Il partigiano Piero Cosa – Quarta puntata

Cimitero Partigiano di Chiusa Pesio

Cimitero Partigiano di Chiusa Pesio

GIUSEPPE PRIALE

Finita in modo inglorioso la guerra voluta dal Fascismo per mania di grandezza, finita, però, vittoriosamente la Resistenza per volontà di singoli individui e grazie anche all’aiuto determinante degli Anglo-Americani, Piero Cosa avrebbe strameritato di ritornare al suo impiego al Genio Civile di Cuneo. Invece il suo posto da segretario dell’Ingegnere Capo non era più disponibile: magari era stato occupato da un imboscato o da un raccomandato della politica o dei partiti, quelli che lui non aveva voluto che entrassero nelle sue formazioni, perché ritenuti da lui un grave ostacolo per conseguire la vittoria finale. Con questo non si deve credere che fosse un apolitico. Infatti, in occasione dell’Assemblea Costituente, accettò di far parte, come indipendente, della lista Concentrazione Democratica Repubblicana, capeggiata da Ferruccio Parri, nella Circoscrizione del Piemonte Sud. Ma nelle elezioni comunali revocò la sua candidatura nelle liste della Democrazia Cristiana a Fossano e a Chiusa Pesio, per non entrare in competizione con alcuni suoi partigiani, ai quali non voleva sottrarre dei voti con la presenza del suo nome, a quei tempi molto celebrato. Con questo suo altruismo si precluse, però, anche la possibilità di avere un futuro politico, che sicuramente avrebbe inteso come vero servizio e non come un tornaconto personale. Scrisse di lui don Aldo Benevelli: “Non accettò vanterie, nastrini; rifiutò oro in medaglie di guerra schermendosi perché doveroso servizio al riscatto della sua terra”. Grazie a lui e al suo Sevizio X si ebbero i primi aviolanci in Alta Val Pesio da parte degli Anglo-Americani, con i quali aveva stabilito una efficiente rete di contatti. Tanto che il gen. Alexander, Comandante Supremo delle Forze Alleate in Italia, gli conferì il Certificato di Patriota per il suo contributo “validamente dato alla liberazione dell’Italia e alla causa di tutti gli uomini liberi”. Il capitano Cosa era, però, un comandante atipico, che forse non avrebbe fatto una gran carriera nell’esercito, né tanto meno in politica, perché troppo granitico nella sua struttura morale, contrario, quindi, ai compromessi e agli intrallazzi. Era, insomma, veramente un Bastiàn Cuntrari, quando ad andarci di mezzo era l’etica dell’uomo probo, del credente (non fariseo) e del Buon Samaritano. Amava servire, non essere servito. Non usava gli altri per dar gloria a sé stesso. Durante la guerra in Albania e la Resistenza non cercò mai di guadagnare decorazioni o encomi con il sangue altrui. In situazioni pericolose era il primo ad esporsi. Osava mendicare per gli altri, mai per sé stesso. Purtroppo, se le porte si aprivano anche spontaneamente per gli altri, non si aprirono per lui, forse perché la sua presenza era ritenuta scomoda dai “padroni della Resistenza”. Quando inoltrò al Ministero competente la pratica per ottenere il riconoscimento giuridico ed economico per il periodo del partigianato, non ottenne il giusto riconoscimento.

Finita la Resistenza, rimase fortemente deluso nel constatare che la Liberazione dell’Italia dalla dittatura e dallo straniero non aveva ancora garantito la vera giustizia e la vera libertà. Quando si rese conto che il Rinnovamento e la Rinascita tardavano ad arrivare, decise nel 1955 di emigrare con la famiglia ed il fratello minore in Colombia, appoggiandosi ai Missionari della Consolata di Florencia. In questa città gestì un distributore di benzina fino al 1962, esercitando nello stesso tempo la professione di geometra e l’attività di volontariato nell’amministrazione di una scuola e della vastissima diocesi, di cui era vescovo il missionario della Consolata il monregalese mons. Lino Cuniberti. L’anno dopo si trasferì a Bogotà, per continuare la sua professione di geometra a sostegno dei numerosi operai e imprenditori italiani immigrati in quella città, che in quegli anni era in pieno boom edilizio ed economico, come d’altronde il resto del Paese. Ben presto, però, dovette lasciare la Capitale, perché la suocera pativa l’altitudine (2640 s.l.m.). Si trasferì, allora, a Calì dove aprì una fabbrica di manufatti in cemento. Il 30 settembre 1964 ricevette la notizia che il Ministro della Difesa lo aveva insignito della Croce al Merito “per i sacrifici sopportati durante l’attività partigiana”. Ma ricordando che ai suoi partigiani aveva detto di non mirare a nessuna onorificenza mettendosi a servizio della Patria, pregava la sorella Anna, residente a Fossano, di restituire i brevetti e l’insegna metallica di cui era depositaria. Con una lettera al Distretto Militare di Cuneo precisava che la rinuncia era dettata da “ragioni di principio, maturata durante la lotta di Liberazione Nazionale ed in obbedienza ad un preciso impegno morale” preso con i suoi ragazzi. A Calì non tardò a prendere contatto con la numerosa comunità italiana, composta da alcune persone che già conosceva e da qualche commilitone dell’ 8° Reggimento Alpini della Julia. Alla morte del console, la comunità italiana, che aveva avuto modo di conoscere le sue qualità e il suo spirito “missionario”, lo elesse console onorario, con la speranza che la nomina venisse ufficializzata dal Ministro degli Esteri. Ma, per i soliti giochi politici e scambi di favori, la sua candidatura cadde nel vuoto, pur essendo la persona più meritevole e degna a ricoprire quel ruolo (Purtroppo i debiti di riconoscenza sono tra quelli che presto cadono in prescrizione).

Alla fine vendette la fabbrica, anche perché alcuni imprenditori italiani gli avevano chiesto di allestire e organizzare sul posto dei magazzini per le loro aziende. Assolto tale incarico, nel 1979 a 71 anni sentì forte il richiamo delle sue radici, più che naturale ad una certa età. Quindi, cedette alle continue sollecitazioni di ex-partigiani suoi grandi amici, specie dell’ing. Nandino Picco di Villanova, il quale s’impegnava a trovargli un’abitazione e gli assicurava un impiego nel suo ufficio, giusto per non fargli passare il tempo solamente a ricordare, nell’inattività a lui non consona, “l’Impresa” che gli era riuscita meglio, ma che gli aveva anche riservato grandi delusioni. Così, avrebbe maturato anche un po’ di pensione, dal momento che con le sue attività all’estero, durate ventiquattro anni, non aveva accumulato grandi ricchezze: solo quel poco che gli era servito per mantenere agli studi universitari negli U.S.A. i due figli, Giuseppe e Pedro. Alla fine ebbe il sopravvento la nostalgia delle sue amate Valli, specie della sua Valle Pesio, che gli faceva scrivere in una lettera ad un amico, uno dei tanti con i quali corrispondeva abitualmente: “Il nostro sogno era quello di viverci per il resto della vita, ma le vicissitudini umane ci hanno sbandati in terre lontane, lasciandoci solo invidiare i Caduti rimasti lassù, ignari delle delusioni tremende del dopoguerra”. Nel 1987 gli veniva conferita l’onorificenza di Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana, per interessamento del sen. Francesco Mazzola di Cuneo. Anche questa volta rifiutò, adducendo gli stessi motivi già espressi per quell’altra. Accettò, invece, di buon grado la nomina a Presidente dell’Associazione Partigiana Ignazio Vian.

Ignazio Vian era un maestro elementare di Venezia, arruolato allo scoppio della guerra nella Guardia di Frontiera. Trovatosi in servizio a Boves l’8 settembre del ’43, il giorno dopo con centocinquanta soldati del suo reparto si rifugiò sul monte Bisalta, deciso a opporsi con le armi ai tedeschi, i quali pochi giorni dopo andarono a intimargli la resa, ma inutilmente. Il 19 aprile essendosi recato a Torino per una missione, cadde nelle mani dei tedeschi e venne incarcerato. Durante la prigionia fu più volte torturato e seviziato per ottenere da lui informazioni sulla Resistenza del Cuneese. Tentò anche il suicidio con il taglio delle vene per paura di parlare. Il suo eroico silenzio gli costò l’impiccagione ad un albero di Corso Vinzaglio e l’esposizione del suo corpo, lasciato appeso per una settimana, in ottemperanza alla “lezione del terrore” prevista dal Codice degli Ostaggi, varato nel 1940. La stessa lezione era già stata data a Boves con la strage ordinata dal maggiore Joakim Peiper, condannato dopo la guerra all’impiccagione, ma poi al carcere fino al 1956. Il boia di Boves, sotto il nome di Rainer Buschman, visse a Traves in Francia fino al 1976, quando per una sorta di legge del taglione (applicata da non si sa chi o per intervento della dea Nemesi invocata da qualche segreto devoto), morì nel rogo di casa sua, andata in fiamme forse per “autocombustione”, dovuta molto probabilmente al demonio che vi abitava dentro sotto mentite spoglie.

A Piero Cosa, stabilitosi a Villanova con il suo vero nome, non incendiarono la casa, ma neppure il suo ritorno fu celebrato come meritava. Sicuramente festeggiato e onorato dai suoi amici, visse il resto della sua vita quasi nell’anonimato, come se il ricordo delle sue imprese partigiane e la fama di uomo prode, probo e giusto fossero andati anch’essi in fumo nell’incendio della memoria collettiva. Anche la sua presenza alle celebrazioni del 25 aprile rimaneva per lo più nell’ombra e senza voce. Anche gli echi degli osanna della Liberazione e dei suoi applauditi discorsi tenuti a Boves e a Mondovì nel ’46, si erano dissolti nel tempo, il nemico peggiore della memoria e della storia. Per riempire certi vuoti morali, a lui bastava, senza risentimenti, andare ogni tanto ai suoi santuari: Santa Lucia, Certosa e Cimitero dei suoi partigiani. Dopo il ritorno in Patria, per diciasette anni visse non lontano da casa mia, senza che io, distratto non so da cosa, percepissi la sua presenza assente. Forse fu anche colpa delle mie orecchie, rese sorde per diversi anni dalle mie vicende personali, ma anche dai troppi clamori, a volte stucchevoli e fuorvianti, sulla Resistenza. Ora, contrariamente a ciò che capita ad una certa età, le mie orecchie si sono riattivate quasi miracolosamente, da quando mi hanno dato da leggere gli Atti del Convegno su Piero Cosa, tenutosi a Chiusa Pesio in occasione del centenario della sua nascita (e di mio padre, che forse mi ha alitato nell’orecchio l’evangelico Effeta, apriti), celebrata anche con l’intitolazione della piazzetta di S. Bartolomeo, il paesetto ai piedi della Certosa, da dove prese avvio la sua avventura resistenziale e dove finì anche quella terrena. Così, poco tempo fa, ho sentito il dovere morale di andarlo a trovare nel piccolo cimitero per fare due “chiacchiere” con lui, sicuro che ci saremmo intesi con le parole del silenzio o con il silenzio delle parole, quelle che scendono nelle abissali profondità del cuore e superano gli spazi siderali dell’anima. Gli ho chiesto alcuni chiarimenti, gli ho raccontato fatti che forse lui non ha conosciuto nella prima vita, gli ho fatto tante domande, alcune forse anche un po’ indiscrete, perché si è stretto nel suo abituale riserbo. Non ha fatto recriminazioni, non ha messo sotto accusa nessuno, non mi ha fatto l’elenco di tutte le sue imprese, né ha recitato la parte del miles gloriosus. Non ho mancato di chiedergli se, per caso, era stato lui a intimare al partigiano Poma di mettere giù la pistola che teneva puntata alla tempia di quella ragazza di Norea, sospettata di essere una spia. Gli ho chiesto anche se sapeva quale santo (partigiano) era intervenuto a salvare mio zio Fedele al posto di blocco di Miroglio. Gli ho chiesto, per pura curiosità, se per caso era passato qualche volta anche lui a casa nostra per farsi aggiustare da mio padre gli scarponi logorati dal continuo andare da una valle all’altra delle nostre montagne, mentre un bambino di quattro anni piantava anche lui bullette sul pavimento in legno, dando fastidio agli ascoltatori di Radio Londra, che, già disturbata dalle interferenze dei sabotatori, era disturbata ancora di più dai suoi strilli forsennati, appena qualcuno si azzardava a togliergli di mano il martello da calzolaio.

Davanti al suo “cenere muto”, ho voluto anche raccontargli, se mai ce ne fosse stato bisogno, due episodi, che la nonna materna Margherita mi aveva riferito, risalenti al ’44 e che con più dovizia di particolari e con più precisione sono stati sicuramente registrati sul grande libro intitolato Tutte le vicende e tutta la verità sulla Resistenza. Opera che solo il Grande Editore può aver pubblicato da tempo, senza aver ricevuto smentite, né suscitato polemiche tra i suoi lettori, ormai depurati da ogni scoria terrena.

Don Mario Ghibaudo

Don Mario Ghibaudo

1° episodio. Molte case di Prea rimanevano vuote durante l’estate, perché i padroni erano saliti ai tèc, cioè alle malghe per il pascolo di montagna e l’unica fienagione. Da alcuni anni la nonna materna non saliva più al suo, perché aveva venduto le poche vaccherelle e ceduto al figlio il casolare di San Grato, dato poi alle fiamme dai tedeschi nel tristissimo dicembre del ’44. Alla sera, quindi, era solita venire a casa nostra a fare la viò, cioè a fare veglia. Rimaneva fino a tarda ora a rammendare o a filare, quando la nostra famiglia era ancora tutta intera e relativamente felice, per quanto lo permettevano i tempi. Ritornata a casa, la trovò occupata da alcuni giovani partigiani, che dormivano così profondamente che non osò svegliarli per andare ad occupare legittimamente il suo letto vedovile. Riaccostò l’uscio con semplice clac (come lo aveva lasciato) e andò a dormire sul fienile della stalla del Prarèt, dove teneva ancora quattro caprette per il latte da dare due volte al giorno ai suoi quattro nipotini.

Quando la nonna mi raccontò l’episodio, non era per nulla risentita, anzi sorrideva soddisfatta, come può esserlo una mamma quando vede i figlioletti dormire tranquilli e cerca di evitare anche i più piccoli rumori per non svegliarli.

2° episodio. Zio Dreìn, cognato di nonna Margherita, una mattina ebbe una brutta sorpresa. Appena entrato nella stalla a dunò ghia, cioè a rigovernare le vacche, vide che mancava Bela, una giovane manza che meritava veramente il nome che portava. Era stata “prelevata irregolarmente” di notte senza il rilascio del regolare buono di requisizione rilasciato al proprietario. I sospetti caddero su un certo partigiano della piana monregalese, che aveva la nomea di non accontentarsi di qualche gallinella in libera uscita, abbattuta non tanto per esercitare la mira, quanto per esigenze di “vitale importanza” per la resistenza in vita. Zio Dreìn conosceva il paese del lestofante, ma anche la professione del padre. A notte inoltrata era già in quel paese alla ricerca della stalla dove la sua Bela poteva alloggiare, forse solo temporaneamente in attesa di una probabile esecuzione capitale. Era quindi una questione di vita o di morte soprattutto per lei, ma anche guai grossi per lui. Fece il suo nome a bassa voce alla porta di diverse stalle. Finalmente ad una di esse la Bela rispose, anch’essa sommessamente, come d’intesa. Lo zio, senza farsi troppi scrupoli, entrò, sicuramente ì l’accarezzò, magari anche la baciò in mezzo alla fronte, poi la slegò. Ricevuta, penso, una riconoscente leccata da fargli volar via anche la calota, le mise al collo un’inutile cavezza e la riportò alla sua stalla, passando per vie traverse, che solo lui conosceva, così da evitare il posto di blocco dei partigiani all’entrata di Prea e per non dover dare tante spiegazioni su quel suo “furto” fatto in piena notte, con il coprifuoco in atto, ma con la coscienza tranquilla. Solo nel dopoguerra zio Dreìn poté raccontare in tutta libertà la sua avventura notturna, la sua “resistenza” ai soprusi. Da tutti fu considerato un eroe.

Senza augurargli “buona eternità” (certamente se l’era già assicurata in vita), con un discreto Requiem mentale salutai il “cenere muto” di Piero Cosa, deceduto a Villanova il 5 novembre 1996 all’età di 88 anni e sepolto nel cimitero della piccola frazione di Chiusa Pesio, da cui provenivano le radici della madre e della moglie. Morì ricco solo di buone opere, ma “povero di quel denaro di cui non volle mai essere schiavo, prodigo di amicizia e rettitudine”, come ha scritto di lui don Aldo Benevelli, che prima di diventare partigiano, ha saputo mettere in pratica, la settima e la più difficile delle Opere di Misericordia Corporali: seppellire i morti. Infatti, fu tra quelli che andarono a recuperare i ventitré corpi straziati del primo eccidio di Boves, tra i quali quello del viceparroco don Mario Ghibaudo, il cui sangue di martire ha sicuramente contribuito a far sorgere o a rafforzare la chiamata al sacerdozio del ragazzo di Azione Cattolica e a far avviare il processo di beatificazione del giovane prete, pugnalato in più parti del corpo in spregio di quella veste nera che indossava e sotto la quale nascondeva il Giudice che avrebbe condannato in eterno gli esecutori dell’eccidio.

Se dal sangue dei martiri può solo nascere il bene, il bene può anche nascere da qualsiasi atto di umanità, a volte anche insignificante. Quello che Piero Cosa fece in vita non fu “cosa” da poco e merita di essere ricordato e celebrato anche più degnamente di quanto io possa aver fatto da modesto artigiano della parola (soddisfatto solo quanto può esserlo un muratore quando trova la pietra giusta nella costruzione di un muro a secco), perché fu un uomo che non si lasciò mai vincere dall’odio, che fomenta la guerra, ma si lasciò vincere sempre e solo dalla pietà, che la spegne. Merita di essere ricordato e celebrato, perché in pace e in guerra fu sempre animato dallo stesso spirito missionario che aveva spinto dei fratelli ed una sorella ad entrare nell’Ordine Religioso che alla Certosa aveva e ha tuttora il suo centro di spiritualità e di formazione dei suoi “militi”, impegnati sempre nel bene da fare agli altri, come lui ha sempre fatto. Il partigiano Piero Cosa, il più ribelle dei “ribelli per amore” della libertà e della giustizia (due bisogni primordiali della natura umana, da soddisfare quanto il cibo e l’aria sono necessari per vivere), non visse una semplice esistenza, trascorsa nell’indifferenza e nelle comodità. Fu un vero Bastiàn Cuntrari, cioè fu sempre contrario al male e sempre fautore di buone opere. Portò a termine con onore e coraggio la sua “Buona Battaglia”, quella stessa portata a temine da un Cittadino ebreo-romano di Tarso, decapitato perché “partigiano” di un Tale che finì non su uno, ma su due “pali” incrociati, perché fra le tante cose che predicava, erano già comprese la giustizia e la libertà, per le quali l’uomo ha sempre fatto rivolte, rivoluzioni e lotte di liberazione per ottenerle.

Aprile 2021

(Fine)

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