Divagazioni sulla mostra “I colori della fede a Venezia”

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FULVIA GIACOSA

Ospitata in San Francesco a Cuneo (dal 24/11/2022 al 5/03/2023) la mostra è curata da don Gianmatteo Caputo e di Giovanni Carlo Federico Villa e promossa dalla Fondazione CRC, che festeggia i suoi trent’anni, e da Intesa Sanpaolo.
Si tratta di cinque grandi pale d’altare risalenti agli anni 1560-’65 provenienti da chiese veneziane e realizzate dalla triade della scuola veneta (Tiziano, Veronese, Tintoretto) in un’epoca di passaggio dal classicismo primo-cinquecentesco a quello del manierismo tipico della seconda metà del secolo nella particolare versione lagunare. Sono anni caratterizzati da un diffuso mecenatismo pubblico e privato, in particolare delle “Scuole”, organismi religiosi caritatevoli sostenuti da privati e diventati ricchissimi con le donazioni tanto da poter ingaggiare i migliori artisti del tempo per le loro sedi, da una discreta libertà di espressione grazie alle istituzioni statali e da un clima di cosmopolitismo culturale. L’arte della città in questi anni risente del Manierismo tosco-romano-emiliano per via della circolazione di riproduzioni da parte delle più fiorenti stamperie d’Europa e di soggiorni veneziani di artisti manieristi del centro Italia e, contemporaneamente, delle regole dettate da Concilio di Trento (conclusosi nel 1563 con l’ultima sessione che produce un documento sulle immagini sacre) e il conseguente controllo sull’arte sacra da parte della Chiesa, anche se a Venezia il clima è più tollerante che altrove. Il “caso Veronese” nel decennio successivo è emblematico: l’artista, costretto nel 1573 a comparire di fronte al Tribunale dell’Inquisizione per difendere una sua “Ultima Cena” contestata per infedeltà al racconto evangelico e particolari inappropriati per un quadro religioso (“cani, nani, un buffone, un pappagallo, uomini armati alla todesca”), giustificò così le sue scelte: “se nel quadro li avanza spacio io l’adorno di figure, secondo le invenzioni… La commissione fu di ornar il quadro secondo mi paresse, il quale grande e capace di molte figure, si come a me pareva”, come a dire che sono le regole dell’arte a guidare il pittore, non quelle del catechismo. La faccenda si risolse con un accomodamento cambiando il titolo del quadro (“Il convito in casa di Levi”). Per la Chiesa l’esigenza primaria era la difesa dell’ortodossia, il che significava che l’iconografia doveva restituire la sacralità dei personaggi per stimolare riverenza e devozione; a tale scopo l’arte doveva trovare un linguaggio di facile comprensione (leggi: naturalistico) e capace di coinvolgere emotivamente lo spettatore, in controtendenza con un certo “concettualismo” umanistico-rinascimentale. Si viene a creare così uno “stile per l’arte sacra” che unisce monumentalità, a conferma della forza e grandezza della Chiesa, a semplicità e “popolarità” linguistica per arrivare immediatamente al fedele.
Ad un momento pre-conciliare in cui artisti come Pontormo, Rosso, Lotto e lo stesso Michelangelo trasferiscono nell’arte le tensioni spirituali e il bisogno di un rinnovamento dall’interno della Chiesa cattolica, dal quarto e quinto decennio (in particolare con Paolo IV Carafa) seguono posizioni più rigoriste e l’arte per i luoghi di culto viene soggetta all’approvazione dei vescovi limitando le interpretazioni non conformi tant’è che si assiste alla ripetizione di schemi e formule convenzionali, ad eccezione naturalmente di artisti – come quelli in mostra –  la cui sensibilità è inscalfibile da qualsivoglia rigida regola. Costoro aprono nuovi orizzonti i cui frutti si vedranno tra la fine del Cinque e l’inizio del Seicento in artisti come Caravaggio capace di rendere più accessibile la religione attraverso il sentimento spontaneo e schietto, nonostante alcuni clamorosi “rifiuti” da parte di alcuni committenti religiosi per l’eccessiva mancanza di decoro (emblematico è il caso della “Morte della Vergine”). Sarà il Barocco seicentesco a sancire definitivamente una moderna concezione dell’immagine artistica.

Le pale d’altare esposte sono accomunate dall’elemento stilistico preminente, il colore, sia esso ancora parzialmente tonale (Tiziano), timbrico (Veronese), luministico (Tintoretto).  Nell’abside di San Francesco attira subito l’occhio l’Annunciazione tarda di Tiziano (1490 c.-1576) proveniente dalla Chiesa di San Salvador. È una pala su commissione per la cappella di un ricco gioielliere veneziano. L’opera viene ricordata da Vasari nella seconda versione de Le Vite… e pertanto deve essere comunque anteriore al 1568, anno in cui costui pubblica il suo testo. Vasari sicuramente apprezzava maggiormente le opere precedenti rispetto alle più recenti (“queste opere ultime, ancor che in loro si veggia del buono … non hanno di quella perfezzione che hanno l’altre sue pitture”), dallo stile “vago e “condotte di colpi, tirate via di grosso e con macchie, di maniera che da presso non si possono vedere e di lontano appariscono perfette”.
Nel dipinto compare la scritta in basso a destra “Ignis ardens non comburens” che probabilmente collega l’Annunciazione al Roveto ardente (fiamme che ardono senza consumare), luogo in cui Mosè riceve da Dio l’incarico di condurre il suo popolo fuori dall’Egitto: due rimandi al tema della salvezza. Al di là dei simboli religiosi (tra cui il gesto della Vergine che solleva il velo per ascoltare le parole del messaggero -poiché Dio è “verbo”-), l’opera di Tiziano è un inno alla forza comunicativa del colore e della luce. Quest’ultima giunge al suo culmine intorno alla colomba dello Spirito Santo e arrossa le nuvole mentre una fonte nascosta di luce radente illumina la Vergine e l’angelo le cui ali sono di una modernità stupefacente per la rapidità e matericità delle pennellate, generando la perfetta fusione del lumen divino con la luce terrena che squarcia le ombre retrostanti. Una teatralità a stento trattenuta rende quasi drammatico un soggetto che la tradizione umanistica razionalizzava e immobilizzava un uno spazio e un tempo precisi (si pensi all’Angelico e persino a Leonardo). La potenza di una comunicazione emotiva di questa “Annunciazione” supera persino quella dello stesso Tiziano per la Scuola di San Rocco (1539) ancora chiusa nel recinto delle architetture di fondo, racconto che nella tarda versione diventa tangibile prodigio. La modernità dell’ultimo Tiziano è stata colta, oggi, da Gerard Richter (Dresda, 1932) che riprende la qualità visionaria con un lessico contemporaneo (le chiama “fotografie dipinte”). Per la cronaca è stato nel 1972 che l’artista tedesco, rimasto affascinato dall’opera di Tiziano, decide di “rifarla” partendo da una riproduzione fotografica (parla infatti di “fotografie dipinte”) poi tradotta in olio su tela dove i contorni sfocati ed evanescenti producono effetti fantasmatici: “Rendo le forme sfocate per far sì che tutto sia importante e non importante allo stesso tempo … sfocate perché non sembrino artigianali o artistiche, ma tecnologiche, lisce e perfette. Sfoco perché tutti gli elementi si mescolino… anche le informazioni non necessarie e superflue”, scrive. Centrale per l’artista è la riflessione sulla precarietà del presente pittorico, un’ “insufficienza” come la definisce, che, insieme ad una vena nostalgica, sancisce la condizione attuale dell’arte: caduti tutti i codici del passato, essa ondeggia tra la l’illusione fotografica e la sterilità di certo citazionismo post-moderno.

Ma torniamo alla mostra.
Di Paolo Caliari detto il Veronese (1528-1588) sono esposte due opere: il Battesimo di Cristo (1561) dalla Chiesa del Redentore (Cappella Baoder) e la Resurrezione di Cristo (1560 circa) dalla Chiesa di San Francesco della Vigna. La prima è opera commissionata da un mercante veneziano per la cappella familiare dedicata al Battista nella piccola chiesa di Santa Maria degli Angeli poi demolita per far posto alla chiesa palladiana del Redentore nel 1576 anno della peste. All’epoca Veronese era un trentenne già famoso per gli interventi nella Libreria Marciana e in Palazzo Ducale, oltre ad opere su commissione fuori Venezia come gli affreschi nella villa palladiana a Maser (1561). Nella seconda un Cristo risorto si staglia su un fondo chiaro come un’alba mattutina che dal giallo transita nell’azzurro in una sinfonia di luce nella quale risuona l’acuto del rosso vivo nel manto del Cristo; lame di luce terrena, a contrasto con un fondo oscurato da nuvole e rupi selvatiche, invadono gli astanti della parte bassa con i soldati sconvolti e dalle pose scomposte. In entrambe sono leggibili gli influssi del Manierismo centro-italico (Giulio Romano, Correggio) nei corpi possenti e nelle pose teatrali, mitigati dalla luce chiara e dai colori brillanti che costituiscono l’ossatura del dipinto dilatato sulla superficie anziché scalati in profondità. Ciò che lo distingue dai suoi contemporanei è la qualità timbrica dei colori, un po’ come nel giovane Michelangelo (“Tondo Doni”), fatta di contrappunti di tinte pure (gialli, azzurri, rosa e rossi) preziose come gemme. Certo all’epoca la fisica ottica, le leggi simultanee e la Gestaltpsychologie erano di là da venire e bisogna attendere l’ultimo Ottocento. Tuttavia la sostituzione di una fusione coloristica (Giorgione, Tiziano) con tinte pure giustapposte da parte di Veronese ne fanno una sorta di intuizione ante litteram: i colori così vicini all’intensità della luce bianca, le ombre colorate, l’impasto leggero e le pennellate veloci, i colori spesso complementari determinano in Veronese una vibrazione luminosa che sarà poi tipica dell’Impressionismo.

Il più giovane – e anche il più moderno – dei tre artisti è Tintoretto (1518-1594) presente con due opere, la “Crocifissione” (1560 ca) proveniente dalla Chiesa dei Gesuati e l’ ”Ultima cena” (datazione incerta, tra 1561 e ‘66) proveniente da San Trovaso. La prima è divisa in due piani come da tradizione: in alto il Cristo sulla croce, appena arretrato, in controluce su un enorme alone biancastro e un accenno di paesaggio acqueo che ricorda gli sfumati leonardeschi, nella parte inferiore una serie di figure, tra cui la Vergine svenuta, dove predominano assi obliqui intersecantesi e il rosa intenso delle vesti. L’impianto iconografico mescola i temi secolari della Crocefissione con quello della Deposizione dalla Croce, con una contrazione temporale di notevole efficacia. Sicuramente più libera dai codici imperanti è l’”Ultima cena” (1561-’66). Il tema è stato trattato più volte dal Robusti: le più famose sono quella della Scuola di San Rocco (1565 c.) e quella tarda conservata in San Giorgio Maggiore (1592-‘94). Tutte sono accomunate da una composizione diagonale che consente allo spettatore di sentirsi all’interno dello spazio dipinto, dai toni scuri e una luce radente che taglia il buio. Sono lavori ormai oltre gli stilemi manieristici e preludono allo stile seicentesco anticipando Caravaggio per la mescolanza di alto e basso, di spiritualità intensa e realismo di dettagli popolani (vesti povere, crape pelate, pose scomposte – le terga di un apostolo “bucano “ il primo piano! -, oggetti da taverna, sedie sgangherate, pavimento sporco). La scena è agitata come lo stato d’animo degli apostoli, un’istantanea narrativa propria dell’arte pittorica; Tintoretto è consapevole che guardare un quadro significa leggere primariamente l’intero e solo in un secondo momento i singoli particolari, l’opposto della “lettura” di un brano la cui sintesi si coglie pagina dopo pagina. Da regista teatrale qual è Tintoretto attualizza la storia sacra con particolari di genere che coinvolgono persino i non credenti. Ambigua è solo l’architettura classica a destra, più immagine onirica che ambientazione reale. La sua è un’arte “agitata”, dall’esecuzione rapida e pennellate filamentose, scorci arditi di corpi immersi in vuoti assorbenti e notturni, composizione mai cartesiane ma oblique e sfuggenti. Il dramma dell’esistenza terrena è il vero soggetto, indipendentemente da quale sia l’episodio sacro da rappresentare. In tal senso egli apre non solo la strada al Romanticismo visionario ma anche al Realismo ottocenteschi.
Personalità tormentata, dalla spiritualità sincera (non certo per adattamento ai dettami controriformistici), Tintoretto ha sempre solo lavorato per Venezia, per di più dovendo sgomitare per farsi strada tra due giganti come Tiziano e Veronese e una committenza che lo considerava un “ribelle”. E Vasari, che ne parla soltanto all’interno della vita di un pittore veneto minore, tal Battista Franco, scrive che “nelle cose della pittura [è] stravagante, capriccioso, presto e risoluto et il più terribile cervello che abbia avuto mai la pittura, come si può vedere in tutte le sue opere e ne’ componimenti delle storie, fantastiche e fatte da lui diversamente e fuori dell’uso degl’altri pittori”, in sostanza contestandogli la mancanza di disegno e di “diligenza” nel dipingere.
Tale tuttavia è l’impatto prepotente delle sue visionarie opere che, nonostante le difficoltà incontrate a inizio carriera e i trucchetti che adoperava per accaparrarsi le commissioni, egli resta il più moderno tra i suoi contemporanei.
J. P. Sarte, che a lungo ne ha studiato l’opera, lo ha definito il “segregato di Venezia”.

INFO. Visite fino al 5 marzo. Orari: dal martedì al venerdì (ore 15.30-19.30), sabato e domenica (ore 10- 19.30). Visite guidate dalle 15.30. Ingresso gratuito.

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