In giardino con Louise Glück

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GABRIELLA MONGARDI

“Mi nascondo all’interno del mio fiore”…

Questo verso di Emily Dickinson, I hide myself within my flower,deve essere stato presente alla mente di Louise Glück quando componeva le poesie della raccolta L’iris selvatico, uscita negli USA nel 1992 (dove ottenne il premio Pulitzer) e tradotta in italiano da Massimo Bacigalupo per il Saggiatore nel 2020, in occasione del conferimento del premio Nobel alla poetessa americana “per la sua inconfondibile voce poetica che con austera bellezza rende universale l’esistenza dell’individuo”.
La Glück infatti si nasconde all’interno non solo dell’iris selvatico, che dà il titolo al libro e alla lirica d’apertura, ma anche dentro tutti gli altri fiori a cui intitola un componimento, dal lamio all’ipomea, dai gigli alla rosa, rivelando un’appassionata competenza botanica ma soprattutto cedendo loro la parola, con una originalissima, straniante dislocazione del punto di vista.

Da questa prospettiva non-umana, che in molti testi è addirittura quella di Dio (Vento calanteMezza estateTramonto ecc.), e con una lingua ingenua, apparentemente semplice, “facile” anche da tradurre, la Glück ci parla sì della nostra condizione immedicabilmente mortale («le vostre vite sono il volo dell’uccello / che inizia e finisce nell’immobilità»), ma anche ci ricorda che «In ogni vita, c’è un momento o due. / In ogni vita, una stanza da qualche parte, sul mare o fra i monti» (Presque Isle) che meritano di essere amati e fissati nella memoria per trovare senso al vivere. E se non lo facciamo noi, ci pensa la poetessa, che come tutti i grandi, veri artisti ci insegna a vedere il mondo con occhi nuovi – gli occhi dei fiori appunto. Così nella prima parte della silloge la scilla ci ridimensiona, fa strame delle ambizioni e di tutta la progettualità umana: «Per noi siete tutti uguali, / solitari, alti sopra noi, programmando / le vostre sciocche vite: andate / dove siete mandati, come ogni cosa, / dove il vento vi pianta». Anche la zizzania ci dà lezione: «Ero qui prima, / prima che tu fossi qui, prima / che tu abbia mai piantato un giardino. / E sarò qui quando rimarranno solamente / il sole e la luna, e il mare, e il campo largo». E i fiori di campo ci liquidano, con un’interrogativa retorica definitiva: «Cosa stai dicendo? Che vuoi / vita eterna? I tuoi pensieri sono davvero tanto importanti?».

L’oggetto privilegiato dell’osservazione della Glück, il tema portante della raccolta è il giardino, che ne è anche l’elemento strutturante: ne seguiamo infatti il mutare nell’arco dei mesi che vanno dalla primavera alla tarda estate, lungo una parabola ascendente dapprima e poi discendente.  Lo spartiacque è segnato dalle liriche che ruotano intorno alla parola-chiave midsummer: Cielo e terra, Il portone, Mezza estate. Prima di quelle, siamo nel “mattino” della primavera – e troviamo una serie di poesie intitolate tutte Mattutino; poi subentra la “sera”, con titoli come Luce calante, Primo buio, Tramonto e un’altra serie di poesie intitolate tutte Vespri… Perché è dall’inizio dell’estate che le giornate si accorciano, è su quella soglia che la poetessa vorrebbe fermarsi “come una bambina che indugia sul portone”, nell’attimo “che nulla è ancora passato” –  “il tempo immediatamente / precedente la fioritura, l’epoca della maestria // prima dell’apparizione del dono / prima del possesso”.

Dal punto di vista tematico, il giardino si carica di valori simbolici contraddittori: è “replica del cielo, pensato per dare una lezione”; è naturale metafora del fiorire e del declinare dell’età; rimanda certamente all’Eden di Adamo ed Eva (Il giardino, Il biancospino, Aprile), ma è anche simbolo dell’ “addomesticamento” della natura da parte dell’uomo, della prevaricazione dell’uomo sulla natura, e insieme rappresenta un angolo di natura nel mondo delle macchine, o un modello di esistenza capace di crescere in profondità (Margherite): non per niente il curatore intitola molto felicemente la sua postfazione “Teologia in giardino”, perché il dio della Glück è un dio-giardiniere, come lei, stanco e deluso dai suoi “fiori”, gli esseri umani. O, forse, il suo dio è semplicemente il “Deus sive Natura” di Spinoza, ebreo come lei…

Viene in mente la celeberrima definizione di poeta data da Schiller: «Il poeta o è natura o la cerca. Quello è il poeta ingenuo, questo fa il poeta sentimentale», e si esita un attimo a collocare la Glück fra i “poeti sentimentali”, cioè moderni, tanto sembra vicina alla natura e “naif” la sua voce – a volte quasi puerile, come ad esempio quando si lamenta con Dio del fatto che nel Vermont i pomodori non maturano – ma non bisogna lasciarsi sfuggire la vena di sottile, amara ironia che balugina in questi versi, togliendo ad essi ogni traccia di idilliaca leziosità. E allora è inevitabile accostarla alla sua immensa conterranea Emily Dickinson, come lei dolente e vitale, terragna e metafisica insieme.