la dolcezza
Dell’esser teco presentia, chi detto
M’avria che tolto m’eri! E quando in caldo
Scritto gli affetti del mio cor t’apersi,
Che non sarìa dagli occhi tuoi veduto,
Chiusi per sempre! Or quanto, e come acerbo
Di te nutrissi desiderio, il pensa.
E come il pellegrin, che d’amor preso
Di non vista città, ver quella move;
E quando spera che la meta il paghi
Del cammin duro e lungo, e fiso osserva
Se le torri bramate apparir veggia;
E mira più da presso i fondamenti
Per crollo di tremuoto in su rivolti,
E le porte abbattute, e fori e case
Tutto in ruina inospital converso;
E i meschini rimasti interrogando,
Con pianto ascolta raccontar dei pregi
E disegnar dei siti; e qual tu fosti
Di retto acuto senno, d’incolpato
Costume, e d’alte voglie, ugual, sincero,
Non vantator di probità, ma probo:
Com’oggi al mondo al par di te nessuno
Gusti il sapor del beneficio, e senta
Dolor de l’altrui danno. […]» (vv. 51-78).

Alessandro era annientato dal trauma subito.
«Sovente» – quindi invano – il desolato giovane aveva tentato di far capire alla madre Giulia le motivazioni del senso di inadeguatezza che gli impediva in quelle circostanze di  comporre versi nobili quanto il «sentire» di Carlo.
Dopo quattordici anni di lontananza, aveva scoperto in lei una dolce madre ed amica, bisognosa a propria volta di conforto; come avrebbe potuto dirle chiaro e tondo che il primo trauma, subito all’età di sei anni, quando lei lo aveva abbandonato nel collegio di Merate, senza una parola di commiato e soprattutto senza averlo preparato a quella separazione, era all’origine dell’infelicità della sua infanzia e delle difficoltà incontrate nell’adolescenza?
Erano state esperienze talmente dolorose e umilianti da scatenare in lui il bisogno di rivalsa (la gloria amo); e lo avevano reso duro di modi, con tendenza a spregiare, a rattristarsi, e a l’ira presto, nonostante fosse di cor gentile (sonetto Autoritratto, 1801, disponibile in rete).
Pertanto, ogni volta che Giulia ritornava ad affrontare la questione, lui poteva soltanto ribadire che il suo «rimescolar la fetida belletta» di quel «secol sozzo» dipendeva da una visione della vita e della realtà diametralmente opposta a quella del «probo» scomparso e che soltanto Carlo avrebbe potuto «a passo a passo per man guidarlo»  lungo la «via scoscesa» che anche da lui era stata percorsa «anelando», nonostante le sue circostanze di vita fossero state eccezionalmente favorevoli.
Mi pare persino superfluo dire che, anche quando ero una studentessa, le impressioni suscitate in me dai versi per l’Imbonati erano state influenzate da quanto avevo  precedentemente appreso, soprattutto leggendo l’Epistolario del Manzoni. Perciò, diventa ora necessario citare almeno qualche brano delle lettere che «[nous] apprennent quelque chose»:
«A Vincenzo Monti, a Milano. [Lecco] 15 settembre 1803. Voi mi avete più volte ripreso di poltrone, e lodato di buon poeta. Per farvi vedere ch’io non sono né l’uno né l’altro, vi mando questi versi [Adda, idillio]. Ma il principal fine di essi si è il ricordarvi l’alta mia estimazione per voi, la vostra promessa, e il desiderio con cui vi sto attendendo. […] Vi prego di conservarmi la vostra amicizia, e mi vi raccomando. ALESSANDRO MANZONI».
«Ad Alessandro Manzoni, a Lecco. [Milano, … settembre 1803]. Mio caro Manzoni, La fortuna, o altro demonio che sia, mi attraversa tutti i buoni disegni. Io vengo col cuore ogni dì alla vostra campagna, e mai mi è dato di venirvi con la persona. E due sono gli impedimenti.  […] Il vostro Idillio è venuto poi a crescermi il dolore di non poter recarmi ad abbracciare il mio bravo amico e poeta, e a far con esso un sacrificio poetico all’Adda, che mi onora del divino suo invito. Non sono un adulatore, mio caro Manzoni, ma credimi sincerissimo quando ti dico che i versi che m’hai mandati son belli. Io li trovo respiranti quel molle atque facetum virgiliano, che a pochi dettano gaudentes rure Camenae. Rileggendoli, appena scontro qualche parola che volendo essere stitico muterei, ed è probabile che non sarebbe che in peggio. Dopo tutto, sempre più mi confermo, che in breve, seguitando di questo passo, tu sarai grande in questa carriera e, se al bello e vigoroso colorito che già possiedi, mischierai un po’ più di virgiliana mollezza, parmi che il tuo stile acquisterà tutti i caratteri originali. Ma io non son da tanto da poterti fare il dottore. Presentate al vostro signor padre i miei ringraziamenti e rispetti, e se non possiamo con la persona, vediamoci spesso col pensiero e col cuore. Il vostro MONTI».
«A donna Giulia Manzoni Beccaria a Parigi. Milano, li 7 agosto 1805. Mia cara, La tua amabilissima lettera mi ha cagionato un vero piacere benchè misto di dolore e di tristezza. Oh, mia cara, il vedere quanto tu ami e quanto perciò piangi il distacco orribile che hai fatto di quell’uomo giusto e sensibile, egli è per me una sensazione piacevole benchè trista. Sì, piangiamolo insieme, e piangiam sempre una sì fatale irreparabile perdita.[…] Godo  quanto mai dell’amorosa compagnia che hai del tuo caro figlio, e delle ottime qualità che in lui scorgi, analoghe anche a quelle dell’incomparabile Carlo. Possa egli tenerti in parte luogo di lui.[…] la tua più aff.ma amica GIULIA OROMBELLI IMBONATI» (una delle sette sorelle di Carlo).
«A Vincenzo Monti, a Milano. Parigi, 31 agosto 1805. Rue St. Honoré n. 71. Vis-à-vis les ci-devant Jacobins. Mio caro Monti, cagione sola del mio non iscriverti finora fu il crederti tuttavia a Bologna. Pagani mi t’annuncia a Milano, bramoso di mie lettere. Io ho sentito veramente il bisogno di scriverti, di comunicare la mia felicità a te che me l’avevi predetta; di dirti ch’io l’ho trovata fra le braccia di una madre; di dirlo a te che tanto mi hai parlato di lei, che tanto la conosci. Io non cerco, o Monti, di asciugare le sue lacrime; ne verso con lei; io divido il suo dolore profondo, ma sacro e tranquillo. […] Non so quando potrò vederti. Io non vivo che per la mia Giulia, e per adorare ed imitare con lei quell’uomo che solevi dirmi essere la virtù stessa. I tuoi modi cortesi, la tua bontà tanto rara in quei pochissimi, cui il sentimento naturale, e la pubblica opinione fa superiori agli altri, non usciranno mai dal mio cuore. […] Cedo volentieri la penna alla mia Giulia che sta per istrapparmela dalle mani per iscrivere due righe al suo Monti. Addio. Ricordato del tuo ALESSANDRO M. B.».
«Ed io pure, caro Monti, voglio aggiungere due righe a quelle del mio Alessandro. Oh, voi che lo amate, voi che veramente lo conoscete, giacchè poteste proporgli per modello l’adorato mio Carlo, voi misurate l’amore immenso che gli porto, da quello immenso amore, e da quel dolore sacro, insanabile che sento e pruovo per lui. Oh! Voi non mi direte già di distrarmi, né di consolarmi, voi non potete immaginare che si ardisca tentare di mettere una lacuna nella eternità, già incominciata per me, perché fissata sopra di lui. Parlatemi dunque, o Monti, perché io con voi possa parlare. Che gli altri pronuncino il vostro nome con ammirazione e con sentimento di nazionale orgoglio, per me esso non esce dalle mie labbra, che dopo esser passato sul mio cuore. G. BECCARIA».
«A Giovambattista Pagani, a Brescia. Parigi, 12 marzo 1806. Caro ed ottimo Pagani, […] Facendo l’edizione di cui ti ho parlato [La ristampa de’ Versi in morte di Carlo Imbonati], vorrei che tu aggiungessi al mio nome un titolo di cui mi glorio, e che mettessi sul frontespizio: Alessandro Manzoni Beccaria. Ieri ebbi l’onore di pranzare con un grand’uomo, con un poeta sommo, con un lirico trascendente, con Le Brun. Avendomi onorato del dono di un suo componimento stampato, volle assolutamente scrivere sull’esemplare, che conserverò per sempre: À M.r Beccaria. C’est un nom, diceva egli, trop honorable pour ne pas saisir l’occasion de le porter. Je veux que le nom de Le Brun choque avec celui de Beccaria. Ho avuto l’onore d’imprimere due baci sulle sue smunte guancie; e sono stati per me più saporiti, che se gli avessi colti sulle labbra di Venere. […] Scrivimi presto, te ne prego, per me e per mia madre, che legge le tue lettere co’ miei occhi. Ella t’ama quanto io t’amo. Ella è continuamente occupata… ad amarmi, e a fare la mia felicità. Io sono contento: non mi manca che la voglia di lavorare, e se non lo faccio, sono certo doppiamente colpevole, poiché ho al fianco un sì dolce sprone. Scrivi subito e prolissamente, ed amami come suoli. Vale, vale. Il tuo MANZONI BECCARIA. Il 15 corrente è il fatale giorno anniversario della morte del virtuoso Imbonati. Mia madre dice che un tuo sospiro per Lui sarà a Lui un omaggio, una consolazione a Lei, e che in quel momento le nostre anime saranno unite».
«Al medesimo, a Brescia. Parigi, 14 settembre 1806. Mio Pagani, M’hai tu dimenticato davvero? Son tre mesi che non ho tue nuove […] Non puoi credere quanta pena mi abbia fatta la nuova della grave malattia del nostro povero Arese […] Duolmi amaramente che gli amici non abbiano àdito al suo letto, e che invece egli debba avere dinanzi agli occhi l’orribile figura di un prete. Né puoi figurarti quanto dolore e quanta indegnazione abbia in noi eccitato il sentire da Calderari, che ad Arese era stata annunziata sentenza fatale. (Spero per Dio che sarà vana). Crudeli! Così se egli schiva la morte, ha dovuto assaporarne tutte le angoscie! E quante volte l’annuncio della morte ha ridotto agli estremi dei malati, che ignorando il loro stato sarebbero guariti. Basta; i mali del caro ed infelice Arese, che ho sempre dinanzi agli occhi, mi allontanano sempre più da un paese, in cui non si può né vivere, né morire come si vuole. Io preferisco l’indifferenza naturale dei francesi, che vi lasciano pei fatti vostri, allo zelo crudele dei nostri, che s’impadroniscono di voi, che vogliono prendersi cura della vostra anima, che vogliono cacciarvi in corpo la loro maniera di pensare; come se chi ha una testa, un cuore, due gambe ed una pancia, e cammina da sé, non potesse disporre di sé, e di tutto quello che è in lui a suo piacimento. Mi accorgo d’aver fatto un pasticcio di parole, pazienza: il mio Pagani è buono. Due parole di me. Io continuo il ben cominciato modo di vivere, senza cangiamento, senza interruzione. Se tu rileggi le mie passate lettere, ti farà ben meraviglia l’udire da me che mia madre, quest’unica madre e donna, ha aumentato il suo amore e le sue premure per me. Eppure la cosa è così. Io son più felice che mai e non mi manca che d’esserlo vicino a te, e ai pochi e scelti nostri amici, che si riducono ad Arese che vorrei risanato, e a Calderari che vorrei felice come egli merita. Ho vergogna di dirti che dopo i versi stampati non ne ho fatto più uno: ora però voglio mettermi il capo fra le mani, e lavorare, massime che mia madre non ha mai lasciato di punzecchiarmi perché io cacci la mia pigrizia. […] Scrivimi a lungo e vale. Il tuo MANZONI BECCARIA. PS. Il numero del mio alloggio è cambiato. Scrivi: Rue Neuve du Luxembourg, N° 9» [aveva prima abitato al n. 3].
«Ad Augusto Enrico Wirz [pedagogo insigne, Pastore della chiesa francese in Zurigo]. Bergamo, 10 Februar 1808. [Tr. italiana] Mio caro… Io mi trovai alcuni giorni sono di nuovo in Milano, per congiungere il Sig. Alessandro Manzoni, abbiatico del celebre Beccaria, con una riformata francese per nome Blondel./ Questo Manzoni mi parve un giovane interessante, inesperto del mondo come lo sono io, ma vigoroso ed innocente. Egli è odiato dai preti  e li disprezza: e in alcuni versi sciolti che ha fatto stampare, si manifesta molto fortemente circa tutta quella razza. Peccato che io abbia parlato con lui solo mezz’ora, mi piacque realmente e credo che, se stesse a Bergamo invece che a Milano, troverei in lui, se non un amico, dacchè gli italiani conoscono difficilmente una vera amicizia, però un buon conoscente. Egli si espresse con me molto liberamente sulle miserevoli adulazioni di Monti e Cesarotti. Uno dei miei francesi, zio della sposa, mi disse abbastanza chiaramente al ritorno: C’est dommage pour ce jeune homme, il n’a aucun usage du monde, et c’est pourtant une chose bien essentielle. – Il peut être savant, mais il ne sait pas même se présenter – ma dove posso trovare qui uso di mondo? Non vi è qui in verun luogo una vera eleganza di coltura, giacchè tutti i loro discorsi si aggirano, e con quale calore, intorno al mangiare, al bere, ai denari, abiti, e intorno a ciò io non posso portare il mio piccolo contributo; devo starmene quasi muto. […] Sono sempre il tuo ORELLI» [il celebre latinista Giovanni Gaspare Orelli, ordinato Pastore nel 1806, residente a Bergamo dal 1807].
Devo interrompere le citazioni, ma già questa prima serie di dati permette di non fraintendere il componimento in esame e mi rassicura constatare che il primo biografo del Manzoni, Angelo De Gubernatis, lo definisce un «Carme autobiografico» e ritiene importante che si presti attenzione  allo «stato d’animo» con cui Alessandro lo compose (Letture fatte alla “Tajlorian Institution” nel maggio dell’anno 1878, Firenze, Le Monnier, 1879, disponibile in rete).
Io ritengo altrettanto doveroso prendere in considerazione anche lo stato d’animo di Giulia, e,  se ripenso al suo epistolario, una lettera si impone alla mia attenzione: quella scritta a Costanza Arconati Trotti, il 2 aprile 1838, in cui la Beccaria si definisce una pauvre Nonna, abbattue e decouragée per «le renversement total de toutes mes esperances et de tant de calculs pour la reussite d’un evénement si peu desirable en lui meme, mais qu’un devoir cher et de necessité m’avoit emposé».
Purtroppo, anche parecchi anni addietro, Giulia doveva aver fatto tra sé e sé un bilancio altrettanto desolante della riuscita dei suoi calcoli. Infatti, analizzando la situazione “col senno di poi”, il concepimento del Carme si configura come prologo della drammatica demolizione del tempietto funebre dell’Imbonati, senza un gesto di pietà neppure per le lapidi, in cui era stata scolpita l’epigrafe che già conosciamo: «A Dio Ottimo Massimo / e all’anima del milanese Conte Carlo Giovanni Imbonati / pio e ottimo / eressero questo tempio del loro affetto / Giulia Beccaria figlia di Cesare e le sorelle in gran pianto / 1806».

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L’immagine di copertina è tratta da: Sabrina De Franceschi, Vedute di Milano di Marc’Antonio Dal Re, Franco Angeli, 1998.