Morire di Freddo

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GABRIELLA VERGARI.

E così, può capitare dovunque.

Magari appena prima di entrare nella sala di un cinema, dove ti stai recando per trascorrere la serata con un paio di amici, e credi, come Enrico, di essere nel meglio  e nel pieno della tua vita.

Oppure con una telefonata che frange la quiete della notte per annunciare ciò che non vorresti, o non avresti mai pensato, di dover sentire.

O ancora, in quella che si annuncia come un’ordinaria giornata ottobrina e d’improvviso lascia invece irrompere parole che deflagrano nella stanza a scolpire, impietose, dinamiche implose e troppo a lungo soffocate.

Perché, pare voler ricordare l’autrice con questo suo intenso Morivamo di Freddo, Durango Edizioni, 2016, il dolore non ha bisogno di lasciapassare, ma può insinuarsi dappertutto e come vuole, frastornando, sorprendendo, perfino sconvolgendo.

Ci vorrà ad esempio quasi un anno, prima che Enrico accetti  i suoi attacchi di panico senza più scambiarli per crisi cardiache, e quasi tutta una vita, a Mauro, per giungere al baluginio di una più lucida consapevolezza nel suo rapporto con Guido, l’amico d’infanzia.

Eppure capire il vissuto, risistemando i ricordi senza paura di confrontarsi con la realtà, anche la meno dorata e gratificante, spesso si offre come l’unica strada possibile per evitare di vedersi vivere, piuttosto che vivere davvero. Certo si trasforma in un percorso, impervio quanto si voglia ma fondamentale, soprattutto  per permettere alla verità di esplodere, sai quando tutto si frantuma e brucia e poi restano solo macerie fumanti.

Tutti vicini e tutti lontanissimi, si mostrano perciò, inizialmente e non a caso, i personaggi di questo romanzo, chiamati a orbitare, chi attorno a un sole spento, chi a uno troppo sfavillante. Ma più di tutto come fossero incapaci di  comprendere e claustrofobicamente inceppati da se stessi e dalle loro stesse miopie, ansie, frustrazioni, esitazioni nell’aspirazione ad un amore che possa riscaldarli, almeno un po’. E che forse si lascia intravedere nella controluce di un finale che, se non giunge a sciogliere tutti i nodi, non pare neppure inteso a crearne dei nuovi.

Come in una sorta di Ringkomposition ideale, l’atmosfera conclusiva si rivela anzi in piena  consonanza con l’aforisma iniziale di Ronald David Laing sulla famiglia che si può immaginare come una ragnatela, un fiore, una tomba, una prigione, un castello, tutte nuances che variamente affiorano, nel romanzo, dalla filigrana di una prosa costantemente attraversata da una vibrante tensione drammatica, accentuata dall’irrompere dei dialoghi.

Oppure aperta alla confessione, all’introspezione psicologica e alla memorialistica, ma sempre fiduciosa nello straordinario potere catartico e terapeutico della scrittura.

Soprattutto se è felice.

http://www.durangoedizioni.it/rosalia-messina-morivamo-di-freddo/