Il Vangelo secondo Maria negli intensi versi di Giuliano Ladolfi

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GABRIELLA MONGARDI

Ricorda la Matthäuspassion di J.S.Bach e il Pianto della Madonna di Jacopone da Todi, il poemetto La notte oscura di Maria di Giuliano Ladolfi (Puntoacapo Editrice 2021), e forse più che di un poemetto si dovrebbe parlare di un testo teatrale, come una “Passione” per solisti, coro e orchestra, appunto, o una “Lauda drammatica”, componimento religioso medievale con vari personaggi dialoganti fra di loro.

In questo caso abbiamo un monologo, introdotto da una voce fuori campo che cita il racconto evangelico della sepoltura di Gesù e presenta la situazione iniziale: Maria allontanata a forza dal sepolcro del figlio dal discepolo Giovanni, a cui Gesù prima di morire in croce l’aveva affidata. Dal secondo testo in poi l’autore dà voce direttamente a Maria e al suo umanissimo dolore di madre che ha perso il figlio, cioè la vita («Io con lui sono entrata nel sepolcro»), e ricorre alla potenti metafore del buio, del silenzio, del vuoto, della pietrificazione per esprimere tutta la sua irredimibile angoscia di morte.
«Notte oscura:
il ritirarsi delle cose,
l’abbandono di noi
stessi da noi e dal nostro passato,
e dal presente e dal futuro.»

Alle liriche in cui Maria, al pari di Giobbe, grida a Dio la sua disperazione, il suo sconcerto per l’assurdo di un mondo in cui si nasce per soffrire e morire, dubita della sua bontà se non della sua esistenza, e cerca invano un senso all’ingiustizia, si alternano quelle in cui ricorda la sua vita con quel figlio così misterioso e con Giuseppe  –  e il ricordo del vissuto in qualche modo ne “sospende” la pena, concede un po’ di tregua alla sua angoscia. In ordine sparso si ritrovano così gli episodi del Vangelo relativi alla dimensione “famigliare” della vita di Cristo, narrati dal punto di vista di Maria. In questo modo il testo poetico si anima, vibra di impercettibile musica: si crea un movimento ondulatorio, un va-e-vieni tra presente e passato del personaggio che permette uno scavo psicologico profondo e partecipe da parte dell’autore, e suscita intense risonanze nel lettore.

In punta di piedi, sottovoce, con mano leggera e delicata, il poeta si accosta a una madre che soffre il dolore più atroce, si identifica in lei e attraverso di lei parla anche di sé e di tutti noi – come sempre fa la voce della vera poesia. Nello stesso tempo mette in risalto l’aspetto umano della religione cristiana, il fatto cioè che sia una “narrazione” che celebra i momenti centrali della vita di un uomo e il mistero che è in essi: venire al mondo, essere bambino, crescere, trovare il proprio posto nel mondo, morire…
C’è un disegno dietro tutto questo? La Maria di Ladolfi è così umana che arriva a dubitarne:
«Ma quanti dubbi… proprio non capivo
a qual disegno mi fossi affidata:
il Signore parlava… forse
non sapevo ascoltarlo o forse
soltanto mi illudevo che parlasse… »

E il suo monologo si conclude con un’amarissima dichiarazione di fallimento:
«Gli occhi ormai asciutti
non scorgono che un masso
sopra un terreno in cui
è stato sepolto quel seme
che avrebbe dovuto
unire il tempo con l’eternità.»

Così come l’ultimo corale della Passione secondo Matteo di Bach, anche la poesia di Ladolfi si ferma prima dell’evento che è mistero di Fede, prima di farsi retorica apologetica e consolatoria.