Salam Europa!

salam-europa

GABRIELLA VERGARI

Tradotto nell’edizione italiana come Uno scià alla corte d’Europa, Mi, 2018, Salam Europa! è l’intrigante (e non a caso ossimorico) titolo originale del testo con cui Kader Abdolah, iraniano perseguitato e dal 1988 rifugiato politico nei Paesi Bassi, ci porta all’interno del viaggio che, alla fine del XIX sec., un re persiano volle fare nel nostro continente.
Un’occasione preziosa, non solo di confronto tra due mondi, il cosiddetto occidentale e il cosiddetto orientale, ma pure di riflessione sulle premesse storiche della nostra attualità e soprattutto su cosa si debba oggi intendere con il termine Europa.
Domanda sempre viva, ma più che mai in questi terribili mesi in cui la piaga della recente pandemia ha scompaginato tanti equilibri, mettendone allo scoperto le nevralgie della vulnerabilità e fragilità.
Interessantissima anche la premessa iniziale, una sorta di epigrafe che si pone a cornice di tutto il testo e gli consente di procedere un po’ a scatola cinese, sfruttando le caratteristiche narrative dell’hekayat persiana ovvero, come nel corso di una recente intervista lo stesso scrittore ha chiarito, della storia in un’altra storia, a sua volta contenuta in un’altra storia, insomma una catena di racconti: Così si racconta, ma Dio solo sa se sia riportato secondo la verità.
C’era dunque una volta un mercante molto ricco, che aveva numerose persone al suo servizio. […] Un giorno decise di lasciare tutto per fare un viaggio in terre lontane. Dio lo prese sotto la sua protezione e lo predestinò ad un viaggio fortunato. Il mercante cavalcò giorno e notte e con suo grande stupore conobbe molte altre genti che parlavano altre lingue e avevano inventato cose meravigliose, e scoprì che c’erano altre belle donne sulla terra. Un giorno, nella calura del deserto vide un castello in lontananza e cavalcò in quella direzione. Arrivato al castello, legò il cavallo a un noce ed entrò titubante per vedere quale prodigio lo attendesse.
«Mio Dio!» esclamò sorpreso.
Ecco, credo che proprio tale esclamazione e dichiarato stupore racchiudano, a ben vedere, il messaggio più riposto del libro. È come, cioè, se il protagonista (e, perché no, insieme a lui anche il lettore) finisse per sovrapporsi al mercante fortunato e fosse indotto a scoprire, attraverso mille porte e mille possibili vie, il contenuto di quel  Mio Dio!, che, a volte, l’autore spinge fino ad includere una contemporaneità tormentata e complessa.

Grazie ad un articolato meccanismo narratologico, e soprattutto grazie al consumato ma sempre valido espediente del manoscritto ritrovato – in questo caso un diario di viaggio –, gli scenari del libro si aprono infatti anche sulla Molenbeek della caccia a Salah Abdeslam, il terrorista più ricercato d’Europa, o sull’Amsterdam odierna, dove l’alter ego di Abdolah (il professor Seyed Jamal, il narratore di questa storia) tiene un corso al dipartimento di Lingue e Civiltà Orientali, oppure ancora su Geldermalesen, nel corso di una marcia di protesta per l’apertura di un centro d’accoglienza e, così di questo passo, su molti altri momenti cruciali del contemporaneo dualismo Occidente-Oriente.
È come se, in altri termini, lo scrittore si e ci volesse davvero interrogare sul senso ultimo del termine Europa, con un’esperienza personale, uno sguardo originale, non un approccio storico.
Che poi, in una simile proposta narrativa, la storia potrebbe davvero restare incontaminata da ciò che non lo sia?
L’autore ne sembra poco convinto, tant’è che fin nell’incipit precisa: Da quando ho cominciato questa storia non riesco più a distinguere il vero dal falso. Spesso invento cose, ma con mio grande stupore si rivelano più credibili della realtà. È per via della mia fuga: chi non può più tornare a casa finisce per vivere in uno stato di immaginazione. Stendhal, lo scrittore francese dell’Ottocento che nelle sue opere fondeva influenze romantiche e realiste, dichiara in un’intervista: «Non posso restituire la realtà dei fatti, posso solo mostrarne l’ombra».
Un ombra che, nel caso di questo straordinario percorso, riesce tuttavia a connotarsi di un’intensa e spesso inattesa luminosità, capace di investire non solo personaggi e protagonisti della vita occidentale fin de siècle – dalla regina Vittoria allo zar Alesandro III, da Leopoldo II del Belgio a Otto von Bismarck, giusto per citarne alcuni –, ma pure intellettuali, scrittori e imprenditori più o meno illuminati, e persino oggetti e invenzioni che hanno cambiato il mondo, segnando di netto un confine tra quello che siamo soliti definire evoluzione e involuzione.
Un lungo inanellarsi di episodi, aneddoti, incontri, delusioni, perplessità e pure equivoci, ricco di eventi imprevedibili e sempre vari che, così come coinvolgono lo scia in un continuo processo di valutazione e riflessione, altrettanto fanno con noi, rilanciandoci costantemente la domanda sulla nostra identità e su quella dei cosiddetti altri.
Di modo che, se da un lato, da veri occidentali, non possiamo non andare orgogliosi delle linee ferroviarie, dell’aspirina, delle acciaierie Krupp, e persino del gabinetti con lo sciacquone nelle case private, dall’altro non possiamo mancare di meditare sul fatto che il nome stesso di Europa provenga dall’Oriente e in fondo non ci appartenga. Non siamo noi ad avercelo assegnato, ma le popolazioni dell’Asia, che ci hanno interpretato come un luogo di tramonto, appunto l’occaso del sole.
Così come sempre all’origine orientale del nostro continente ci rimanda pure il mito, riportandoci al ratto di una fanciulla asiatica condotta da est verso ovest dal proditorio invaghimento di un dio.
E le prospettive potrebbero in qualche modo ribaltarsi.
Basti per questo il confronto tra il protagonista del libro e l’ingegnere Eiffel, tutto orgoglioso di mostrargli la sua torre: «Lo scià vuole accomodarsi per salire in cima?» gli chiese. «No», gli rispose lo scià e si girò dall’altra parte. Trovava un po’ volgare salire fin lassù come un comune cittadino a guardare le mucche al pascolo. E poi non è che se la sentisse proprio. «Vi invitiamo a venire nel nostro paese», disse. Abbiamo delle meravigliose torri antiche. Torri che si muovono, torri su cui vi trovate in un mare di stelle se ci salite di notte.» Poi cacciò in mano a Eiffel una moneta d’oro con la sua effigie, salì in carrozza e se ne andò.
Non sappiamo come abbia reagito l’ingegnere francese, sempre ammesso che l’episodio sia veramente accaduto. Ma so per certo che il richiamo di quell’invito e soprattutto di quel mare di stelle possono assumere il sapore fascinoso di un viaggio fiabesco.
Da intraprendere con animo puro e privo di pregiudizi, magari anche solo nel nome di un nuovo possibile territorio d’incontro.
Provare per credere.