La Cinquina di zio Reginaldo

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GABRIELLA VERGARI
Me l’aveva promesso.
Il che, alle orecchie dei più, sarebbe suonato come una garanzia.
Ma, dal momento che si trattava dello zio Reginaldo, non vi avevo prestato molta fede.
Nel tempo, lo zio mi aveva infatti dato la sua parola su tante altre cose che, naturalmente, non si erano verificate.
Mai era arrivata la macchinetta verde a pedali per Natale, né il trenino che allegramente sbuffava vapore da binari a più scambi, né la maschera subacquea da competizione.
Così, direi che, già intorno ai sei anni, avevo compreso come, quella con lo zio Reginaldo, sarebbe sempre rimasta tra le intese più belle, a patto però di lasciarla sospesa nell’aura eterea del sogno.
Pretendere che le sue parole si traducessero in realtà non solo l’avrebbe distrutta, ma pure confinata in una mesta, e in fondo inutile, frustrante delusione, di cui nessuno dei due sentiva la mancanza e tantomeno il bisogno.
Molto più divertente, e perché no, assai più dolce, lasciargli invece credere che, un giorno, lui avrebbe davvero comprato, a un nipotino desioso, quello che alle sue tasche non poteva non rivelarsi proibito e, da parte del nipotino desioso, cioè io, immaginare un’altra dimensione, in cui tutte le sue promesse avrebbero concretamente preso corpo.
Perciò eravamo abituati a sostare davanti alle vetrine più invitanti per indicarci, a vicenda, qualunque cosa ci sembrasse degna di quel nostro gioco segreto, che via via era andato al rilancio di oggetti inarrivabili.
Basta che azzecchi quel terno al lotto, e ti prometto… mi diceva lo zio, sventolandomi tutto compiaciuto, sotto il naso, la cedola della giocata appena fatta.
In alternativa si poteva trattare di un biglietto della lotteria, Quest’anno il montepremi è da paura. Oppure di una soffiata per le corse di cavalli, Il Rosso è una garanzia, vedrai.
Da recente perfino di una puntata, Sicura, sicurissima, al Fantacalcio su un derby nigeriano.
E insomma, di questo passo, io ero divenuto prima un ragazzino, poi un adulto consapevole e in ultimo un padre di famiglia.
Lui, un adulto rimasto bambino fino alla fine che, come tutte le fini, era pur giunta.
L’ultima volta, mentre mi accostavo al suo capezzale, lui mi aveva afferrato convulsamente la mano sussurrandomi in un soffio: «Tranquillo che da lì dove vado penserò ancora a te.»
Con un debole sorriso, strizzandomi come poteva l’occhio, aveva poi aggiunto: «E questa volta non sarà per finta.»
Per le copiose lacrime che mi rigavano il volto, non ero riuscito a rispondergli con l’abituale Certo, zio, ci mancherebbe, ma l’avevo solo stretto in un lungo abbraccio, dal quale speravo lui sentisse quanto mi sarebbe mancato e quanto bene gli volessi.
Che ora però mi fosse venuto in sogno, non me l’aspettavo.
E men che meno che, a voce alta e sicura, mi avesse dettato cinque bei numeri.
Che fosse lui era certo, non si poteva sbagliare.
Stessi occhi nocciola, stesso sguardo a suo modo scanzonato, stesso completo a quadrettoni inglesi che lui tanto amava e lo faceva somigliare a una specie di Sherlock Holmes casereccio.
E nemmeno potevano esserci dubbi che si stesse proprio rivolgendo a me.
Innanzitutto mi aveva chiamato più volte per nome.
Poi si era premurato di ripetermi: «Hai capito, eh? Hai capito bene? Punta quanto più puoi su questa cinquina. Se non hai il contante sufficiente, chiedilo in prestito. Vedrai, sarà la tua fortuna.»
Che avreste fatto, voi, al risveglio?
Con un occhio ancora chiuso e uno semi-aperto, ho intanto appuntato i numeri sul primo pezzo di carta sotto mano.
Quindi, a mente un po’ più lucida, li ho guardati e ci ho pensato su: 7, 89, 56, 34, 12. Non mi dicevano niente e nemmeno mi sembravano tanto in armonia tra loro.
Non ne capisco molto di numerologia, ma anche a volermi semplicemente rifare alla smorfia napoletana, mi ritrovavo davanti la sequenza: vaso, vecchia, caduta, testa e soldati.
Boh?
Nemmeno comparando le date di nascita familiari, le età o le preferenze numeriche, venivo a capo di qualcosa. Come avrei dovuto interpretare quei segnali? Dovevo affidarmi ai numeri che mi ritrovavo davanti proprio perché casuali, o non affidarmici affatto, per lo stesso motivo?
In casa, tra me e mia moglie, non raggranellavamo, in contanti, che cinquanta euro. Un po’ pochini per trasformarli in una fortuna.
Di chiedere un prestito, però manco a parlarne. Finché il gioco tra me e mio zio era rimasto ai margini del possibile, non si era fatto male nessuno, anzi ci eravamo divertiti e molto.
Ma da qui a indebitarmi…
Inoltre mi si prospettava una mattinata tremenda, nella quale inserire pure una puntata alla ricevitoria del lotto avrebbe richiesto un notevole sforzo.
Eppure lo zio Reginaldo mi era apparso certissimo di quanto diceva. E difficilmente equivocabile il suo messaggio.
Così, tra capo e collo o, meglio, a rotta di collo, mi sono precipitato, quasi in chiusura, nella tabaccheria più vicina e con ansia ho aspettato che i sei clienti davanti a me venissero serviti.
Ho quindi dichiarato i miei numeri a un tizio corpulento che, veloce, li ha digitati sul suo display e con routinaria indifferenza me li ha fatti rileggere prima di premere il tasto di conferma.
Confesso che, nel momento in cui ho visto sparire la rosea silhouette dei miei cinquanta euro da una fessura sul bancone, ho avuto un guizzo d’emozione che non mi sarei mai aspettato. Mi sono rivisto, bambino, intento a spiare se, sotto l’albero di Natale, si intravvedesse o meno la sagoma della macchinina verde.
Oh, zio Reginaldo, quanti sogni e avventure insieme…
Infine, con un pizzico di curiosità, e anche un certo batticuore, ho aspettato la prima estrazione utile.
«Ma che fai?» mi ha chiesto mia moglie, vedendomi come da noi si dice, sbillicare la pagina del giornale, nemmeno fosse una mano a poker. E in effetti la posta c’era. E pure alta.
Mi si è quindi messa di fianco, per non perdersi la sorpresa.
7, 89, 65, 43, 21: il vaso, la vecchia, il pianto, Donna Pereta al balcone, la femmina nuda…
«Ohibò,» è infine sbottata «e questi da dove vengono? Possibile che tuo zio ti abbia lasciato a bocca asciutta pure questa volta?»
In realtà, stentavo a crederci anch’io. Non che ci avessi proprio fatto affidamento, ma insomma, date le circostanze… Che nemmeno da defunto e dall’Aldilà, zio Reginaldo riuscisse a mantenere le sue promesse?
Quando mi sono un po’ riavuto dalla delusione, ho però osservato meglio la sequenza e all’improvviso ho risentito la voce di mia nonna: «Non era colpa sua, se Reginaldo andava male in aritmetica. È che tante volte leggeva i numeri al contrario.»
In altre parole, mio zio era affetto da quella che oggi si definirebbe una lieve discalculia. Perciò me li aveva dati, i numeri, ma di alcuni aveva invertito le cifre e di altri le aveva mantenute.
La rivelazione mi ha riscaldato il cuore. Non aveva disatteso la promessa. L’aveva mantenuta ma, come sempre, a suo modo.
«Beh, tutto sommato, abbiamo fatto ambo.» ho esclamato molto meno mogio di quanto mia moglie si sarebbe aspettata.
«E sì,ciucciamoci ‘sto…»
Le ho subito tappato la bocca con un bacio.
Non ero sicurissimo che stesse per aggiungere pollice.

(tratto da: AA.VV. La cumacca del lucro cessante, a cura di S. Mirabella, Albatros edizioni 2021)