I numeri nel viaggio di Dante

(Canva)

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ENZA SIRIANNI

Quando ci si accosta a Dante, una galassia di studi e pubblicazioni si stende sotto ai nostri occhi, a partire dai suoi primi biografi e commentatori, tra cui Giovanni Boccaccio.
Dall’autore del Decameron in poi, una lunga e foltissima schiera di filologi, esegeti, dantisti e studiosi disparati si è succeduta sino a noi, prendendo in esame le tantissime diramazioni che si dipartono dalla produzione letteraria dantesca, in special modo dal poema.
Tuttavia, sette secoli non hanno esaurito la portata ermeneutica che l’opera complessiva e la personalità di Dante offrono. Senza dubbio, la sua incredibile preparazione in molteplici campi del sapere umano, acquisita fondamentalmente da autodidatta, non finisce mai di sbalordire.
Una grandezza che proprio per il suo prismatico fulgore, meraviglia e intimorisce quasi come il thaumàzein che Platone fa spiegare a Socrate nel Teeteto, verbo che esprime il sentimento misto dello stupore e delle vertigini da cui ebbe origine la filosofia (Teeteto 55 D).

Pertanto, con tale consapevolezza, in occasione dei 700 anni dalla morte di Dante, propongo un breve approfondimento sulla presenza dei numeri nella Divina Commedia, esaminando quelli più ricorrenti con il loro significato. Mi scuso fin d’ora con chi mi leggerà per l’insufficienza della mia nota e per il riferimento a cose risapute.  Ma trattare del Sommo è arduo per la sua poliedrica sapienza e, ripeto, per la mole di studi su di lui condotti.

Prima di entrare nell’argomento, vorrei portare la mia testimonianza di insegnante di letteratura italiana in un liceo. L’aspetto pedagogico/ affettivo non abbandona mai chi ha avuto il compito di educare generazioni di giovani. Chiedo venia pure per questo.
Lo studio di Dante ha accompagnato i miei studenti, più degli altri autori, in virtù della lettura e analisi delle tre Cantiche del poema, obbligatorie nei programmi ministeriali dal terzo anno delle scuole superiori fino al quinto. Si inizia con l’Inferno al primo anno del triennio (ora definito il primo del secondo biennio), si passa al Purgatorio al secondo e si chiude con il Paradiso all’ultimo. Così è stato per generazioni di italiani che abbiano compiuto il ciclo delle scuole superiori, così è tuttora, così ci auguriamo che sarà per il futuro.
Dalla mia esperienza di docente, devo dire che i ragazzi, in generale, sono stati sempre affascinati da Dante e, in special modo, dallo studio della Divina Commedia. Ho bei ricordi al riguardo come sentire recitare a memoria da Maria Adriana, qualche anno fa, l’intero canto di Paolo e Francesca. Immaginatevi lo stupore e il mio compiacimento.

Il Poeta è sicuramente una pietra miliare nella nostra storia letteraria, ma il fatto che l’ammirazione per lui sia ancora viva nei “nativi digitali”, alle prese con le nuove metodologie unite alla tecnologia quale la Dad, indispensabile nelle sospensioni della didattica in presenza a causa della pandemia da Covid-19, ritengo vada oltre alla sua splendente fama.
Vi è un qualcosa di “sacro” nell’avvicinarsi a Dante che, oserei dire, è codificato nel nostro Dna culturale. Lo sentiamo padre, guida, modello morale, spirituale, intellettuale. Il solo nome, evoca un affettuoso, riconoscente rispetto che, nel caso degli studenti, osservo essere caratterizzato da un entusiasmo tipicamente giovanile quando, dallo studio generale dell’autore, si passa a quello del poema.
Scendere e risalire in uno spazio verticale trascendente, dal punto di vista didattico, è una delle più chiavi più efficaci per tentare di guidare gli allievi a divenire “lettori del tempo di Dante”, secondo la definizione del critico nordamericano Charles S. Singleton.(1)
Farli entrare nello spirito dei tempi, in un Medioevo, da una parte ancora persistente nella sua portata dottrinale, religiosa e simbolica, dall’altra in incipiente dissolvimento per le dinamiche di una società in trasformazione nelle sue strutture politiche, economiche, sociali per l’avvento della epopea mercantile, è meno difficoltoso di quanto si pensi proprio per la curiosità intellettuale dei giovani e per il fertilissimo terreno dantesco, non facilmente percorribile, ma con coordinate di fondo, quali la numerologia e i suoi legami misteriosi con la realtà.
Un aspetto questo che ha “stregato” chissà quanti alunni facilitando l’accesso alla complessità della Commedia.
Lo affermo convintamente. Il tre, il nove, per fermarci ai numeri più noti, non li dimenticheranno mai pensando a Dante e alla sua “divina” matematica.

Il numero come bisogno di ordine, che corrisponde all’idea di un ordine interiore, morale e formale (progettazione, costruzione e architettura), in Dante si manifesta sin dalla Vita Nuova e si ripropone nelle opere successive per avere il suo culmine nella Commedia. Il ricorso frequente ai parallelismi e alle simmetrie, infatti, racchiude il poema in una salda struttura scandita da determinati numeri. Era del gusto medievale inserire in una cornice la materia del narrare per cui sono vari gli esempi di opere incastonate in un disegno preciso come, per esempio, il Decameron di Boccaccio.
Ma se nel certaldese l’espediente della peste, il pilastro centrale attorno a cui è progettata la cornice delle cento novelle, risponde alla esigenza di rappresentare la varietà del reale su un piano orizzontale, declinata nelle sue manifestazioni terrene, dalle più basse alle più nobili, in Dante il ricorso al numero, si carica di una valenza di scopi e significati eterogenei, in alcuni casi oscuri con questioni interpretative ancora aperte e insolute, che cercherò di illustrare alla luce della sua composita formazione intellettuale.
Per la vastità della tematica, mi atterrò alle evidenze più significative sul simbolismo numerico nel poema soffermandomi, a titolo paradigmatico, su alcuni punti in cui essi trovano applicazione.

Da uomo del Medioevo, Dante aderisce al concetto della Reductio ad Unum, di derivazione aristotelica e ripreso da San Tommaso, inteso come processo graduale di perfezione contrapposta alla molteplicità intesa come imperfezione. Nella prima è implicito il finalismo a cui l’uomo dovrebbe tendere e per cui è stato creato, ritornando ad Deum. Teoria che Beatrice chiarisce nel primo canto del Paradiso, sciogliendo il secondo dubbio di Dante sulla sua incredulità di corpo pesante che ascende al cielo («Già contento requievi /di grande ammirazion; ma ora ammiro /com’io trascenda questi corpi levi.», 97-99)
Nel finalismo la casualità non esiste in quanto tutto risponde ad un ordine rigoroso dettato dalla mente di Dio, l’Uno da cui ogni cosa trae origine e a cui ritorna:

e cominciò: «Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma
che l’universo a Dio fa simigliante

Qui veggion l’alte creature l’orma
de l’etterno valore, il qual è fine
al quale è fatta la toccata norma.
(Pd, I, 103-108)
L’ordine a cui Dante si richiama nel tema di avvio della terza cantica, è ripreso più avanti, nel X canto, con indicazioni astronomiche che avvalorano un disegno di perfezione, in cui tutto ha un equilibrio inalterabile per opera della divina Trinità (1-21).
Dio, attraverso questa intima sua natura, crea un universo permeato di Armonia, mosso dall’Amore.

L’uomo è calato in un ordine fisico regolato dal numero e dalla proporzione che lo orientano nella complessità di un progetto straordinario. Un progetto che, tuttavia, non può essere decifrato nella sua interezza. Le connessioni tra numeri e realtà, quindi, si caricano di significati simbolici.
Per questo Dante pone l’attenzione su taluni numeri piuttosto che su altri e si avvale di corrispondenze nel corso del poema che hanno finalità precise nell’ambito della sua missione di uomo, di cittadino, di intellettuale, di profondo credente.

La critica è concorde nell’individuare una fonte imprescindibile della numerologia dantesca nel pitagorismo, il cui maestro è citato più volte da Dante con un sentimento di ammirazione, essendo l’iniziatore della sapienza filosofica e colui che per primo le diede nome:
[...] dico e affermo che la donna di cu’ io innamorai appresso lo primo amore fu la bellissima e onestissima figlia de lo imperadore de lo universo, a la quale Pittagora pose nome Filosofia (Cv II XV 12).

La dottrina pitagorica fu tramandata oralmente e diffusa dai seguaci del filosofo di Samo, non essendo pervenuto nulla di scritto.
Platone ne riprende i capisaldi nel Timeo dal nome del pitagorico Timeo di Locri che, nel dialogo con Socrate, Crizia ed Ermocrate, occupa una parte preminente attraverso la lunga esposizione dei principi del pitagorismo delle origini. Ma nell’opera il filosofo ateniese supera quella dottrina, considerando il numero non solo realtà in sé ma anche mezzo di collegamento tra il mondo sensibile (physis) e l’ordine intelligibile (l’idea).

Dante, pertanto, attinge al nobilissimo filosofo (Cv III XI 3) attraverso fonti intermedie con affermazioni a volte desunte da rimaneggiamenti e commenti più che da testi diretti.

Il platonismo in epoca medievale è rivisitato da Agostino che a Milano frequenta i neoplatonici, passando attraverso lo studio delle Enneadi di Plotino.
Il Dottore della Chiesa fu uno dei modelli di Dante. Citato più volte nei suoi trattati, è posto nel Paradiso (canto XXXIII) accanto a San Francesco e a San Benedetto, sotto il seggio di San Giovanni.

Altro maestro importante per la sua formazione fu Severino Boezio, il cui pensiero è influenzato più dall’aristotelismo che dal platonismo tanto da essere uno degli autori più letti dagli Scolastici medievali.
Dante lo colloca nel IV cielo , nella prima corona dei dodici sapienti con San Tommaso d’Aquino.(Paradiso, canto X)

Tra gli auctores di Dante, notevole rilievo ha pure Bonaventura da Bagnoregio, il cui Itinerarium mentis in Deum, esempio della conquista graduale della perfezione per giungere a Dio, costituisce non solo un modello per il suo viaggio ultraterreno, ma anche una delle fonti- permeata della lezione del neoplatonismo agostiniano e della ripartizione del sapere di Boezio in scienze del trivio e del quadrivio- per l’idea di un mondo regolato da proporzioni numeriche.(2)
Non basta, tuttavia, avere come riferimento tali autori per orientarsi nella fitta mescolanza e confluenza di più tradizioni nel numerologia di Dante. I rimandi, i significati, le allusioni sono molteplici e sottili confermando, ancora una volta, il suo sconfinato bagaglio di studi e conoscenze, la sua inesauribile curiosità intellettuale e la capacità di compiere sintesi mirabili tra la tradizione antica e quella del suo tempo.

Per il rapporto tra la matematica e Dante va fatta una precisazione: il poeta usava i numeri romani e il sistema di numerazione greco. Il sistema di numerazione indo arabico, ai suoi tempi, era già conosciuto, ma poco diffuso e persino osteggiato dalle autorità fiorentine per il timore di frodi nell’uso dei nuovi rapidissimi calcoli. Probabilmente, Dante ne fu a conoscenza. Del resto a Firenze esisteva una scuola famosa in cui si insegnavano “le cifre dell’indi” e in cui fu mandato Iacopo Alighieri, allievo dell’illustre Pietro Dagomari, fondatore e maestro della “bottega dell’abacho”.
Qualche decennio prima, era stato Leonardo Fibonacci (Pisa, settembre 1170 circa – Pisa, 1242 circa) ad introdurre realmente in Italia la numerazione indo arabica.
Egli apparteneva ad una facoltosa famiglia di mercanti pisani che avevano interessi commerciali sulle sponde dell’Africa mediterranea. Il padre Guglielmo, notaio nelle dogane di Bugia, ora Béjaïa, volle con sé il figliolo che, negli anni della permanenza in Algeria, studiò la matematica, la geometria e una nuova disciplina, l’algebra, apprendendo e appassionandosi ai procedimenti aritmetici dei musulmani.(3)

La Divina Commedia è composta da cento canti. Cento è potenza del numero perfetto 10, connesso all’uno monade che permea l’universo.

Dall’Uno-Dio e trino, ha origine il Tutto nella sua infinita varietà di forme e sostanza. Esso è plenitudo e completezza.

Dante ne contempla la visione nel X cielo del Paradiso, l’Empireo:

Nel suo profondo vidi che s’interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna:

sustanze e accidenti e lor costume
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch’i’ dico è un semplice lume.

La forma universal di questo nodo
credo ch’i’ vidi, perché più di largo,
dicendo questo, mi sento ch’i’ godo.

(Pd, canto XXXIII, 85-93)

Il dieci era considerato dai pitagorici un numero perfetto, in quanto costituito dalla somma in successione dei primi quattro numeri (1+2+3+4) e che nel Tetraktys del maestro Pitagora comprende i quattro principi cosmogonici (terra, fuoco, aria, acqua).

Per Dante e i medievali, probabilmente tale numero rappresentava la sintesi del Divino, il tre, e dell’umano, il sette. Le affinità sacre rinviano peraltro alle Tavole della Legge di Mosè.
Numero perfetto anche secondo Dante da cui nasce il mille, cifra grande che contiene l’idea di infinito e che da lui è espresso con il suo conio “inmillare”, verbo desueto nella lingua italiana e usato di rado nella forma “immillare.”
Nel canto XXVIII del Paradiso, versi 88-93, per descrivere il moltiplicarsi delle moltitudini angeliche, dopo le parole di Beatrice, così si esprime il Poeta, con un’allusione, secondo i commentatori, alla leggenda di Sissa Nassir(4):

E poi che le parole sue restaro,
non altrimenti ferro disfavilla
che bolle, come i cerchi sfavillaro,

L’incendio suo seguiva ogne scintilla;
ed eran tante, che ‘l numero loro
più che ‘l doppiar de li scacchi s’inmilla
.

Da notare che qui si è al nono cielo del Paradiso, denominato anche Primo Mobile, in quanto è il primo a muoversi dei 9 cieli, il cui movimento proviene direttamente da Dio, presente nell’Empireo, che a sua volta imprime il moto agli altri.
Nove sono i cerchi infuocati disposti intorno a Dio formati dalle gerarchie degli Angeli.

Il nove. Fermiamoci rapidamente su questo numero così frequente nella struttura immaginaria dei regni oltremondani e sul suo significato simbolico. Il 9 è la perfezione al quadrato ed era considerato dagli antichi il numero della rigenerazione. Dante, nella Vita Nuova (XXIX, 3) lo associa alla donna amata nell’identità Beatrice/ Miracolo, ponendolo in relazione al 3 trinitario
Nel poema, il numero, ha tuttavia, una funzione prioritariamente strutturale: nove sono i cerchi dell’Inferno, nove sono le zone che costituiscono il Purgatorio (l’Antipurgatorio, le sette cornici, il Paradiso terrestre) nove sono i cieli del Paradiso.

Per quanto riguarda il tre, è indubbiamente il numero che resta più impresso al lettore della Divina Commedia, non solo per le tre cantiche ma anche per l’uso della terzina. E poi come dimenticare le tre fiere incontrate nella selva? Queste sono manifestazioni del 3 che si colgono immediatamente ma ve ne sono numerose altre che, per la loro portata simbolica e allegorica, emergono solo da una lettura attenta e completa del poema.
Il numero, nei rapidi riferimenti già fatti, è la sintesi di Dio che scompone la sua Unità in tre persone. Nella visione medievale, peraltro, si riflette nella struttura triangolare gerarchica che compone la società degli uomini, rigidamente divisa in classi (oratores, bellatores, laboratores), inamovibile e statica come l’ordine divino dato ab aeterno).

Dante fa un uso del tre (con i suoi multipli) ad ampio raggio. Innanzitutto nella cantica dell’Inferno, suddivide i cerchi dal II al IX in tre zone in cui sono punite l’Incontinenza, la Violenza e la Frode.
Il fiume Acheronte che si origina dalle lacrime degli occhi del vecchio di Creta (Inferno, canto XXIV) a sua volta è tripartito in Stige, Flegetonte e Cocito.

Non intendo fare un pedissequo elenco della presenza del 3 nella Commedia. Citerò solo su alcuni punti liminari e passi significativi nel quadro della costruzione intellettuale dantesca.

Non è un caso, per esempio, che si entri nel primo luogo della dannazione eterna nel III canto, varco all’Inferno, rappresentazione plastica di quel che promette il resto del viaggio nella voragine.
Nel canto XI, altro canto di “passaggio” in quanto si va verso il basso Inferno, Virgilio spiega a Dante la configurazione della parte finale posta sotto la città di Dite:

 «Figliuol mio, dentro da cotesti sassi»,
cominciò poi a dir, «son tre cerchietti
di grado in grado, come que’ che lassi…
(vv.16-18)

Le delucidazioni del maestro al suo discepolo hanno un senso preciso, grazie al numero tre che serve non solo alla tripartizione degli ultimi cerchi, là dove i peccati si fanno più gravi e la prossimità a Lucifero è annunciata in un crescendo di pathos descrittivo e emotivo, ma anche a rendere omaggio ad Aristotele, il Filosofo, attraverso la citazione dell’ Etica Nicomachea, stabilendo un collegamento fra i tre peccati orrendi elencati dallo Stagirita e la volontà di Dio :

Non ti rimembra di quelle parole
con le quai la tua Etica pertratta
le tre disposizion che ’l ciel non vole
incontenenza, malizia e la matta
bestialitade? e come incontenenza
men Dio offende e men biasimo accatta
?
(vv.79-84)

Per i peccati capitali, Dante ne ripropone la tripartizione nel Purgatorio con una corrispondenza che, tuttavia, si discosta leggermente dalla topografia morale dell’Inferno per l’assenza dei peccati “irredimibili” della violenza e della frode. La spiegazione dottrinale è affidata ancora una volta a Virgilio, nel canto XVII della seconda cantica.

E ancora gli esempi addotti per indicare peccati o virtù, sono spesso tre. Così per le cose e personaggi. Sul tre, ci sarebbe altro da evidenziare, ma si corre il rischio di annoiare il lettore.

Infine, chiudendo il breve excursus sul numero perfetto, è necessario ricordare che tre sono le guide di Dante? O che sono tre le donne benedette che intercedono per lui?
Altro numero che è frequente con significati non solo strutturali, è il sette.
Vengono in mente subito i sette peccati capitali e le sette cornici del Purgatorio a cui, ad un lettore memore e attento, si associa l’immagine dell’Angelo guardiano della porta del regno che incide sulla fronte di Dante sette P, segno dei sette peccati capitali. (Purgatorio, canto IX, 73-114).

Nel canto XXX, l’apparizione di Beatrice nel Paradiso terrestre è preceduta da una processione di sette candelabri. I numeri importanti, non a caso, compaiono, come accennato, nei punti di snodo, sia spaziale che concettuale.
Nel numero sette coesistono, dunque, due significati diametralmente opposti: da una parte esso rappresenta l’umana perfezione nella compiutezza delle sue possibilità, dall’altra, invece, l’incertezza, l’ignoto, il traviamento, il peccato.

La valenza antitetica, con significati simbolico-morali, non è insita solo nel 7, ma in altri numeri per indicare il bene e il suo contrario.

Dante, del resto, conosceva gli aspetti esoterici, essoterici e magici dei numeri. Secondo alcuni studiosi, egli aveva anche cognizione della Cabala ebraica e della gematria.
Senza inoltrarci in un campo ipotetico e oscuro, cito, per chi volesse approfondire, «L’esoterismo di Dante», di René Guénon, ripubblicato da Adelphi nel 2006.

Prima di chiudere, mi soffermo sull’enigma della profezia di Beatrice nei versi 37-45 del canto XXXIII del Purgatorio, precisando che nella Commedia hanno rilievo altri numeri, quali il 2, il 4, il 5, l’11, il 6, il 12, il 24, giusto per abbozzare una completezza, termine- mi rendo conto- pretenzioso e inappropriato rispetto all’universo dantesco :

Non sarà tutto tempo sanza reda
l’aguglia che lasciò le penne al carro,
per che divenne mostro e poscia preda;

ch’io veggio certamente, e però il narro,
a darne tempo già stelle propinque,
secure d’ogn’intoppo e d’ogni sbarro,

nel quale un cinquecento diece e cinque,
messo di Dio, anciderà la fuia
con quel gigante che con lei delinque.

Chi è il cinquecento dieci e cinque a cui allude il poeta e che in cifre romane è DXV?
Quaestio vexata e ancora aperta, non essendoci certezze univoche e convergenti sull’identificazione del personaggio. Il veltro, l’Imperatore, Cangrande della Scala o genericamente un DVX (anagramma della cifra) sono tra i possibili messi di Dio individuati dall’esegesi critica nel corso dei secoli.
Personaggio reale o immaginario, quel che è interessante evidenziare è il fatto che Dante ponga questa predizione nel XXXIII, alla fine del Purgatorio, in simmetria a quella misteriosa fatta da Virgilio nel I canto dell’Inferno,100-111.

Ribadire una simile profezia, nell’imminenza del passaggio al regno della Beatitudine e Perfezione, mi pare un altro dei “segnali” del poeta che crede nel riscatto politico, morale e spirituale dell’umanità del suo tempo. Di ogni tempo. Che è il senso autentico del suo viaggio.

Note

1) Charles S. Singleton, Studi su Dante, Scalabrini, Napoli, Napoli, p.12.

2) Poiché dunque tutte le cose sono belle e in qualche modo dilettevoli; e poiché non c’è bellezza e diletto senza proporzione; e la proporzione si ritrova principalmente nei numeri, ne consegue che tutte le cose siano costituite dai numeri; e perciò «il numero è il più importante esemplare nell’animo del Creatore» e nelle cose il più notevole vestigio che guida alla Sapienza.
(Bonaventura da Bagnoregio, Itinerarium mentis in Deum, II,7)

3) Cfr. Paolo Ciampi, L’uomo che ci regalò i numeri: la vita e i viaggi di Leonardo Fibonacci. Ugo Mursia editore, 2016, Milano.

4) Un re persiano aveva chiesto al mago di corte Sissa Nassir di inventare un gioco per combattere la noia che lo affliggeva. Il mago pretese in cambio un chicco di riso sulla prima casella della scacchiera da raddoppiare per ognuna delle successive. Il re non ebbe difficoltà ad accettare. Ma, ben presto, si rese conto che la richiesta era impossibile da soddisfare in quanto procedendo con il quadrato di 2, si sarebbe giunti ad una cifra astronomica che non era contenuta in tutti i granai del suo regno.