Rivelazioni

rivelazioni

GABRIELLA VERGARI
Nulla di meglio di una telefonata nel cuore della notte, per comprendere appieno una faccenda complicata come quella dei fusi orari. A maggior ragione se, nel tempo che armeggi imprecando con i pulsanti del cellulare, una voce sideralmente più lucida della tua, ti ricorda che dall’altro capo del mondo è giorno fatto, anzi forse pomeriggio.
“ Il signor Diotisalvi?”
“ Meglio che salvi lei” biascico in un italiano che da molto non parlo.
“ Sì, capisco, l’orario, la sorpresa e la prego vivamente di scusarmi per tutto il disturbo che le sto arrecando …”
“ Non immagina nemmeno quanto …”
“ Ma desideravo informarla di persona che tra due ore ha un volo prenotato per l’Italia”.
“ Sta scherzando?” sbotto con un tono, lo ammetto, un tantino aggressivo.
“ Mai stato più serio. È il morto che le parla…”
“Sì, certo, 47!”
“… 47?” finalmente una lieve esitazione in quella voce tanto compitamente invadente.
Morto Che Parla, ha presente la smorfia?” spiego, con la vaga soddisfazione di averlo spiazzato.
“Ah, comprendo, – e sento che ridacchia, lo scellerato – molto divertente, davvero. Tuttavia temo che quello sia il 48. Il 47 è Morto Ammazzato e comunque il Barone Giuseppe Maria Francesco Dellatorre di Colletorto è deceduto qualche giorno fa, nel suo letto, di morte decisamente naturale, quindi a rischio di sembrarle pedante, credo che il numero da lei …”
“Aspetti un po’, sta parlando del Barone …, di quel Barone?” lo interrompo, mentre un barlume comincia a farsi faticosamente strada tra le tenebre di tanto strampalata conversazione “E che diamine può voler mai, a quest’ora, il Barone da me?”
“Ha espressamente disposto la sua presenza alla lettura del testamento, che ho fissato nel mio studio notarile, Erasmo De Pasqualis e Associati, per l’esattezza tra tre giorni a partire da oggi, alle ore 15,45,…”
E lì, giù, tutta una serie di dettagli e indicazioni che mi affretto ad appuntare alla meglio mentre, a telefonata conclusa, il mio cervello ormai definitivamente e inesorabilmente sveglio realizza che è tipico del Barone disporre della vita degli altri, anche da morto.
Rassegnato mi sfilo perciò in fretta il pigiama, saltellando su una gamba, e provo a raffazzonare una valigia di fortuna, pensando che non so da quant’è che non metto più piede in Sicilia.
Il richiamo della terra natia mi confonde. Troppo legato all’agrodolce di un’infanzia non facile, ma in fondo nemmeno troppo difficile.
Allora i Signorini, i figli del Barone e della Contessa Maria Candida Raddusa di Roccaperta e Petraperciata, mi chiamavano sprezzanti ‘U Bastardeddu, perché non avevo padre, come del resto la maggior parte dei ragazzini nati dalle madri al servizio della famiglia. E sotto questo profilo sono stato allevato a pane e umiliazioni. Ma anche a un indicibile senso di libertà e bellezza, quando scorrazzavo per i campi del feudo o mi tuffavo nei corsi d’acqua che lo attraversavano, o mi mettevo alla ricerca di nidi e inseguivo farfalle…
I ricordi rischiano di sopraffarmi, ma c’è di buono che mi accompagnano per tutta la durata del volo. Lunghissimo. Non mi ero mai reso conto di quanta distanza avessi frapposto tra me e il mio mondo di un tempo. Né mi capacito di come il Barone sia tutt’a un tratto riuscito a forzarmi a quest’incredibile faticata, padrone una volta di nuovo della mia vita. Come se il Signor Vincenzo Diotisalvi, rispettabile cittadino, adulto indipendente e ben inserito, fosse stato spazzato via d’un colpo solo, per lasciar rientrare, a sorpresa e malgrado tutto, il vulnerabile, fragile Enzino.
Eppure di Lui, ‘U Patruni, mi restano anche alcune carezze, forse distratte come fatte ad un cucciolo, ma a loro modo affettuose.
E un abbraccio, alla morte di mia madre. Sorprendendo me e tutti gli altri mi aveva proprio stretto forte. Ma che fa? L’abbraccia? avevo sentito sussurrare, tra i presenti sbigottiti, ma in quel momento il mio dolore e la commozione erano tanti che non avevo fatto caso alla stranezza di quel gesto. Sul taxi verso lo studio del notaio, mi torna però in mente, vivido e … caldo?
Non ho nemmeno il tempo di realizzare quest’imprevista sensazione che già mi ritrovo nella stanza, accolto, se così si può dire, da un gelo polare.
Malgrado siano ormai indiscutibilmente cresciuti e navighino, chi più chi meno, oltre la cinquantina, i Signorini li riconosco subito, al primo sguardo.
Adelasia Teresa nasconde un discreto doppio mento dietro un foulard fumé che fa da magnifico pendant con il suo colorito grigio pantegana. Pare la personificazione stessa del cordoglio e piange sommessamente, asciugandosi di tanto in tanto gli occhi con il suo candido, immancabile fazzolettino di batista.
Alla sua destra Salvatore Amedeo, in un impeccabile completo antracite, sta rigido e impettito, come se avesse ingoiato il proverbiale manico di scopa, tanto è dritto sull’orlo della sedia, già persino fisicamente proteso verso le promesse del voluminoso incartamento, che occhieggia dalla scrivania e immagino racchiuda il testamento paterno.
Al centro, proprio di fronte al notaio e quindi, se vogliamo, ancora più prossimo al prezioso faldone, Ignazio Bartolomeo sembra invece un po’ più disinvolto dei fratelli. Appena mi inquadra, si accomoda meglio sullo schienale, accavallando le gambe con studiato sussiego, senza nascondere il suo solito risolino di scherno che ancora riesce, nonostante tutto, a ferirmi.
Il resto dello studio è affollato di parenti di vario ordine e grado che, al mio ingresso, tacciono tutt’insieme di botto, a dir poco sospettosi. Sento i loro occhi accompagnare i miei movimenti, mentre provo a sedermi nell’ultimo degli angolini. Bello scherzo mi sta giocando il Barone, considero tra lo stizzito e l’imbarazzato.
“Ehm,” si schiarisce la voce il De Pasqualis “ visto che ci siamo tutti…”
“E anche di più …” commenta Ignazio Bartolomeo, con intenzione. Qualcuno si volge verso di me, scuotendo la testa
“Visto, dicevo, che ci siamo tutti,” riprende imperterrito il notaio “posso dar lettura delle ultime disposizioni del defunto …”
“Che Dio l’abbia in gloria” esclama tra i singhiozzi Adelasia Teresa
“Un uomo come non ce ne sono più” le fa eco, con voce tremula, una delle signore accanto, senza che mi sfugga il Per fortuna che da qualche altra parte qualcuno sussurra..
Poiché la realtà può a volte sorprendere più di un romanzo,” comincia a leggere il notaio “io, Barone Giuseppe Maria Francesco Dellatorre di Colletorto, nel pieno possesso delle mie facoltà fisiche e mentali, ho voluto che foste oggi tutti assieme riuniti perché conosceste le mie ultime verità …”
“Avrà voluto dire volontà,” corregge Salvatore Amedeo con un colpetto di tosse mentre suo fratello disaccavalla e riaccavalla le gambe, cambiando impercettibilmente posizione. Per il resto si potrebbe sentire cadere uno spillo, mai vista un’attenzione così corposa.
“ No, no, sta proprio scritto: verità ” puntualizza meticoloso il notaio “Lasciatemi proseguire, vi prego, senza interrompermi. Ho ricevuto molti doni dalla vita e, adesso che mi appresto ad incontrarLo, non posso non ringraziare il Signore di quel che mi ha dato. Non così per la moglie, la Contessa Maria Candida Raddusa di Roccaperta e Petraperciata, che allora i miei genitori mi imposero, per ragioni di dote. Ammetto che la nostra si sia rivelata, nel tempo, un’unione come tante, e che, proprio perché forzata, sarebbe potuta divenire ancora peggiore di quella che è stata. Posso anzi affermare di avere perfino vissuto dei rari momenti di intesa con questa donna, che mi è rimasta al fianco fino alla fine dei suoi giorni, cercando di fare del proprio meglio sia per me, sia soprattutto per i suoi figli. Proprio così, i suoi figli, dato che, tenendo fede all’omen del casato d’appartenenza, Roccaperta si è senz’altro dimostrata, ancor più di fatto che di nome. Ora che la scienza, con i suoi passi da gigante, lo consente, a riprova delle mie affermazioni, si troveranno quindi, allegate a queste mie disposizioni, tutte le analisi di laboratorio sul dna di quelli che, per il buon nome della famiglia e per mio personale decoro, ho preferito non disconoscere come discendenti, ma che in realtà non condividono nemmeno una goccia del mio sangue: Adelasia Teresa è infatti figlia del giardiniere, come attesta anche la macchia a forma di piccola fragola sul suo avambraccio destro. Un’imbarazzante coincidenza, che ci siamo tutti sforzati di ignorare, nel corso dei decenni. Salvatore Amedeo è invece frutto della fugace relazione di sua madre con il …” e qui una breve pausa “ehm, il notaio che vi sta ora leggendo queste carte, e Ignazio Bartolomeo con lo stalliere…”
“Alla faccia della gran troia …” fischia trasecolato quello che credo un cugino.
“Una grande, grandissima troia …” rilancia, senza troppe cerimonie, il tizio che mi siede vicino.
“Basta, non starò un secondo in più a sentire simili infamie. Mia madre era una donna onoratissima, lo sanno tutti. Proprio una santa…” salta su, a questo punto, urlando come un ossesso, Ignazio Bartolomeo, dimentico all’improvviso di ogni contegno e di un paonazzo allarmante.
“Oddio, oddio, oddio, sto per svenire” squittisce Adelasia Teresa, prima di perdere i sensi per davvero.
“Papà!” fa Salvatore Amedeo, slanciandosi verso l’imbarazzatissimo De Pasqualis.
Non so se ridere o piangere e, come me, vedo anche gli altri interdetti.
Qualcuno si procura non so come dell’aceto e lo caccia sotto il naso di Adelasia, che dopo un po’ rinviene, starnutendo sonoramente, ben lontana dalla minima classe. Altri cercano di bloccare Ignazio Bartolomeo che sta per aggredire il notaio il quale, insospettabilmente veloce come un furetto, prova a mettersi in salvo balzando sulla scrivania e brandendo con tutta la lunghezza del suo braccio i fogli del testamento. Per dirla con De André, non avrei mai immaginato che lo spettacolo potesse essere così avvincente e la suspence ci fu davvero. Attenti al gorilla, pardon allo scalmanato che, non potendo altro, dà in incredibili escandescenze, mentre prova a divincolarsi, scalciando e muovendo le braccia come un Saracino. Ora che lo guardo bene, se suo padre è lo stalliere che ricordo, gli somiglia, e pure tanto: la stessa attaccatura di capelli, lo stesso naso, la stessa postura. Ah, Barone, Barone, e chi l’avrebbe mai detto che le cose stavano in questo modo. Non potrò mai ringraziarti a sufficienza per questo impagabile risarcimento morale.
Ma il meglio deve ancora venire.
Ripristinata alla bell’e meglio la calma, riconquistata la sua postazione di partenza, il De Pasqualis si riaggiusta gli occhialini sul naso e come se niente fosse riprende la lettura.
Riconosco invece come mio erede universale…” nella stanza è tornato un silenzio assordante. Sembra di essere alla notte degli Oscar, and the Winner is… “il mio vero e unico figliolo, Vincenzo Diotisalvi, concepito in una notte di autentica e travolgente passione con la sola donna che io abbia mai amato, in tutta la mia vita e che dispongo possa da ora in poi riposare accanto a me, nella Cappella di Famiglia …”
Non riesco più a seguire.
Ḕ davvero troppo per un pomeriggio solo. Ho bisogno d’un po’ d’aria. Esco perciò dalla stanza, lottando con la tentazione di gridare a gola piena Bastardi, all’indirizzo di quel che resta dei tre Signorini, ormai accasciati ed esanimi sulle loro povere sedie.
Per strada, sorrido come un ebete, mentre insopprimibile mi affiora dal cuore un: “Grazie, … papà. E che il cammino ti sia lieve!”

(tratto dall’antologia AA.VV, Ci rifaremo vivi, Algra, Catania 2018)