CLAUDIO SOTTOCORNOLA
Tutto ciò che non appartiene al concetto dell’essenza o della quiddità, sopravviene in qualche maniera dall’esterno ed entra in composizione con l’essenza, poiché nessuna essenza può essere intesa senza ciò che è parte costitutiva di essa…
Tommaso d’Aquino, De ente et essentia
Il principio originario dell’esistenza si può cogliere nella vita di un albero, di un sassolino, della neve, delle stagioni e di ogni altra forma naturale. Prima di entrare nel campo della nostra coscienza, questo principio è ciò che semplicemente è… Ogni cosa diventa un insegnamento per noi.
Dainin Katagiri, Il significato principale della vacuità
Decidersi per la gloria
È questione di quiddità.
Due settimane fa Steve Jobs è morto, e tutto il mondo si è accorto del dono che il grande informatico è stato, con la sua mente creativa, il suo spirito libero, il suo coraggio e la sua audacia. Steve – ci sentiamo di chiamarlo semplicemente così – è stato, o almeno a noi pare, autenticamente se stesso, nella gioia e nel sacrificio di una vita dedicata.
Abbiamo visto in lui – in modo eclatante e manifesto – quello che chiamiamo impegno a realizzare se stessi, non in modo autocentrato, però, ma in sinergia con il mondo, gli altri, le cose… E abbiamo intuito la bellezza che tale impegno comporta, insieme a una fatica che chiama a raccolta tutta l’energia e l’attenzione di cui una persona dispone.
Il punto è proprio qui. Lo è per ogni uomo, per ogni essere, in certo qual modo, per ogni cosa.
Nasciamo nell’intersezione cartesiana, di spazio e di tempo, ove il destino ci ha posti e, spesso, forse anche legittimamente, spingiamo a destra o a sinistra, in basso o in alto, ci stiamo stretti in quel punto e tentiamo di eluderlo ma, alla fine, come l’acqua che scorre a valle, è lì che dovremo ritornare, al centro del nostro essere, nell’intimità della nostra coscienza, al fondo della nostra esperienza, al quid per cui siamo questo e non altro.
Il Battesimo cristiano, figura di ogni iniziazione, è proprio questo: radicarsi nella corrente di una storia, di un messaggio e di una tradizione che cogliamo come nostra. In certo qual modo è figura di ogni nascita che, di per sé, è già un battesimo della luce, un’immersione nel proprio destino storico che – per colui che ha fede – è il luogo provvidenziale e salvifico della propria glorificazione…
E per restare nel simbolo cristiano, è però anche il luogo della Passione e Morte, del Golgota ineludibile per la manifestazione del Tabor, fuor di metafora, del quotidiano lavoro di esistere, con tutta la fatica e, talvolta, la noia e il fastidio che ciò può comportare, ma da cui non ci si può allontanare che tradendo. Noi stessi, il nostro destino, la nostra gente e la nostra Storia.
Il punto cartesiano di spazio e tempo che ci determina è allora come un varco virtualmente aperto all’infinito da attraversare in profondità, più che un limite da cui scappare, è la possibilità che la vita ci offre, è la vita stessa in una sua manifestazione unica, originale, irripetibile e struggente. Non sprechiamola.
La quiddità – il determinato, il qualche cosa, ciò che ogni realtà è – ci sprona ad accettare, gli ambienti, le persone, l’aria, le cose intorno a noi… che invece spesso disprezziamo, ignoriamo, mortifichiamo, persi dietro al sogno di un altrove che – legittima figura della speranza e del sogno – non deve però mai offuscare la bellezza del paesaggio reale, del concreto storico in cui ci muoviamo, viviamo, agiamo. “Restare” nell’amore del “qui ed ora”, vuol dire cogliere l’intensità dell’attimo che lo attraversa, venerare la memoria che in esso si manifesta e deposita, lavorare perché ciò si traghetti nell’eterna bellezza di quel che resta, e cresce fruttificando in preziosa eredità per chi ancora deve venire.
Gli eterni, dichiara Severino… E comunque la postazione di ricezione e manifestazione dell’essere che – dal filo d’erba al Papa – ciascuno di noi è, ciascuna entità è, e che cogliamo nel quotidiano svolgersi, val più di tutte le ambizioni e le fughe di questo mondo cinico, freddo, competitivo, che non sa più affermare e manifestare la vita. Le vecchie librerie, i caffè, i fruttivendoli e i giornalai di qualche anno fa erano – loro sì – gli ambiti di una manifestazione dell’essere nella sua quiddità ambientale, caratteristica e corale, unica, che oggi è più difficile – se non impossibile – cogliere nei grandi centri commerciali, nei quartieri disertati dai passanti, nelle anonime strade ingolfate di traffico e automobilisti in lotta fra loro, ma che noi dobbiamo ostinarci a decifrare e realizzare.
Di quanto essere siamo ancora capaci?
Di quanta quiddità?
Tuo padre. Tua madre. Il tuo quartiere. La tua città. Questo treno. Questa scuola. Quella telefonata. Quel biglietto d’auguri. Quel messaggio. Il freddo che mi attraversa ora. Il sogno che verrà. L’attesa che mi annoia. Il citofono che squilla. Il Pc che si spegne. Questo sonno, questo lutto, questa sveglia. E la giornata, questa giornata che non vorrei, e che devo amare, abbracciare, trasfigurare in un sacramento della gloria di Dio. La quiddità come luogo della gloria.
Ne siamo ancora capaci, o stiamo solo aspettando il prossimo volo low-cost?
(tratto da Claudio Sottocornola, I trascendentali traditi”, CLD-Velar, 2011)