Uno spazio epifanico

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ATTILIO IANNIELLO (a cura)
Silvia Papi tra arte e natura.

Puoi presentarti?
Sono nata nella Milano della seconda metà degli anni ’50 da genitori toscani che la guerra aveva portato più a nord. Sono, di conseguenza, una milanese con buona dose di toscanaggine, da vent’anni trapiantata nella campagna emiliana. Il tessuto della mia formazione si è costituito sui fili incrociati di un liceo artistico anni ’70, dei corsi di scenografia all’Accademia di Brera dove mi sono laureata, e della scuola di pittura secondo l’approccio di Rudolf Steiner che mi ha aperto gli occhi sulla forza originaria dei colori.

Con questa base per più di due decenni  ho involontariamente cercato di passare ad altri la passione per i colori che intanto si andava strutturando in me. Infatti per guadagnarmi da vivere ho tenuto corsi di pittura e ho svolto, all’interno di strutture pubbliche, attività “creative” con persone malate di mente e con anziani in difficoltà.

Il coraggio di “dipingere ufficialmente” si è andato formando molto lentamente, sostenuto dalla maturità degli anni. Recentemente ho sentito di una donna, aborigena australiana, la quale, all’età di ottant’anni, ha detto che a quel punto era pronta per iniziare a dipingere. Ho pensato che è così che si fa, bisogna sentirsi pronti.

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Quando è nato il tuo amore per l’arte?
Presto, credo già all’epoca del liceo. Infatti ho ancora il ricordo, dopo più di quarant’anni, della prima mostra che ci portarono a visitare. Ma furono gli studi di storia dell’arte all’Accademia che incominciarono a mettere in evidenza quello che poi è diventato un grande amore, quando la passione per il colore mi ha portato ad osservare la pittura degli altri con occhi diversi. C’è stato un momento, dopo i venticinque-ventisei anni, in cui le opere dei grandi maestri mi sono sembrate storie che venivano raccontate proprio a me, a me che le ascoltavo con grande ammirazione, e mi riempivano di felicità. Provare emozione, vera emozione, davanti a quadri che ti parlano come fossero esseri viventi, leggere il susseguirsi di un racconto attraverso le opere esposte in una mostra, è bellissimo. I pittori del Novecento, ma certamente non solo, sono stati i miei grandi maestri, coloro che mi hanno mostrato una strada percorribile, un linguaggio da poter usare, senza con questo voler fare paragoni fuori luogo.
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Quali sono le principali tematiche inerenti al tuo percorso artistico?
Genericamente potrei dire che ho sempre raccontato il mondo fuori di me attraverso di me. È il mio sguardo, alla fine, quello che emerge e questo credo sia vero sempre, un po’ per tutti. Non si può non dipingere sé stessi, non esiste uno sguardo che non sia soggettivo e quello che emerge è sempre la persona, che tipo di persona ha fatto quel quadro. Non ci si può separare da sé stessi. Cezanne ha dipinto tantissimi alberi, paesaggi e quell’unica montagna un sacco di volte; Morandi sempre le stesse tazze e barattoli, ma è il loro modo di sentire e vivere la vita che si evolve e si racconta attraverso i loro quadri, la ricerca di “qualcosa” attraverso quell’osservazione costante, e il pensiero che ne deriva, e le difficoltà o le ossessioni a volte, in alcuni più che in altri. Ognuno di noi, in ultima istanza, è un filtro attraverso il quale passa l’esperienza dell’essere qui. Chi dipinge, o scrive, o altro ancora, ha l’esigenza di raccontarlo innanzitutto a sé stesso, io credo, e poi di conseguenza agli altri. Ma nemmeno sempre, altrimenti non si spiegherebbero tutti quelli che sono stati scoperti dopo la loro morte. Volenti o nolenti i luoghi dove scegliamo di vivere, a lungo andare, ci influenzano e la campagna dove abito da vent’anni, a un certo punto, ha preteso la parola, mostrandosi per quello che era per me: una sconosciuta molto presente. Istintivamente ho provato ad avvicinarmi a boschi e alberi con la macchina fotografica, ingrandendo particolari e lasciandomi suggestionare da quello che vedevo. Ho proseguito trascrivendo le immagini con i colori e affidandomi all’improvvisazione. Il tronco di un albero non solo può essere possente ma è chiaramente vivo ed espressivo, spesso racchiude in sé molte figure, è una grande presenza. Ecco perché gli alberi, anche in culture molto differenti tra loro, sono spesso tra i simboli più importanti e perché, nella nostra tradizione religiosa ad esempio,  si parli addirittura di un albero della vita e di un albero del bene e del male.

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Che il mondo naturale si intrecci con quello delle fiabe è quasi consequenziale; o quantomeno lo è stato per me che considero le fiabe tra i doni più preziosi che ci sono stati lasciati attraverso il tempo. Alberi, fiabe, gli animali raccontati nelle fiabe, quelli che abitano i boschi qui intorno; però, che ne so io di tutto questo mondo vivente? E mi è venuto in mente il Libro di Giobbe con la potenza della sua domanda ripetuta. Ho provato a ritrarre degli animali e a cercare i loro sguardi. Potrei concludere dicendo che le mie tematiche sono conseguenza di un lento avvicinamento. Forse un lasciare che la vita prenda il sopravvento, come quando la vegetazione si riprende il suo spazio.

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Qual è, secondo il tuo punto di vista, il ruolo sociale dell’arte e dell’artista?
Una teologa che ammiro molto, Antonietta Potente, ha parlato della realtà come di «uno spazio epifanico che rende possibile un incontro» e di «recuperare la sensibilità per la vita come imperativo etico». Allora io credo che questa sia la necessità, che ci sia bisogno di allargare le maglie della percezione per poter recuperare una sensibilità più sottile, per avvicinare esseri umani e non umani – non so come dire – con discrezione, con rispetto, con silenzio; e questo dovrebbe essere il compito dell’arte nel tempo che stiamo attraversando. Un compito imperativo. L’arte deve stare con forza fuori dalle leggi del mercato, non appartiene a quel mondo. Deve aiutare a spostarsi in luoghi silenziosi, a recuperarci come esseri sensibili, quali siamo.

http://artenatura.altervista.org/
http://silviapapi.jimdo.com/

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